
Tuxedomoon – 2002 – Live in St. Petersburg
Un disco (doppio CD live in edizione limitata a 5000 copie, formato digiclick a 4 ante, stile americano) molto probabilmente sconosciuto anche a tanti dei fan più accaniti dell’ensemble statunitense. La copia numero 1710 che ho la fortuna di possedere mi aspettava su un solitario scaffale di una libreria del Centro alcuni mesi dopo l’uscita ufficiale del lavoro, della quale non ero minimamente a conoscenza… Una circostanza a mio avviso non proprio casuale, dopo tutto quanto mi era accaduto l’anno precedente, a partire dal secondo concerto-reunion italiano di Riolo Terme (RA) del 4 novembre 2000 – che faceva parte infatti del fortunato tour della rinata formazione dei primordi di San Francisco del quale San Pietroburgo era stata tappa il 27 novembre – fino alla serata del 5 agosto 2001 alla Rocca di S. Leo (PU), nel luogo in cui trovò tragica fine la prigionia del Conte di Cagliostro.
Trattasi dunque di un live – qualcuno dirà – contenente brani non inediti, che speciale importanza può rivestire? Ebbene, nella discografia e in generale nella carriera di Tuxedomoon gioca in realtà un ruolo di fondamentale trait d’union. Oltre al rimarcabile fatto che si tratta di un intero concerto, campione di una serie di esibizioni che il gruppo tenne in Europa, soprattutto in Italia nel periodo autunno 2000/estate 2001 – e non di una compilazione di registrazioni ricavate da concerti in varie venues come già era stato Ten Years in One Night – esso rappresenta il vero ritorno all’attività, live e non soltanto, di un gruppo che pochi anni dopo l’abbandono nel lontano 1983 di Blaine L. Reininger (violino, viola, voce, chitarra, sintetizzatori) aveva formalmente interrotto la sua attività (ultimo album ufficiale, compilation e raccolte a parte, You del 1987), dedicandosi sporadicamente, oltre che ad occasionali apparizioni live celebrative, alla realizzazione di colonne sonore, musiche per teatro (The Ghost Sonata, del 1991, è infatti il resoconto a posteriori, realizzato tramite registrazioni diverse, dell’opera teatral-musicale rappresentata nell’agosto del 1982 al festival di Polverigi), ma soprattutto lasciando spazio alle carriere soliste dei suoi membri. Così come aveva fatto lo stesso Blaine: come egli afferma all’interno delle note sulla confezione del disco, “contrary to what any of us might have believed”, si era ritrovato dopo tanti anni di nuovo con i due companions con cui aveva condiviso gli esordi e i primi straordinari successi americani, prima della fuga (anti-reaganiana) in Belgio. Del resto – ricorda ancora Blaine – proprio la band (“this vehicle we have made”) li aveva dirottati in tre differenti parti del mondo, ed ora li aveva riuniti, anche se per un tempo utile a riprendere in mano le redini dei Tuxedomoon, pur restando, “amazingly enough”, le dimore dei tre dove ancora si trovano: Blaine in Grecia, Steven Brown (voce, pianoforte, sassofoni, clarinetto, sintetizzatori) in Messico, e Peter Principle (basso, chitarra, tapes, loops, programming) a New York.

Tuxedomoon
Da quell’anno in poi iniziò per gli statunitensi un nuovo percorso, quasi una nuova vita, artistica di sicuro. Dal 2002 si sono infatti susseguite uscite discografiche varie, soprattutto lavori originali in studio, già quattro per la cronaca. A questi si aggiungono uscite commercialmente “strategiche” e frequenti tournée, ormai a respiro mondiale. Ma tutta questa rinascita trovò il suo volano in quell’inverno 2000/primavera 2001, periodo nel quale ebbi la fortuna di conoscere il summenzionato trio e in particolare di collaborare con Steven Brown alla realizzazione del mio terzo lavoro in studio, Sturm. A partire dal memorabile concerto di Riolo Terme del 4 novembre 2000, subito dopo il quale ebbi modo di conoscerlo, si intrecciò infatti una sequela di avvenimenti (perlopiù sotterranei), culminati con i fatti del periodo dal 17 al 22 marzo 2001, sulle attività concernenti il quale decidemmo la sera del 5 dello stesso mese, dopo una solo performance di Steven a Brisighella (RA). Le sessioni di studio relative alle registrazioni di alcuni brani contenuti nell’album Sturm di Autunna et sa Rose anticiparono tra l’altro quelle che il mio fonico nonché musicista Gianluca Lo Presti (con il quale – alla chitarra – iniziammo di fatto le registrazioni assieme a Steven la sera del 19 marzo) realizzò con Blaine L. Reininger nel successivo aprile e che portarono all’uscita del loro CD Sun and Rain nell’autunno del 2001 (di fatto quella sera a Brisighella, dove c’era peraltro pure Blaine – come spettatore… – ebbe luogo l’incontro tra Gianluca e quest’ultimo).
In varie località, ubicate tra Romagna e Toscana, Steven soggiornò continuativamente dall’autunno del 2000 fino al 22 marzo 2001, una volta terminate le registrazioni dello Sturm; Blaine invece si trattenne ancora a Faenza (RA) fino all’estate 2001, traslando negli ultimi mesi a Cagli (PU), dove fu raggiunto dal suddetto compare e da Peter Principle nel corso di un lungo soggiorno durante il quale i tre, ospiti con a disposizione una strumentazione completa – pianoforte acustico compreso, rimasto dopo un ennesimo concerto italiano, tenuto in loco – nel locale teatro comunale, ebbero modo di riprendere a tutti gli effetti “le fila del discorso” Tuxedomoon, componendo e incidendovi alcune sessions di brani che avrebbero in seguito trovato collocazione nel primo album della “nuova era” Cabin in the Sky (2004). Tutto questo felicemente isolati dal loro paese d’origine dove nel frattempo si consumava una tragedia rimasta alla Storia: ricordo di aver fatto visita al trio in quel di Cagli la sera del 12 settembre 2001, preoccupato delle sorti dei loro familiari e/o amici rimasti in patria. In effetti la moglie di Peter si trovava il giorno prima non troppo lontana da Ground Zero, ma aveva fatto miracolosamente in tempo a trarsi in salvo. Ad ogni buon conto, sulla scia del successo dei concerti tenuti nel corso di quei memorabili mesi, e comunque di tutto ciò che complementarmente era loro successo, i tre moschettieri crederono nella possibilità di una ripartenza di quel “vehicle”, motivata dalla voglia, dalla determinazione e, in spite of the years, dalla freschezza – come peraltro testimonia il boss di Neo Acustica Oleg Kuptsov nelle note sulla confezione del digiclick – di tre uomini “stagionati” ma ancora ragazzini dentro, capaci di sfoderare un’energia e un’ispirazione fuori dal comune, pronti a rivivere, grazie a quei brani storici, l’epopea della loro magica giovinezza in una San Francisco, sorella (sotto-)culturalmente della New York raccontata dal regista Edo Bertoglio nel film Downtown ’81 dove il protagonista – se stesso – Jean-Michel Basquiat diviene simbolo di una trans-epoca particolarmente fertile e creativa (e, non a caso, nella pellicola compare anche Steven Brown ad interpretare se stesso…), forse irraggiungibile.
È quindi fortemente velato di nostalgia questo ritorno di Tuxedomoon, ma non solo. Il loro riproporre brani senza tempo, sempre comunque con attitudini (spesso e volentieri improvvisative) nuove, riarrangiando quando non destrutturando in parte parecchio materiale del resto a loro (a dir poco) familiare, si rivela presto, specie per chi ha avuto modo di vedere dal vivo in Italia l’esibizione testimoniata in questi solchi, una passerella per altri mondi, altre realtà. Il prologo, infatti, virtualmente ambientato in un aeroporto (o magari, in tanti aeroporti sovrapposti), vede Blaine entrare ed iniziare a manipolare le knob di un synth (analogico?), mentre Peter arriva ad imbracciare il basso dal quale fa fuoriuscire un giro ipnotico, nell’attesa che giunga il deambulante Steven, il quale sbuca dal fondo camminando da destra a sinistra del palco, pronto a soffiare una frase altrettanto inquietante dal suo sax soprano e svelando soltanto dopo qualche minuto, complice lo spostamento al piano, Seeding the Clouds: è dal quel capolavoro, pietra miliare di certa avanguardia in bilico tra elettronica, classica e new wave, che passa sotto il nome di Half-Mute (1980) che i nostri attingono per la maggior parte della scaletta, come a voler ribadire il loro attaccamento ad un periodo in cui la Musica era “diversa” (ricorderò sempre, a tal proposito, una frase che Steven mi disse nel corso del nostro ultimo incontro, nell’autunno 2007: “You’ll never know where music can lead you…”, o qualcosa del genere…). A voler ribadire l’attitudine rinnovata con la quale intendono riproporre i loro brani storici, una lunga suite in cui intrecciano Nazca con 59 to 1 (i primi due brani di Half-Mute, appunto) e poi di nuovo, a chiusura circolare, con Nazca: il tutto condito dalla craziness di Blaine che manovra una pistolina giocattolo prima, e una radiolina tascabile poi – provvista di ingresso per jack da 3,5 mm… – con Steven che gli risponde come se fosse al telefono…! Non mancano comunque i virtuosismi di Blaine al violino nei mitici Tritone (Musica Diablo) – costruito appunto sul diabolus in musica, il tritono Sol2/Re-bemolle3 sulla quarta corda, poi trasportato sulle successive – e Volo Vivace, più “vivace” rispetto alla versione del 1980. A conclusione, non poteva certo mancare un classico come What Use?, che dopo Again rivede Blaine al pianoforte e comprova una rinnovata tendenza decisamente più acoustic del trio, in effetti ben più di rado affaccendato con i synth rispetto al passato: a tal riguardo infatti ricordo la serata celebrativa di Ten Years in One Night a Bologna nel marzo 1988, sicuramente più elettronica e pure rock, data la presenza del batterista Paul Zahl.
Rinnovati alfieri di una nuova Musica, umani (troppo umani…) cavalieri dell’apocalisse dell’Arte, ineluttabilmente giunta a vivere il suo periodo più infausto, questi esseri senza età continuano a dettarci la via, dall’alto della loro pura, naturale, innocente genialità. “That’s honestly it, that’s truly it…”: così si accommiata Blaine dal pubblico russo, che si era fantasticamente trovato – in buona parte in maniera del tutto inconsapevole – ad assistere ad un vero incantesimo, lo scoccare veemente di una scintilla di vita sonora, in grado di travalicare i limiti dimensionali che normalmente fondano la grigia esistenza dell’uomo contemporaneo. Hanno intrapreso esistenze separate in luoghi relativamente lontani, ma da quel 2001 hanno compreso che il veicolo targato Tuxedomoon avrebbe continuato, magari a scossoni, a viaggiare, portandoli in verità verso luoghi non determinabili geograficamente. “I need to see more than just three dimensions”, cantava Blaine in What Use?: evidentemente se si è pronti a partire per un viaggio interstellare a bordo delle Lune in Frac tutto risulta possibile. Il fulcro spaziotemporale che ha permesso di perpetuare il fenomeno ha avuto per nome Romagna-2001: in fondo, specie per Steven, l’Italia è sempre stata un rifugio ideale, oltre che la culla dell’Arte… Vale forse invero la pena di rendere noto che un altro live fu registrato in quel novembre 2000: il giorno 3, infatti, prima del già citato concerto di Riolo Terme, ci fu la prima italiana dei nuovi Tuxedomoon a Longiano (FC), durante la cui serata venne realizzata una registrazione professionale (rammento bene infatti di averne ascoltato un cospicuo spezzone nel corso di un breakfast con Steven durante i giorni di lavoro in studio a marzo 2001) dell’esibizione del trio. I motivi per i quali non fu quella registrazione a meritare la pubblicazione non mi sono esattamente noti, anche se è facile prevederli. Oleg Kuptsov di Neo Acustica, nelle note contenute all’interno della confezione del disco, racconta della ritrosia della stampa russa nei confronti dell’evento, ma nel contempo non ha difficoltà a rammentare che se proprio l’organizzazione non aveva un problema era quello delle risorse economiche… Era infatti da pochi anni che il suolo russo era diventato terra di conquista musicale per varie formazioni occidentali, anche italiane (a parte i “grandi”, storici vessilli della canzone italiana di sanremese memoria che tuttora vantano interminabili tournée dal Baltico agli Urali e ritorno…), per le quali gli ex-sovietici, ormai cospicuamente arricchiti, erano pronti ad investire cifre tutt’altro che trascurabili. Poco contava, evidentemente, come racconta Blaine nelle note del disco, che vari CD sui quali i fan russi chiedevano di ricevere gli autografi fossero bootleg (o, per meglio dire, pirata): del resto, più di un fan possedeva una discografia anche più fornita di un qualsiasi Tuxedomoon!
Anche e soprattutto guardando ai giorni nostri, una riflessione è chiaramente d’obbligo. L’Oriente si è, nel corso degli ultimi vent’anni, sviluppato musicalmente, mentre qui da noi – cosa che già si misurava appunto fin dai primi anni 2000 – si fanno passi indietro sempre più marcati e gravi. Il fatto che i russi di Neo Acustica, piccolissima label, abbiano creduto nella rinascita dei Tuxedomoon dimostra purtroppo – e non mi si dica che cado in errore, dopo ciò che ho vissuto in quegli anni – quanto gli italiani (intendo chi aveva in mano il mercato discografico indipendente), che avevano avuto la fortuna di ospitare il ritorno alle scene dello storico gruppo, non abbiano capito cosa stava accadendo al suo interno, oppure non abbiano saputo sfruttare una grande occasione. Non sarà certamente l’ultimo caso in cui il paese universalmente – ed a ragione, senza dubbio – considerato la “culla dell’Arte” dovrà rimediare figure deprimenti proprio in relazione all’incapacità di salvaguardare il proprio patrimonio artistico da un lato, e dall’altro di gestire le innumerevoli risorse in termini di creatività che giungono dal suo interno, o comunque che qui, in forme diverse, nascono e crescono.