
Storia del Rock 1965
Il 1965 è l'anno zero della musica rock: dalla rabbia giovanile degli Who e dei Rolling Stones alle prove della maturità dei Beatles, del folk-rock di Bob Dylan, passando per l'irriverenza dei Fugs e i primi concerti semi-clandestini dei Velvet Underground. E' anche l'anno del primo album della Scena di Canterbury, del capolavoro free-jazz di John Coltrane e degli esperimenti d'avanguardia di Steve Reich e di Gordon Mumma.

Peanuts sul Time
A sentire oggi “Eve of Distruction” di Barry McGuire pare quasi di scorgere una vaga e soffusa profezia nel suo catastrofico ritornello. Il 1965 è stato infatti, più di qualsiasi altro anno, quello in cui tutto è morto e nato nello stesso tempo. Le regole del rock, da sempre legate a quelle del blues e del folk, si fanno autonome e trovano nuove strade da battere, tanto che si comincerà a parlare di rock psichedelico e garage rock. E’ l’anno in cui tutto pare possibile, perfino che Charlie Brown possa comparire sulla copertina del Time, mentre la radio non smette di trasmettere nuovi rivoluzionari capolavori, rilasciati tutti nell’arco degli stessi dodici fertili mesi. Eppure, per poter veramente rinascere, qualcosa doveva soccombere; ecco quindi che il 1965 è anche l’anno del necrologio di due personaggi importanti per la storia del Novecento: da una parte il controverso attivista afroamericano Malcolm X, assassinato a febbraio per mano di tre membri della “sua” Nazione Islamica; dall’altra, lo storico Primo Ministro inglese Winston Churchill, deceduto a novant’anni per una trombosi cerebrale dopo aver guidato l’Inghilterra in quella che lui stesso ha definito “la sua ora più buia“.

Chicago Tribune, 8 marzo 1965
Ma se nel rock quasi s’intravede la strada e la speranza per un mondo migliore, nei fatti il malcontento sociale continua a persistere. Ne è un esempio lampante la cosiddetta rivolta di Watts dell’11 agosto 1965, quando nel quartiere di Los Angeles un agente di polizia ferma l’afroamericano Marquette Frye con l’accusa di guida in stato d’ebbrezza, con la situazione che sfugge di mano quando il ragazzo viene portato con veemenza al distretto di polizia. Fuori si radunano in centinaia e la polizia reagisce in maniera violenta, caricando ed arrestando altre tre persone, tra le quali vi sono i familiari di Marquette. Il fatto innescherà sei giorni di violenti disordini e dilagante tensione etnica, con un bilancio finale di trentaquattro morti e più di mille feriti, in un’America già messa alle strette dalle conseguenze dell’assolutistica politica estera di Lyndon B. Johnson, dopo la sua decisione di intensificare le forze nel sud-est asiatico nel 1964. Nei primi mesi del 1965, il coinvolgimento diventa infatti diretto quando sbarcano nel Vietnam del Sud i primi militari statunitensi, mentre altre compagini irrompono altrove con pesanti bombardamenti aerei che diverranno negli anni operazioni sistematiche di un’agguerrita politica di Search and Destroy. Per gli americani comincia allora la guerra più difficile, contro un nemico ostinato e spesso invisibile, una guerra che per la prima volta viene seguita in diretta televisiva da milioni di spettatori in tutto il mondo, contribuendo a scavare le prime grandi crepe all’interno dell’opinione pubblica. Proprio il 15 ottobre 1965 l’organizzazione studentesca “Comitato di coordinamento nazionale per la fine della guerra in Vietnam” (NCCEWV) allestisce la prima manifestazione pubblica negli USA, in cui vengono perfino bruciate le cartoline di leva, fertilizzando così il terreno per quella che sarà la Controcultura della seconda metà degli anni Sessanta.
Musica
In questo clima, il 1965 in musica è contrassegnato dalla comparsa sulle scene di molte rivoluzionarie rock-bands, anche se di fatto l’unica ad incidere un vinile quell’anno sono gli Who, non contando l’album postumo dei primissimi Pink Floyd. Abbiamo poi il consolidarsi della fama dei Beatles e dei Rolling Stones, oltre a due album inclassificabili: quello dei Wilde Flowers, prototipo di quello che diverrà nel giro di pochi anni la scena di Canterbury, e l’esordio degli irriverenti Fugs, gruppo d’enorme influenza nella formazione di artisti come Frank Zappa e Captain Beefheart. Il 1965 è anche l’anno in cui John Cale forma con Lou Reed quelli che saranno gli embrioni dei futuri Velvet Underground. Inizialmente col nome The Primitives, poi mutato in Falling Spikes, nel 1965 suonano dal vivo semplici versioni di quelli che diventeranno grandi classici come The Black Angel’s Death Song, Venus in Furs, Heroin e I’m waiting for the man. Inizialmente suona con loro addirittura il compositore minimalista, allievo di La Monte Young, Tony Conrad, che ricordiamo anche per aver registrato un album con i Faust (Outside The Dream Syndicate – 1973).
E se nel 1965 il folk sembra trovare la sua annata migliore, con cantautori come Bob Dylan, Richard Fariña, Donovan, Bert Jansch, Eric Andersen e Fred Neil, oltre a due band pionieristiche come i Byrds o i Beau Brummels, in America l’intensificarsi della guerra in Vietnam sembra trovare spunto per una inedita empatia sociale che porta i bianchi ad immergersi nelle radici del “povero” blues di Chicago con artisti come Paul Butterflied e John Hammond, proseguendo quel lavoro di riscoperta culturale iniziato oltreoceano in Inghilterra con Alexis Korner e John Mayall, padri spirituali del revival blues britannico. Nello stesso percorso di ricerca delle identità locali si possono perfino inserire, a loro modo, le prime contemporanee vicende ska dei Wailers di Bob Marley in Giamaica. Infine, jazz ed avanguardia si arricchiscono di nuovi interessanti episodi, a cominciare da un lavoro di Steve Reich destinato a rivoluzionare il corso della stessa musica d’avanguardia, dalla violenza sonora e multi-mediale di Gordon Mumma, per finire con l’influenza latente ma fondamentale dello scrittore William Burroughs, padre spirituale della Beat Generation ed uno dei personaggi più innovativi della cultura dell’intero Novecento.
Il Rock

The Who
Cominciamo dall’Inghilterra, con l’esordio col botto degli Who con My Generation, forse il primo vero gruppo di angry young men. Pete Townsend (chitarra), Keith Moon (batteria), John Entwistle (basso) e Roger Daltrey (voce) sono quanto di più diverso si è mai visto e sentito al Marquee di Londra, locale dove si presentano abitualmente sul pacco con le Union Jack sulle spalle e quell’araldico bersaglio divenuto poi un vero e proprio simbolo degli Who nell’immaginario collettivo: un’idea del geniale Keith Moon, che conosceva bene gli emblemi della pop-art inglese e americana (Peter Blake, Jasper Johns) grazie ai suoi studi alla scuola d’arte. Alla fine di ogni concerto gli Who fanno a pezzi i loro strumenti, come a voler esorcizzare tutta la delusione di una generazione in preda al nichilismo, che si sente incapace di trovare un posto all’interno della società. Proprio la provocazione è l’humus da cui nascono due brani burrascosi come “I Can’t Explain” e “My Generation“, i cui versi “I hope I die before I get old” quasi preludono all’atteggiamento punk e a quel “No Future” che i Sex Pistols avrebbero sbraitato una decina d’anni più tardi.

The Rolling Stones
La stessa delusione la possiamo riscontrare anche nei Rolling Stones, che nel 1965 trovano la propria direzione artistica, allontanandosi prepotentemente dal canonico blues degli esordi. In Out of Our Heads è contenuta la provocatoria “(I Can’t Get No) Satisfaction“, manifesto per antonomasia dell’insoddisfazione giovanile coeva, con un riff nato nella mente di Keith Richards al Fort Harrison Hotel di Cleveland, quando gli Stones si trovano nel mezzo del loro tour americano. Il chitarrista utilizzerà poi uno dei suoi più nuovi giocattoli, un Gibson Maestro FZ-1 fuzz-tone, aggiungendo un bordo frizzante al suo onirico riff, per il quale ha anche già scritto un titolo di grande impatto. Mick Jagger completa quindi il testo, ispirato dallo spirito di alienazione verso quel consumismo dilagante che i Rolling Stones hanno visto in America, tuttavia c’è anche chi maligna sulle implicazioni sessuali di alcuni versi. Con queste premesse, non stupisce quindi il fatto che i Rolling Stones non entrino nelle grazie della Regina, che invece proprio il 24 ottobre del 1965 nomina i Beatles Baronetti dell’Ordine dell’Impero Britannico. Mick Jagger dovrà aspettare quasi quarant’anni per poter ricevere quel titolo e non prima di essersi ironicamente lamentato in un documentario: tuttavia, nel 1997 Sir Paul McCarney si trovava giá due passi avanti ed era stato nel frattempo nominato Cavaliere.

The Beatles
Parlare dei Rolling Stones senza menzionare i Beatles è un’operazione molto difficile. Ecco quindi che il 1965 è, infatti, anche l’anno del leggendario Rubber Soul, storico disco del quartetto di Liverpool che ha ridefinito inesorabilmente le sonorità dei Fab Four, coi testi che per la prima volta si tingono di acute riflessioni, a volte anche ambigue come nel caso di “Norwegian Wood“, ispirata dalle avventure extra-coniugali di John Lennon e dove, per la prima volta, si può sentire il suono del sitar su un disco occidentale, grazie al crescente interesse di George Harrison per la cultura indiana. Musicalmente parlando, l’oligarchia compositiva di Lennon e McCartney comincia qui a trovare un suo geometrico equilibrio, con lo spirito sarcastico quanto nostalgico del primo (“In My Life”) in combinazione con l’ottimismo infinito del secondo (“Michelle”), in un ossimoro vincente spinto soprattutto dal lavoro dietro le quinte del geniale produttore George Martin.
Più che i Beatles, tuttavia, a preannunciare l’era psichedelica è stato uno degli album postumi più importanti datato 1965. Stiamo parlando di Pink Floyd 1965: Their First Recordings, che vedrà la luce soltanto nel 2015 in tiratura limitata a sole 1000 copie; si tratta del primo atto ufficiale dei Pink Floyd, all’epoca in forte crisi d’identità: nel giro di un anno, con una formazione instabile, si battezzano infatti dapprima Sigma 6, poi Abdabs ed infine Spectrum Five. Il disco, contenente canzoni registrate durante le feste di Natale del 1964/65, è l’unica testimonianza incisa del gruppo col chitarrista Bob “Rado” Klose e la cantante Juliette Gale, la prima moglie di Richard Wright, e si compone di quattro brani originali scritti da Syd Barrett, uno da Roger Waters (“Walk with Me Sydney”) ed una celebre cover di Slim Harpo (“I’m a King Bee”), quest’ultima già impressa su acetato assieme a “Lucy Leave” e reperibile in diversi bootleg. Il merito dell’operazione è del tecnico del suono Andy Jackson, che ha saputo dare aria ai bizzarri accordi e ai testi stravaganti di Syd Barrett, come per esempio nel blues psichedelico di “Butterfly” che sembra presagire quello che saranno i Pink Floyd di “Astronomy Domine”.

Mr Tamburine Man
A metà strada tra il folk e l’esplosività del rock ci sono, infine, i Byrds, storico primo gruppo di David Crosby. Nel 1965 esordiscono con Mr Tamburine Man che, oltre a quattro brani di Bob Dylan e altri cantautori folk riempiti dello spirito dei Beatles, propone anche alcuni brani originali scritti da Gene Clark in stile “jingle-jangle”.
Nello stesso anno rilasciano Turn! Turn! Turn!, più manieristicamente schierato sul fronte Peter Seeger e meno ispirato del precedente, nonostante l’immortale bellezza della title-track. I Byrds erano un punto di congiunzione tra il Merseybeat britannico e il folk americano. L’anno dopo svoltano verso sonorità più psichedeliche col bellissimo album Fifth Dimension.
Il Folk

Highway 61 Revisited
Parlare degli anni Sessanta senza citare Bob Dylan pare quantomeno impossibile, oltre che blasfemo. Nel 1965 pubblica due album – Bringing It All Back Home e il capolavoro Highway 61 Revisited – che lo pongono avanti anni luce rispetto ai suoi contemporanei, sia americani che britannici, in quanto a capacità di interpretare i pensieri della sua generazione. I temi sociali trattati perdono ogni aspetto di rabbia e contestazione per diventare riflessioni intimiste e personali; musicalmente Dylan decide di farsi accompagnare dalla Paul Butterfield Blues Band arricchendo di conseguenza la strumentazione con chitarra elettrica e tastiere, e rendendosi alieno al folk classico (creando di fatto, insieme ai Byrds, il folk-rock). Per questo motivo viene aspramente criticato dai puristi del folk. Indimenticabili i brani Like A Rolling Stone e il blues tragico di Desolation Row che mostrano chiaramente quanto Bob Dylan sia il musicista più maturo e imitato di quegli anni.
Un altro grande nome del folk è indubbiamente quello dello scozzese Donovan che nel 1965 rilascia due album: What’s Bin Did e soprattutto, Fairy Tale, uscito a pochi mesi di distanza; è proprio con quest’ultimo che il cantautore dimostra tutta la sua caleidoscopica lucentezza, tra riflessioni mistiche e malinconie hippie. Donovan stava facendo in Europa quello che Bob Dylan aveva fatto negli anni precedenti negli States, diventando un emblema del folk acustico capace di comunicare temi di amore, pace e antimilitarismo, seppur le sue ballate mantengono aspetti bucolici da giovane sognatore che Bob Dylan aveva ormai superato. A differenza di Dylan, nel 1965 non ha alcuna strumentazione elettrica ma si mantiene in ambienti rigorosamente acustici. L’influenza di Dylan è ancora trasparente in brani come “Colours” e “Summer Day Reflection Song”, anche se altrove Donovan ha saputo dare un’ulteriore tridimensionalità al folk contemporaneo, come ad esempio in “The Ballad Of A Crystal Man” e “Sunny Goodge Street”, quest’ultima scalfita da una serie di strumenti come trombe, violoncelli, flauto e organetto, con il folk che quasi va ad ibridarsi con il chamber jazz.

Bert Jansch
Nel repertorio di Donovan c’è spazio anche per l’armoniosa proto-psichedelia di “Oh Deed I Do”, una canzone firmata dallo scozzese Bert Jansch, anch’esso alla sua prova discografica nel 1965 con l’album omonimo. Si tratta di un disco, quello del futuro fondatore dei Pentagle, registrato nella cucina del suo appartamento londinese con solo un microfono ed una chitarra in prestito, ma che ha avuto negli anni un forte impatto su chitarristi come Neil Young, Jimmy Page e Nick Drake, miscelando gli elementi del folk tradizionale inglese con quelli del blues e del jazz, anche se questo polinomio stilistico verrà meglio ridefinito nel catalogo discografico dei suoi Pentagle. Il disco include quindici canzoni, tra le quali la più nota è “Needle of Death”, ispirata dalla morte per overdose dell’amico e cantante Buck Polly.

Celebrations For A Grey Day
Al pari di Dylan, suo grande amico, anche Richard Fariña è stato uno dei nomi piú rilevanti all’interno della Controcultura americana. Un anno prima di morire in un incidente, lo scrittore e cantautore pubblica Celebrations For A Grey Day assieme alla compagna Mimì Baez, sorella minore della più nota Joan; si tratta di un disco di folk maturo ed elegantemente costruito, un repertorio ammorbidito tavolta dal suono del dulcimer e da alcuni incantevoli interludi strumentali, tra cui ricordiamo i due brani più noti: la vivace “Reno Nevada” e la più sommessa “Pack Up Your Sorrows”.

Today Is the Highway
Tra i cantautori più importanti del folk troviamo anche Eric Andersen, talentuoso giovane di Pittsburgh poi insediatosi al Greenwich Village, che nel 1965 si presenta discograficamente con Today Is the Highway, un disco un po’ immaturo ma che viene contrassegnato da uno spirito introspettivo ed intimista, lontano dall’influenza dei grandi nomi del genere. A San Francisco, i Beau Brummels esordiscono invece nell’aprile del 1965 con Introducing the Beau Brummels, in una serie di dodici brani originali (prevalentemente composti dal chitarrista Ron Elliott) tra cui spicca l’avvenieristico folk-rock di “Just A Little” e la hit mondiale “Laugh Laugh” che procura alla band la definizione di “risposta americana ai Beatles” ma che è, in realtà, più vicina ai primi atti degli Zombies.
Gli Inclassificabili

The Wilde Flowers
Dei Wilde Flowers avevamo già brevemente parlato all’interno delle vicende relative al 1963, anno in cui nasce a Londra il Daevid Allen Trio. Proprio in quegli anni, i fratelli Brian e Hugh Hopper formano un gruppo di “beat contemporaneo” a cui nel 1964 si aggregano tre luminari di Canterbury: Kevin Ayers, Robert Wyatt e Richard Sinclair. Si tratta del primo nucleo dei Wilde Flowers, una band dal nome ispirato ad un manuale di botanica e ad Oscar Wilde, con una formazione instabile attiva dal 1963 al 1969 di cui nessuno si accorge all’epoca, ma che di fatto sarà la pietra angolare della Scena di Canterbury. I Wilde Flowers si presentano quindi sulle scene con le camicie cucite dalla signora Hopper, suonando nelle sale da ballo alcune cover sullo stile di Chuck Berry. L’unica testimonianza di questa effimera avventura è un disco intitolato Tales of Canterbury – The Wilde Flowers Story stampato postumo nel 1994 dalla Voiceprint, che è fondamentalmente una raccolta di brani registrati da Brian Hopper in vari momenti fra il 1965 ed il 1969; la prima sessione di registrazione di cui sia rimasta traccia è datata 16 marzo 1965, i cui risultati sono due tracce come “She’s Gone” del conio di Kevin Ayers e “Memories” di Hugh Hopper, ma risalgono allo stesso anno anche le due versioni embrionali di “Slow Walkin’ Talk” (poi riletta dall’inedito duo Robert Wyatt / Jimi Hendrix) e “A Certain Kind” (che verrà meglio ridefinita per il primo LP dei Soft Machine).

The Fugs
Un altro album inclassificabile del 1965 è il debutto dei Fugs con The Fugs First Album che, a dispetto della poca originalità del titolo, nasconde al suo interno una acuta stravaganza fino ad allora probabilmente mai esistita all’interno del rock, anticipando quella che sarà la corrosiva satira musicale di Frank Zappa. Nel 1964, avevamo accennato come gli Holy Modal Rounders (Pete Stampfel e Steve Weber) confluiscono l’anno seguente nei Fugs, ma di fatto del duo soltanto il chitarrista Weber fa a tempo ad incidere il primo LP assieme a Ed Sanders (voce), Tuli Kupferberg (voce, percussioni), Ken Weaver (batteria, voce), Vinnie Leary (chitarra) e John Anderson (basso). L’esordio dei Fugs è scandalosamente schietto, una rumorosa baraonda di acidi lamenti e canti bellici, una guerra al perbenismo affrontata a muso duro tra poetici riverberi della Beat Generation e prodromi di musica punk, nel mezzo di lampanti citazioni di William Blake (“Ah, Sunflower Weary of Time”) e scabrosi inni sessuali (“Boobs a Lot”).
Il Jazz

John Coltrane – A Love Supreme
Nel campo del jazz troviamo ancora capolavori immortali. Il 1965 è sopratutto l’anno del leggendario sassofonista John Coltrane che pubblica quello che da molti è riconosciuto come il suo capolavoro – A Love Supreme – nonché uno dei più importanti album jazz di sempre. Coltrane nel ’65 è già un gigante; ha suonato e si è formato con Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Miles Davis e Thelonius Monk. Insieme a Ornette Coelman ha contribuito a scardinare le regole del jazz classico e dar vita al free-jazz. In A Love Supreme mostra di non essere più un semplice sassofonista jazz ma un vero compositore a 360 gradi. Troviamo quattro suite dedicate all’amore supremo verso Dio che vanno dalla “presa di coscienza” (Acknowledgement), riconoscimento (Resolution), proseguimento (Pursuance) e Salmo o Preghiera (Psalm). E’ incredibile notare che Coltrane, sempre nello stesso anno, pubblica altri cinque album che reggono il confronto con A Love Supreme, seppur la storia li ha fatti passare in secondo piano nonostante la loro oggettiva grandezza. A giugno è la volta di Ascension, uno dei capolavori del free-jazz più “free”, ad agosto esce Sun Ship che affronta ancora tematiche religiose, a ottobre Kulu Se Mama e infine, a novembre, Meditations. Una creatività esplosiva e incontenibile spiegabile solo col termine di “genio assoluto” che brucia la sua energia più in fretta degli altri. Appena due anni dopo Coltrane muore all’età di quaranta anni per un tumore al fegato.

Don Cherry – Complete Communion
Il polistrumentista Don Cherry è stato influenzato dai principali protagonisti del free-jazz, da Coleman a Coltrane, da Albert Ayler a Sonny Rollins, aggiungendo però sonorità più divertenti, giocose e meno incentrate sulla tecnica del musicista. Ha, in un certo senso, rimesso il corpo al centro della musica jazz e ridotto la distanza tra musicista e ascoltatore che era diventata enorme con i giganti del jazz di quegli anni. Il suo album del 1965 è Complete Communion, diviso in due lunghe suite da venti minuti.

Speak No Evil
Il sassofonista post-bop Wayne Shorter è invece autore di un jazz estremamente raffinato ed elegante che è affascinato da “paesaggi magici, fiori selvatici, ombre evanescenti, leggende e folklore”. Il suo album del 1965, Speak No Evil mostra un jazz che è sopratutto il classico hard-bop con occasionali elementi free-jazz, non rivoluzionario ma piacevole e tecnicamente perfetto.

Marion Brown Quartet
Chiudiamo con il sassofonista Marion Brown, che aveva già suonato con John Coltrane in Ascension. Il suo Marion Brown Quartet, registrato nel 1965 ma pubblicato l’anno dopo, segue la strada del maestro e rappresenta uno degli album free-jazz più autentici, vitali e radicali degli anni sessanta. I colossali ventidue minuti di Capricorn Moon rappresentano probabilmente uno dei punti più alti della sua carriera di musicista.
Avanguardia

Steve Reich – Early Works
L’avanguardia del 1965 attende ancora i suoi grandi capolavori ma continua a ricercare suoni estremi, in particolare nell’ambito della ripetizione e della manipolazione sonora. Maestro nella manipolazione dei nastri magnetici, l’anno prima del manifesto “Come Out“, Steve Reich registra “It’s Gonna Rain” che è un esperimento praticamente identico a Come Out. Registra la vera voce di un predicatore cristiano che professa l’imminente fine del mondo con un nuovo diluvio universale, e sovrappone vari nastri magnetici mettendoli in controfase, fuori sincrono (phasing), creando di conseguenza suoni inattesi e imprevedibili. Questi esperimenti giovanili di Reich da una parte mostrano le potenzialità enormi della tecnologia nella musica moderna, dall’altra dettano la strada per quelli che diventeranno i dettami di tutto il movimento minimalista (ripetizione e sovrapposizione fuori sincrono).

Gordon Mumma Dresden Interleaf
Gordon Mumma è un compositore d’avanguardia inserito nell’ambito della musica gestuale. L’aspetto innovativo di Mumma e della musica gestuale è quello di arricchire le composizioni con un aspetto visivo che diventa fondamentale e si aggiunge prepotentemente a quello sonoro (sopratutto proiezioni ma anche gesti del compositore o dei musicisti). Aveva già registrato nel 1963 il colossale “Megaton” ma nel 1965 raggiunge l’apice sonoro/visivo descrivendo, con “Dresden Interleaf“, i bombardamenti di Dresda del 13 Febbraio del 1945. Si tratta di un maestoso Requiem d’avanguardia contro la guerra. I rumori elettronici simulano i voli degli aerei, il lancio delle bombe e gli allarmi anti-aerei, rendendo assolutamente inscindibili il concetto di suono e visione. L’influenza di Mumma è innegabile; tantissimo del rock odierno ha nell’aspetto visivo un elemento fondamentale, così come i suoi violenti muri di suono rimandano chiaramente a Glenn Branca.
La Musica Concreta ha già prodotto i suoi migliori lavori negli anni precedenti ma nel 1965 Alvin Lucier, un musicista appassionato di tecnologia e di cibernetica, propone l’utopistico esperimento di registrare, tramite elettrodi appositamente posizionati, le sue onde cerebrali e da queste trarne musica. L’esperimento – “Music for Solo Performer” – non ha valori prettamente musicali ma serve a mostrare le potenzialità della tecnologia nella musica oltre a un indubbio valore storico.

William Burroughs
Segnaliamo, infine, il misconosciuto Call Me Burroughs di William Burroughs, che non è un album musicale ma si tratta della lettura, da parte del suo stesso autore, di brani ripresi da alcune delle sue principali opere (Il pasto nudo, La macchina morbida e Nova Express) che utilizzano il metodo “cut-up” sviluppato dallo stesso Burroughs assieme al pittore Brion Gysin. L’aura quasi leggendaria dello scrittore, uno dei simboli della Beat Generation, è al culmine negli anni Sessanta ed i suoi testi e l’album sono ritenuti fondamentali, tanto che tutti i Beatles e i Rolling Stones ne possiedono una copia. In una rumorosa ed ossessiva scansione ritmica di paesaggi fantasmagorici ed incubi psicotropi, Burroughs infesta le nostre orecchie con le sue lisergiche spoken words. E’ inutile sottolineare quanto quelle parole avrebbero influenzato l’attitudine alla musica di una serie di musicisti che si metteranno in fila per cercarlo: dagli Stooges a David Bowie, dai Throbbing Gristle fino a Kurt Cobain, non dimenticando nel mezzo i Soft Machine, che si battezzano nel 1966 proprio col nome del suo più celebre romanzo.
Il Blues

John Mayall
Nella fervente Inghilterra, il padre fondatore del British Blues Alexis Korner rilascia nel 1965 il suo Alexis Korner’s Blues Incorporated, registrato nel 1963 ma edito dalla Decca soltanto due anni più tardi. Per Korner è il primo lavoro in studio e per l’occasione viene aiutato da Johnny Parker (pianoforte), Mike Scott (basso), Phil Seamen (batteria) e dai due funambolici sassofonisti Dick Heckstall-Smith e Art Themen, che contaminano il disco con i loro archetipi del jazz in “Blue Mink” (Thelonius Monk, Charles Mingus) e “Chris Trundle’s Habit” (Charlie Parker). Al pari di Korner, l’altro grande divulgatore del verbo blues John Mayall esordisce su vinile con John Mayall Plays John Mayall coi suoi Bluesbreakers, una formazione variabile da cui emergeranno alcuni dei più grandi musicisti della storia, Eric Clapton a Peter Green in primis. Si tratta di un album molto particolare, se non altro per il suo essere stranamente composto da canzoni originali scritte dallo stesso John Mayall, in netto contrasto con la tendenza allora in voga di includere un grande quantitativo di riletture dei classici blues americano. Registrato dal vivo al Klooks Kleek di Londra, il disco si compone di una serie di brani semplici ma di grande effetto, con la chitarra di Roger Dean (omonimo del più famoso disegnatore) ed il basso di John McVie (futuro Fleetwood Mac) che pennellano dodici quadretti blues di ottima fattura, come la divertente “Crocodile Walk” e la spumeggiante “Crawling Up a Hill”.

John Hammond
Per quanto concerne il revival blues americano, spiccano nel 1965 spiccano due nomi. Cominciamo con Paul Butterfield, autodidatta ed armonicista di grande talento, nonché il primo a portare alla ribalta nelle grandi platee del rock i canoni del blues di Chicago; nel 1964 forma infatti la Butteflied Blues Band assieme a Elvis Bishop e Mike Bloomfield (chitarra), Jerome Arnold (basso) e Sam Lay (batteria). Alla fine dell’anno la band entra nella scuderia della Elektra, ma la loro esibizione al Festival di Newport nel 1965 farà storcere il naso a molti puristi del blues: in tutta risposta, la Butterflied Blues Band aggrega a sè il pianista Mark Naftalin e lancia come un petardo sul mercato discografico il primo disco omonimo. Per la tensione con cui viene vissuto all’epoca il Chicago Blues, l’album è per il pubblico un vero e proprio shock, nonostante l’intensità e la passione sprigionata da ogni singola nota, con l’armonica di Butterfield che detta l’intero stato d’animo del disco a cominciare da “Born in Chicago”. Nello stesso anno si colloca il terzo album di John Hammond, un altro ambasciatore della musica blues afro-americana. Figlio del produttore della Columbia, con una voce molto espressiva ed una tecnica strumentale sopraffine, Hammond è a suo modo rivoluzionario quanto Butterflied, essendo anch’egli uno dei primi bluesmen bianchi senza contaminazioni rock o beat, con una rilettura purista del blues che concede solo qualche deviazione verso il folk del Greenwich Village. Nella primavera del 1965, Hammond cambia tuttavia le carte in tavola e rilascia So Many Roads, irrorando i classici del blues rurale di una certa elettricità urbana, anche grazie alla collaborazione con musicisti del calibro di Duane Allman, Mike Bloomfield e Robbie Robertson, oltre al prezioso armonicista Charley Musselwhite.