
Sette sintesi progressive: King Crimson, Pink Floyd, Van der Graaf Generator, Gentle Giant, E.L.&P., Yes, Genesis. L’eredità di sette culti, oggi.
Claudio Milano e la sua idea di progressive rock. L'eredità di sette culti, oggi.
E’ un immenso piacere ospitare sulle pagine di Psycanprog il primo (e speriamo non l’ultimo) articolo di Claudio Milano, uno degli artisti più eclettici e poliedrici che mi sia capitato di conoscere e ascoltare. punta di spicco dell’avanguardia rock italiana ed europea. Musicista, cantante, attore (o magari cantattore come lui ama definirsi), pittore, musicoterapista, regista, fotografo, Claudio rappresenta l’immagine dell’artista completo, direi totale, che supera ogni barriera per creare un’arte senza limitazioni, che riesce a spaziare attraverso i nostri sensi, dal suono alle immagini. Proprio considerata la grandezza dell’autore non potrà che risultare di estremo interesse leggere e capire le sue idee sul rock progressivo classico, la sua visione “progressiva” non intesa in modo ristretto ma nel senso il più ampio possibile. Una visione figlia di un lungo percorso di ascolti iniziati sin dalla più giovane età che è stata un trampolino di lancio per essere oggi un vero pioniere del suono. Perchè il progressive non può e non deve essere un clichè di vecchi suoni da riproporre uguali a se stessi ma vera ricerca e sperimentazione. Proprio quello che fecero negli anni settanta i “sette culti”. (Valerio D’Onofrio).
Sette sintesi progressive: King Crimson, Pink Floyd, Van der Graaf Generator, Gentle Giant, E.L.&P., Yes, Genesis. L’eredità di sette culti, oggi.
Prologo
Ogni fenomeno musicale, va analizzato nel contesto culturale e sociale in cui si muove. Rileggerne i passi qualche tempo dopo, vale a darne una luce diversa su un quadro che appare definito, ma che, in realtà, tale non è, perché in costante evoluzione. Tanti sono i documenti che emergono dopo decadi, tanti gli innesti inimmaginabili con altri generi, che vanno a germinare, inaspettatamente, tanto tempo dopo e tali da rimettere in discussione quanto scritto, detto, pensato.
Queste brevi sintesi, ragionate, ma comunque, dichiaratamente personali, non raccontano dunque, i passi essenziali di un movimento, che va analizzato in un’ottica assai più ampia. Non solo, non raccontano, in parte, quanto io stesso considero gli episodi più riusciti del mondo progressivo (ad opera di, solo per citare pochi nomi: Frank Zappa, Nico/Cale, Brian Eno, Robert Wyatt, Henry Cow, Univers Zero, Popol Vuh, Captain Beefheart, il Tim Buckley di Lorca, Blue Afternoon e Starsailor, i tardi Talk Talk e Mark Hollis, John Zorn, Bark Psychosis… e in tempi più recenti, Scott Walker).
Solo un quadretto a 7 tinte forti, che veicola trasversalmente, lo spirito di una tendenza, a spingere la musica popolare, oltre restrizioni di forma e contenuto. Il tutto, cercando di individuarne principalmente il lascito, a quasi 50 anni dalla sua nascita.
Progressive o regressive?
Diventato uno dei fenomeni, certo più controversi dell’epopea rock, ma senza dubbio più longevi e vitali, il termine progressive rock altro non è che un’attitudine divenuta clichè.
Appresso all’intuizione di Beach Boys e Beatles di introdurre elementi in uso alle avanguardie classiche nella musica popolare, seguita a ruota dal Bob Dylan di Blonde on Blonde e da centinaia di menti in cerca di espansioni percettive (The Mothers of Invention e Frank Zappa, 13th Floor Elevators, The Velvet Underground & Nico, Red Crayola, Pink Floyd, The Doors, Jimi Hendrix Experience, The Magic Band e Captain Beefheart, Tim Buckley, High Tide, i nostrani Le Stelle di Mario Schifano, giusto per citare i primi epigoni), si sarebbe sviluppato un intero fenomeno, che avrebbe toccato ogni genere. Non ne fu immune Miles Davis (In a Silent Way, Bitches Brew), né la musica classica (l’intero dipartimento del movimento minimalista, Terry Riley su tutti, ma anche il tardo John Cage, Cathy Berberian), nella definizione dell’utopia di un’unica musica, una sorta d’esperienza “totale”, nell’intuizione di Skrjabin, più volte citata dalla Third Ear Band e dalla Incredible String Band, quanto da Philip Glass (e più tardi da John Zorn), che abbracciasse ogni sorta di ambito musicale, dalla tradizione più arcaica, a quella contemporanea. Di fatto, questa esperienza, divenne una moda. Mentre gli Who, citavano Riley in Who’s Next, in Italia tutti si avvicinavano al “nuovo pop”, persino nomi improbabili. Mentre Milva, dopo aver dato nuova luce a Brecht, assieme a Strehler, avvicinava le avanguardie propriamente dette (La Nuova Storia di Luciano Berio, Astor Piazzolla), portandole al pubblico della televisione, il fronte più “pop” si avvicinava a tendenze importate dalla Terra d’Albione da Tony Pagliuca e Paolo Tofani. La Pravo con Concerto per Patty, l’insolita coppia Mina/Gabriel Yared nell’eccezionale, rilettura per orchestra da camera contemporanea, di Non è Francesca; Mia Martini in Suite per un’Anima; Loredana Berté e Renato Zero, in Orfeo 9; Giuni Russo, che registrò per intero, come voce solista (poi, solo corista) del Balletto di Bronzo, l’intero Ys; i primi Michele Zarrillo, Alan Sorrenti, Ivan Cattaneo, i Pooh, i Matia Bazar, diversi anni più tardi, Eros Ramazzotti, con Musica E’… per parlare di “pop”. Se si considerano poi i cantautori, da Battiato, a De André, Fossati, Battisti, Branduardi, Faust’O, Dalla, si è trattato di un transito più che obbligato, benvenuto, che ha toccato anche la nostrana new wave, con le tastiere ben epiche, mosse e le strutture frammentate dei Litfiba di 17 Re e dell’Eneide di Krypton, dei Decibel di Contessa, per arrivare ai P.G.R. di Montesole, in tempi più recenti. Una moda, s’è detto, che si ridusse ben presto a quello che attualmente viene definito post-modernismo, ossia alla definizione di un genere che raccoglieva, come in una carrellata a compartimenti stagni, diverse influenze (esemplare, in materia, il brano Dove…Quando della Premiata Forneria Marconi), senza integrarle spesso adeguatamente, ma anzi, manifestandole con un fare esibizionista e assai sgradevole, perché privo di sostanza quanto tronfio nella forma. Solo alcune esperienze riuscirono nell’intento, ma rimasero di gran lunga tra le più marginali (oltre a quelle citate in testa al mio scritto, molte tracce della Cramps di Gianni Sassi, le evoluzioni più mature del Canterbury sound, le prime esternazioni Zeuhl, R.I.O., Kraut, Meredith Monk, le avanguardie di fine ’70 ad opera dei Tuxedomoon più cameristici, i Residents, This Heat, Tom Cora…). I fenomeni più blasonati invece, furono quelli che fecero diretto ricorso ad un neo-classicismo assai scolastico, di natura tardo-romantica e dunque, fuori tempo massimo di “appena un centinaio d’anni”, se si esclude la parentesi italiana, ben marginale, nota come Nuova Consonanza, con Morricone tra i suoi assertori più convinti.
Più si scava dentro al progressive e lateralmente ad esso, più i contorni divengo sfumati e non solo nell’epoca di prima manifestazione, ma anche nei decenni a seguire.
Una certezza però c’è ed è grande. Come può essere un genere che a tutto attinge e che tutto rimescola essere a sua volta un “genere”? Mi spiego, se il ricorso a modalità classiche (minimalismo, musique concrete, la scena elettronica europea, alea… incluse, non solo quello che si studia alle scuole medie); jazz (free, armolodia e istant composing, anche questi compresi); folk; etniche; l’espansione della struttura della forma canzone; l’impiego di poliritmie e variazioni di tempo; ricerca timbrica; attenzione al racconto; sono caratteristiche essenziali del mondo progressivo, fin qui, ci siam raccontati favole. Si, perché i King Crimson di Red e Discipline, il krautrock dei Faust, dei Neu! e dei Can, stanno al genere quanto John Zorn, Skeleton Crew, gli Swans della maturità, Secret Chiefs 3, Dead Can Dance, i primi passi di Diamanda Galas, l’ultimo Scott Walker, tante cose prodotte da Radiohead, Sigur Ros, Xiu Xiu, Kate Bush, David Sylvian, Current 93 (con David Tibet che riporta in auge i seminali Comus), Carla Bozulich e Evangelista, The Towering Inferno…
Interi comparti della musica rock, appaiono né più, né meno, come definizioni coniate per non evocare la parola/bestemmia “progressive”, che fino a qualche anno fa, è stato uno spauracchio senza precedenti. Il post rock (Tortoise, Rachel’s, l’incredibile Hex dei Bark Psychosis) è “prog” quanto lo sono i Faust, il baroque pop (che dire del primo e terzo album di Antony & the Johnsons e di brani come Twilight, Hitler in my Heart, Daylight and the Sun, se non “prog”?) e tanto gothic, sono “prog” quanto lo è Peter Hammill, anzi, di più. In ambito folk, sono assolutamente progressive, gli album di Joanna Newsom, il monumentale Have One on Me su tutti, dove tra florilegi d’arpe, cascate d’archi, jazz, blues, variazioni di tempo e atmosfera e una durata media dei pezzi, che oscilla sui 6-7 minuti, non si può dire molto altro. Il disco più celebrato, del cantautorato dello scorso anno (2014), è stato Nothing Important di Richard Dawson. Brani della durata media di una decina di minuti l’uno, ultra-strutturati, netto riferimento a dissonanze classico contemporanee, spirito folk maudit, armonizzazioni chitarristiche aperte, alla maniera di Derek Bailey. Sarà mica “folk progressivo”? Le strutture dei pezzi, nella nuova elettronica, sempre più simile al vecchio krautrock, si dividono, in maniera, più o meno organica, andando a definire scenari pittorici, di durata pari a 23 minuti (Visaton di Vladislav Delay). Allo stesso modo, tra il percorso di avvicinamento al rock di Fausto Romitelli (e relativi discendenti, come Simone Beneventi), in ambito classico-contemporaneo e quello opposto, di avvicinamento stretto alla classica contemporanea degli Univers Zero di Heresie, degli Yugen di Iridule, non ci sono differenze sostanziali. In breve, i percorsi più “laterali” del verbo progressivo, sono riusciti laddove la musica classica, ad un certo punto, s’era persa. Hanno integrato il ‘900 con le sue avanguardie (assai in fretta rinnegate), con la cultura popolare. Melodia, dissonanza e tutto quello che poteva servire al canovaccio di un compositore, in termini di timbri, modi. In quest’ottica, appare quantomeno riduttivo, valutare il progressive rock come tecnica fine a sé stessa, percorso di ricerca puramente formale. E’ mia opinione, che oggi, a distanza dell’eco dell’impatto visivo che certe band ebbero, bisognerebbe fare una scelta e dunque, o considerare Genesis, Yes, Emerson Lake & Palmer e loro epigoni, come unica faccia del fenomeno, o ri-tracciarne completamente le coordinate, sulla base di quanto gli ultimi anni hanno prodotto, non appena si è smesso di aver paura del “mostro progressivo” (un esempio recente, gli His Name is Alive e il loro pop progressivo, immediatamente schedato come “avant”, per paura di ripercussioni d’immagine). La responsabilità principale, non risiede nella critica, che pure ha sue colpe, ma nei cultori del genere (tremende in materia, certe fanzine e webzine, incapaci di guardare ad un palmo dal loro naso), talmente legati a certe sonorità, da celebrare soltanto, cloni di cloni, attaccati con forza al verbo neo-romantico (mellotron a tutto spiano nel 2015, con IQ, Anathema, La Coscienza di Zeno, Il Tempio delle Clessidre… e classifiche di fine anno, come quella di DPRP, di cui si fa parte, solo se si ha, dai cinquant’anni in su. Inquietante il sesto posto di “The Endless River”, quanto la chiusura totale, all’esistenza di un mondo musicale che davvero evolve). Registrazioni analogiche, testi che parlano di fate e folletti, facce truccate e cappelli a forma di fiore, esibizioni tecniche da medio livello di conservatorio all’italiana (in Francia e Germania, i conservatori, son ben altra cosa), quando già nel primo periodo del fenomeno c’era chi cantava, a pieni polmoni “Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra all’omertà. Forse un dì sapremo quello che vuol dire affogar nel sangue con l’umanità”. Non è forse più “progressiva”, anche di sostanza, mentre il Medio Oriente bussa livido alle nostre porte, la ricerca di questi signori (Area International POPular Group), che buona misura del “contemporaneo”?
Andiamo ora a sfogliare l’album della memoria di sette nomi, non a caso, perché tra quelli più idolatrati e più messi alla berlina, dei quali, almeno tre, in attività.
King Crimson
Video: IERI – Starless live 1974
(quasi) OGGI: Level Five live 2003
Non è un caso dunque, che il disco a cui, nella visione collettiva, ma ormai assolutamente superata, spetta il testimone di avvio ufficiale del genere sia quell’ In the Court of the Crimson King dei King Crimson che con un fare ben tronfio e sognante s’identifica (ma non privo di fascino vero e aereo, in esplosioni di mellotron che faranno in futuro la fortuna degli Air, ad esempio). Ben altra sostanza avrà il brano introduttivo dell’opera 21st Schizoid Man, che si attesta tra le intuizioni più felici del rock tutto. Che si voglia o no, un disco-capolavoro. La band andrà a definire affreschi sempre più complessi e pretenziosi (Lizard), riuscendo solo in rari casi a comunicare qualcosa in grado di reggere l’urto del passare degli anni (la rilettura di Marte di Gustav Holst, in The Devil’s Triangle e Cirkus, su tutte), fino ad approdare ad un più geometrico minimalismo di grande pregnanza drammatica e nichilista, in Sailor’s Tale da Island, piacevoli divagazioni jazz rock, Ladies of the Road. Questa intuizione, che definirà in maniera permanente la scrittura del geniale chitarrista/compositore e deus ex machina del progetto Crimson, Robert Fripp, sarà la chiave di volta su cui fonderà la trilogia degli album a venire, che avrà nella secchezza fusion di Red e nel live U.S.A., il suo culmine e in brani come Lark’s Tongues in Aspic Pt II, Fracture e Starless (composizione di una grandezza davvero incommensurabile), gli esiti più compiuti. Il tutto, complice una formazione triangolare, che trova in una sezione ritmica da sogno (Bruford/Wetton), appresso alla chitarra, dal suono sempre più multiforme, paradigma del verbo “avant”. Successive pubblicazioni di live dell’epoca, garantiranno autentici tesori: The Collectable King Crimson – Vol. 1. Live in Mainz, 1974 – Live in Asbury Park, 1974; Live At Plymouth, May 1971; The Night Watch, tra i molti. Una reincarnazione degli anni ’80, porterà ad un cerebralismo assai affascinante, quanto seminale. Questo percorso, ora votato a dinamiche new wave, non distanti dalla scuola Talking Heads, ma tecnicamente assai più evoluta, avrà in Discipline, Three of a Perfect Pair e nei Live at Cap D’Agde 1982 e Live in Montreal, 1984, gli episodi seminali. La reunion dei ’90 invece, pur non garantendo dischi di complessivo interesse, ma solo una manciata di brani apprezzabili (Sex Sleep Eat Drink Dream, docet), troverà in The Power to Believe, una nuova, ulteriore sintesi. Un suono granitico, futurista, claustrofobico a tratti, che è andata sostenendo i percorsi di band quali The Mars Volta, Tool, Isis, Tortoise, Godspeed You!Black Emperor, gli ultimi Swans, Opeth, A Perfect Circle, definendo una volta per tutte una certezza, quella della dicotomia tra King Crimson e avanguardia. Di suo, Fripp, oltre a consegnare alla storia due album solisti eccezionali, i primi della sua discografia, troverà in Eno e Sylvian (ma anche Bowie) i compagni ideali per la definizione di pagine essenziali della musica d’avanguardia e progressiva più ispirata e autentica.
Pink Floyd
Video: Echoes live 1971
Già fatto il nome Pink Floyd tra queste righe, perché certo, la psichedelia dalle tante sfaccettature di questo marchio, sarà uno dei veicoli più importanti del progressive rock propriamente detto, legato al minimalismo classico più nobile e autentico. Il loro capolavoro rimane il disco d’esordio e i singoli che lo anticipano (See Emily Play con la celebra frattura ritmica centrale, a guisa di carillon isterico e Arnold Layne). The Piper at the Gates of Dawn è episodio seminale dell’epopea rock tutto, perché parte di un’intelligenza proteiforme quale quella di Barrett, capace come nessun altra di attraversare tempo e spazio fondendo, come in un mosaico astratto, destrutturato ma sublime, quanto naive, ma assolutamente contemporaneo, ogni forma di suono, forma, archetipo musicale, ricondotto alla sua essenza più pura: l’invenzione (come anche nella magnifica Jugband Blues, dal disco successivo). La sua autentica genialità ha ben poco a che spartire con la maturità dei suoi sodali, che andrà definendosi col tempo. Ummagumma, resterà altro lascito importante, qualora venga considerato il solo disco dal vivo. Atom Heart Mother sarà un tonfo colossale, pari solo al concerto per “Group and Orchestra” dei Deep Purple, con la sua suite pomposa e priva di sostanza compositiva (oltre che appoggiata ad una sezione di fiati e ad un coro, che a definirli mediocri, si è sin troppo gentili). Sbiadite colonne sonore a parte, assai meglio la suite Echoes, dal pur complessivamente irrisolto, Meddle. Con The Dark Side concepito come unica suite in diversi episodi in forma canzone, viene avviato un processo di commercializzazione dichiarato, che antepone forma e riduce esponenzialmente la sostanza, ma il disco, presenta diverse buone intuizioni (su tutte, Us and Them). Va pure meglio con Wish you were here, disco ricco di soluzioni asciutte, ma capaci di spingersi ben oltre una facile lettura (miracolosa la sezione introduttiva di Shine on you Crazy Diamond). Ancora superiore Animals, dove l’equilibrio tra essenzialità formale e sostanza raggiungerà livelli insperati, anche metaforici. The Wall invece, torna a sacrificare la musica (sin troppo costretta entro ambiti formali rigidissimi) ai fini del racconto, pur non rinunciando a splendide melodie (Comfortably Numb, Don’t Leave me Now) e a testi, davvero vissuti e ben resi, visivamente, nel film di Alan Parker. Da qui, qualche cantabile di pregio (On the Turning Away) e una parabola discendente mai conclusa, per una musica ridotta a salotto sonico per intellettuali di bassa sostanza (The Division Bell, The Endless River). Certo, il loro suono, facilmente riproducibile, è stato tra i più ricalcati di sempre. Ne sono debitori, tutte le produzioni di Steven Wilson, Robin Hitchcock, i Dire Straits di Private Investigations, ma la lista sarebbe infinita davvero. Eppure, nell’apparente semplicità delle loro migliori intuizioni, alberga la massima intelligenza del fenomeno, seppure in una dimensione più affine al verbo psichedelico. Consigliata la raccolta Echoes, per chi avesse voglia di scorrere la storia della band, come nello sfogliare alcune delle pagine più belle ed essenziali di almeno vent’anni della cultura popular.
Van Der Graaf Generator
Video:
IERI: A Plague live 1972:
OGGI: Bunsho live 2010:
Tra i pionieri del genere vanno considerati senz’altro i Van Der Graaf Generator, band che rappresenterà di fatto un progetto, un’incarnazione sonica a definire nevrosi, visioni e pura, autentica poesia, del loro leader e voce tra le più duttili, estese e drammaticamente espressive di sempre, Peter Hammill. Tralasciando quasi completamente la loro produzione tra il 1967 e il 1969, è dal ’70 che le coordinate del suono della band, che applica distorsioni e filtri mai uditi ad un organo Farfisa e a fiati, usati spesso a doppia ancia, assumono connotati chiari e leggibili, con una trilogia di album che avrà suo culmine in un disco sepolcrale, tra angelico e demoniaco, che rasenta la perfezione, Pawn Hearts, accompagnato a breve distanza di tempo, dal raga psichedelico/decostruzionista W, pubblicato a margine. Dai due episodi precedenti, sono da considerare in particolare, il singolo Refugees/The Boat of a Million of Years (che vede ad una ballata di valore inestimabile, contrapporsi una delle più acide visioni mai concepite, come B Side), le isterie di White Hammer, The Emperor in his War Room e soprattutto, Lost. Altri pezzi, raggiungeranno l’adeguato climax (devastante), solo dal vivo (impagabili le BBC session, in buona misura mai pubblicate ufficialmente), risultando in studio, troppo leziosi, caratteristica della label a cui la band farà riferimento, la Charisma. Una prima reunion che vedrà la band attiva tra il 1975 e il 1978, produrrà un album ben più terreno nel suono e mediocre nella produzione, ma di gran sostanza, come Godbluff, un piccolo capolavoro d’intimismo decadente come Still Life, un mediocre World Record e due dischi a fasi alterne, The Quiet Zone (con la bella Cat’s Eye) e il disastrato live Vital (comunque, con una versione impagabile di Pioneers Over C, dal primo repertorio), proiettati verso un equilibrio assai instabile tra progressive, punk e new wave. Una sopravvalutata, ulteriore reunion, dal 2005 ad oggi, che li vede ad oggi, non a caso, per la poetica in atto, come la band più apprezzata nel contemporaneo, della leva originaria, produrrà solo qualche buon pezzo, Nutter Alert, Over the Hill e Bunsho (ma anche All Over the Place, dal coeso A Grounding in Numbers, migliore prova del secondo ritorno sulle scene) su tutti e un live assai solido, Merlin Atmos (2015). Qui, un adeguato equilibrio tra partiture geometriche nervosissime, dissonanze e isterismi cosmici al limite di una visione deformemente espressionista e profondamente attuale (Gog, A Plague of Lighthouse Keepers, Meurglys III, Flight, Childlike Faith, nel magma di contorsioni soniche complessive) con la band, ridotta a trio, il ritorno dell’organo di Banton, agli originali fasti (nefasti e virulenti), Evans votato ad una possenza di tocco bonhamiana, Hammill, al massimo (possibile) della sua precisione esecutiva strumentale e vocalmente acido, vecchio, stregone. Tutto questo, lasciando all’enorme e spesso preziosa, produzione solista hammilliana, il ruolo di perfetta aderenza alla contemporaneità più vera e “avant”. Importante il loro lascito, paradossalmente, per l’intera scena garage psych, punk, new wave, metal (anche e soprattutto estremo, il sadismo dei Naked City, ad esempio) e di cantautorato avant (Xiu Xiu, il tardo e più volte citato, Scott Walker). Assai meno significativo per il progressive propriamente detto, se si escludono diverse, devote, formazioni nord europee, i primi Twelfth Night e i nostrani Goblin, per riff oscuri e ossessivamente reiterati. Tanti invece, gli emuli vocali di Hammill e i musicisti che hanno dichiarato diretta ascendenze dal suo percorso.
Gentle Giant
Video: Knots live 1974:
Altra band rimasta appannaggio di una ristretta serie di cultori, musicisti in prima misura, furono i Gentle Giant. Superbi polistrumentisti improvvisatori e voci di pasta e tecnica senza possibilità di paragone alcuno (se non con la Mahavishnu Orchestra e in parte, la Magic Band, in quanto a perizia strumentale, ma non vocale), i Gentle Giant esordirono nel 1970 con un album omonimo di media fattura, che subito rivela importanti capacità di scrittura nella superba Why Not? e in Funny Ways. A dispetto delle realtà individuate come capisaldi del genere, la band dei fratelli Shulman, non produsse forse un disco capolavoro, ma una manciata di dischi di livello medio-alto (più alto che medio), negli anni a venire. Acquiring the Taste, il più barocco, espanso e aereo di tutti, tra brani dalle strutture sempre più complesse (Pantagruel’s Nativity), trova anche in piccoli quadretti come Black Cat, un ricorso ad una classica strettamente contemporanea (dissonanze e sistema armonico al limite dell’atonale puro inclusi), ma avulsa dal dramma che l’ha contraddistinta. Three Friends è il loro lavoro più coeso e morbido nelle sonorità e negli sviluppi strutturali dei singoli brani. Octopus, li vede al massimo della loro maturità espressiva e strumentale. Le soluzioni si alternano all’interno dell’album, con eleganza e morbidezza esecutiva mai udita prima (The Advent of Panurge); nella contemporanea fuga madrigalistica per voci e percussioni di Knots, i Gentle Giant siglano il loro capolavoro maturo; in Dog’s Life, torna una classica contemporanea ironica, “british”, di gran pregio. In A Glass House, con l’eccellente Way of Life, chiude il loro periodo migliore, che sarà accompagnato, alla stregua delle esibizioni dei contemporanei Jethro Tull, da lunghi medley (il live Playing the Fool), in cui i brani risolveranno l’uno nell’altro, senza soluzione di continuità e con un’abbondanza di manifestazioni di bravura esecutiva, onestamente, spesso sopra le righe. I dischi a seguire, vedranno un progressivo impoverimento del fervore creativo, pur mantenendo un livello di profonda integrità e tante idee ben organizzate, fino allo scioglimento che segue all’A.O.R. di Civilian. La loro eredità, è da cercare esclusivamente nelle esperienze fusion e jazz rock contemporanee e nelle derive più tecniche del Rock in Opposition, dove il loro tecnicismo esasperato dal sapore algido (specie nel brulichio di vibrafoni e xilofoni), sarà trasfigurato in qualcosa di ben più evocativo (gli Yugen di Francesco Zago, Thinking Plague).
Oltre, ai prima citati Pink Floyd, le tre formazioni che fecero del progressive rock un genere di massima diffusione, furono senza dubbio, Emerson Lake & Palmer, Yes e Genesis. Vi basterà semplicemente dare un’occhiata ai video segnalati, compararli con quelli delle altre 3 band e avrete subito il vostro perché.
E.L.&P.
Video: Take a Pebble live 1970:
Supergruppo i primi, Emerson, Lake & Palmer, furono la massima espressione formale del progressive rock. Manifestativi oltre ogni regola di buon gusto, fecero del neo-classicismo di bassa leva, il loro punto di forza, grazie in particolare alle doti tecniche inequivocabili di Keith Emerson, già protagonista con i Nice, di una versione epocale di Blue Rondò a la Turk (Dave Brubeck) e pianista innamorato dei compositori russi, quanto della tradizione classico contemporanea, che fa dell’uso percussivo degli strumenti a tastiera (Bartok), adeguata commistione tra la tradizione europea e quella afro-americana. Assai sopravvalutato Carl Palmer, la band deve al solo Greg Lake, protagonista assoluto di melodie epiche, nei primi due album dei King Crimson, la possibilità di sfoggiare poche ballad dal valore indiscutibile, ma troppo spesso appesantite da arrangiamenti di una volgarità esibizionista fuori misura. Il loro massimo lascito rimane, l’album d’esordio, che trova i suoi momenti più felici nella bellissima Take a Pebble, deturpata da un’inutile variazione country e dalla propulsiva Knife-Edge (con citazione bachiana e a partire da un riff di Janáček… come a dire, “basta prendere in prestito”). Emerson punta a divenire l’Hendrix delle tastiere e in quanto a tecnica, energia e capacità di colore c’è, eccome, ma non ne ha le stimmate compositive. Lo dimostra il successivo Tarkus, che, a parte il suono avanguardista (per l’epoca) e diverse soluzioni d’interesse nella scrittura della granitica suite omonima, si mostra album piuttosto inconsistente. Il live Pictures at an Exhibition, riprende in maniera circense, ma non priva di momenti divertenti, gustosi e con indubbia potenza e irreverenza “rock”, la celebre composizione di Mussorgsky, aggiungendovi qualche “quadretto” personale (la stupenda ballata di Lake, The Sage). I due successivi album Trilogy e Brain Salad Surgery, mostreranno una band capace ancora e più di prima, di architettare esiti formali di un’eccellenza indiscutibile, ma dal contenuto oggettivo, assai discutibile. Questo senza escludere che un bravo architetto della musica, tale rimane e la band dimostra d’esserlo. Tutti gli album a divenire deraglieranno verso un’inconsistenza, compositiva, ma non formale, senza precedenti nella storia del rock, se paragonata ad esiti commerciali e di critica, con dischi quali Love Beach, paragonabili a stadi terminali della composizione. La band ebbe e ha tuttora un’importanza inestimabile, in quanto a seguito. Dai contemporanei Quatermass all’italiana infatuazione di Tony Pagliuca delle Orme (ma nessun tastierista italiano “prog” di rispetto, dai fratelli Nocenzi, a Gianni Leone, Joe Vescovi, Enrico Olivieri, Flavio Premoli, è stato immune dalla tentazione d’esser discepolo del pioniere inglese del Moog), all’ intera e incalcolabile, numericamente, scena hard e heavy prog, Rush e Dream Theater in testa, ne è debitrice in maniera assai pesante, pur avendo prodotto pagine compositive, d’interesse, comunque maggiore.
Yes
Video:
IERI: Close to the Edge live 1972:
(quasi) OGGI: Magnification live 2001:
Gli Yes, sono stati e sono tutt’oggi, il gruppo europeo più dichiaratamente americano, per quanto inglese all’anagrafe, dell’intero fenomeno. Dopo due album trascurabili, giungono ad un primo disco d’interesse, con The Yes Album, che vede una curiosa fusione tra country, spirito west coast e una solare visione della vita nei testi “pre new age” e negli intrecci vocali da coro di voci bianche (davvero ragguardevole in materia il timbro di Jon Anderson). Quello che farà però degli Yes una band unica, sarà, oltre all’innegabile perizia tecnica, il suono. Eddie Offord, loro produttore (o meglio, sound designer), sarà di fatto loro membro aggiunto essenziale per la definizione di sonorità immaginifiche e in anticipo di un decennio almeno, capace di tratteggiare scenari visionari, ben espressi dai dipinti neo-surrealisti di Roger Dean, autore delle loro, storiche copertine, a partire da Fragile. Disco tutto sommato modesto, causa la presenza di manifestazioni di singola bravura tecnica, per ciascuno dei membri, Fragile, vede un paio di tracce d’assoluta rilevanza, il singolo Roundabout e la superba Heart of the Sunrise, capolavoro assoluto e brano tra i più importanti del fenomeno. La musica degli Yes, con l’ingresso del tastierista Wakeman, scolasticamente legato al neoclassicismo più dichiarato e virtuoso e capace di un effettismo sbalorditivo, spazia tra un ambiguo entertainment e una seriosità, in un equilibrio assai pericoloso e instabile, che raggiunge l’esito più affascinante in Close to the Edge, assieme a Pawn Hearts, della loro antitesi naturale, Van Der Graaf, l’apice più leggibile dell’epopea prog. Tre brani semplicemente perfetti, capaci di elevare ad un empireo fatto di architetture musicali surreal-barocche, voci angeliche e testi inneggianti al perfetto equilibrio tra uomo e natura. Il live Yessongs, rimane uno dei più grandi live d’ogni epoca, per capacità d’invenzione autentica e amore per la musica, dei protagonisti coinvolti. Qui trionfano, letteralmente, oltre a And You and I, brani da The Yes Album, come Perpetual Change, Yours is no Disgrace e Starship Trooper, rivisti in chiave matura, con incontenibili improvvisazioni cariche d’inventiva e uno Steve Howe, che si attesta, tra i più ispirati chitarristi del rock. L’album in studio che segue, il doppioTales from Topographic Oceans, è disco che mostra gli Yes in qualità di impagabili compositori, abili nello sviluppare all’inverosimile, sulla base di un incondizionato amore per Stravinskij, temi, anche assai semplici, in tutte le angolazioni possibili, ma la sostanza inizia a cedere e non poco, di fronte alle grandi ambizioni. Ambizioni che faranno, inevitabilmente, di Relayer, disco formalmente, quanto tecnicamente eccellente (memorabili le fughe per elettrica e basso), ma di una sostanza quasi nulla. Going for the One, alzerà in maniera esponenziale le loro quotazioni, grazie ad un’ispirazione equilibratissima, matura e fervida, che produrrà tra le loro gemme assolute, tra tutte, il capolavoro assoluto Awaken, sintesi del progressive tutto. Tormato sarà un clamoroso tonfo. La fusione con i Buggles, produrrà un buon disco come Drama, perfettamente inserito nel suo tempo, ritmicamente assai importante, piacevole e adeguato mix, tra tradizione della band e un suo presente/futuro. 90125, vede la band, al primo posto in classifica, con il bel singolo Owner of a lonely Heart, ma siamo lontani dalla coerenza temporale dei King Crimson, di un Gabriel, o di un Hammill. Lo dimostrano, impietosamente, tutti i dischi a venire, fino ad una prima resurrezione del 1996, con l’album Keys to Ascension, in parte composto da live session, in parte da nuovo, interessante materiale, per quanto, in buona misura decontestualizzato dal proprio tempo. Un sequel di minore levatura, fino ad un notevole Magnification, migliore loro prova dal 1977 (Going for the One), supportata da un’orchestra sinfonica, assai ben integrata, in piena epoca di rivalutazione del verbo progressive. L’ennesimo abbandono di Jon Anderson (unico membro stabile della formazione, dagli esordi, è il bassista Chris Squire), conduce la band ad un altro crollo verticale. A monte di picchi e baratri, gli Yes, sono stati e sono, assieme ai Genesis, l’emblema autentico del prog. Sinfonici, certo, decontestualizzati dalla realtà (e qui ci sarebbe da dire, “ma qual è la realtà, se non quella che noi percepiamo?” ma, si aprirebbe un capitolo a parte inesauribile, per quanto assai affiliato al fenomeno), quanto visionari, tecnicamente ineccepibili, sono loro debitori per ragioni diverse, Queen; Supertramp; Echolyn; Rush; Police (nel canto di Sting); Pavlov’s Dog; qualsiasi band heavy prog e new prog che si rispetti (Pallas e Pendragon su tutti, ma anche 5UU’s) e, in tempi recenti, His Name is Alive e soprattutto, i Battles. Anche in questo caso, si sprecano i cloni vocali di Anderson, tristemente, in qualche caso chiamati a colmarne l’assenza nella band.
Genesis
Video:
IERI: The Musical Box live 1973:
OGGI: No Son of Mine live 2007:
Infine, progressive rock, E’, Genesis. La band ha avuto un vantaggio indiscutibile, quello di aver annoverato tra le sue fila, musicisti e interpreti assolutamente capaci in ambito compositivo, prima ancora che tecnico, cosa che le ha garantito sostanza assoluta per diversi anni. Ingenui nei primi passi, eppure capaci di narrazione estremamente coerente e densa di fascino, i Genesis, trovano nella mistura tra il neo-classicismo tastieristico, assai scolastico e romantico, di Tony Banks e la natura nera del canto di Gabriel, votata ad una teatralità, di contro, assai europea, figlia dei classici greci, una forza rassicurante, quanto oscura. Metafore in cui il sogno, si fa interprete con qualche spazio d’anticipo, della realtà vissuta, nei testi, di una complessità di gran fascino. Trespass è il primo parto d’interesse, nell’epos di un folk espanso di White Mountain, nella bellezza sospesa di Dusk. La maturità piena, inaspettata, arriverà con Nursery Cryme, album dove folk, hard rock, citazioni neoclassiche, disegneranno un affresco a tinte gotiche quanto elisabettiane, grondante passione. The Musical Box è l’insuperabile capolavoro, in cui l’infanzia diventa maturità, non senza trauma e così, impagabile è il romanticismo di Seven Stones, dove l’epicità raggiunge esiti inarrivabili sulla scia del romanticismo letterario. Sia ben chiaro, i Genesis, più di qualsiasi band dell’epoca, mostrano assoluto disinteresse per quanto le avanguardie classiche e jazz erano in grado di produrre in quel tempo (probabilmente, non erano neanche a conoscenza), eppure le loro composizioni conquistano tanto in studio (The Fountain of Salmacis) che dal vivo (The Knife), nel carisma arcaicamente popular del frontman. Foxtrot è album assai ambizioso, ma pone spesso il peso del racconto in primo piano rispetto al suono (Get ‘Em out by Friday). Gli episodi più validi sono la multiforme e assai epica Can-Utility and the Coastliners e la lunga suite Supper’s Ready, appena appesantita da una divisione in quadri isolati. Selling England by the Pound è disco più riuscito, per quanto in bilico, tra la necessità di dover arrivare ad un pubblico più ampio (I Know what I Like), pregi e difetti dei dischi precedenti portati agli eccessi (The Battle of Epping Forest), un’improvvisa maturazione tecnica, tale da porre la band in una prospettiva completamente diversa. Ad ogni modo, Dancing with the Moonlit Knight è capolavoro autentico, così come The Cinema Show, con un prologo seguito da una, drammatica fuga (resa da synth e dal contrappunto ritmico agilissimo di Phil Collins) di due possibili amanti verso un comune e idealizzato, approdo. Firth of Fifth, è brano che vive un’impossibile patto tra irraggiungibili, in quanto a lirismo, contributi strumentali/compositivi e una pesantezza esagerata dell’esposto iniziale delle strofe. Un lavoro importante, ad ogni modo. Segue un controverso, quanto affascinante concept album, The Lamb Lies Down on Broadway che segna una frattura inevitabile tra Gabriel e la band. Un disco che, chiaramente, antepone la sostanza del racconto a quella musicale, per quanto, queste, non di rado, vadano perfettamente di pari passo. Back in New York City è capolavoro assoluto, come The Lamia, Anyway, The Grand Parade of Lifeless Packaging, In the Cage. A Trick of the Tail è lavoro delizioso, ricco d’importanti soluzioni strumentali e melodiche (Dance on a Volcano, Entangled, Ripples, Los Endos), quello che manca è quel tocco d’arcaico, umano mistero che fin qui era stato appannaggio della band. Valutato formalmente, questo è un album superiore al precedente. Wind & Wuthering, in studio suona lezioso, ma dal vivo trova, grazie a brani come Afterglow e One for the Vine, intensità inaspettata. Il live Seconds Out, ottima testimonianza dal vivo, ma tutt’altro che “il meglio” di quanto espresso dal vivo dalla band in questi anni, sarà netta, quanto appagante, chiusura di un percorso. …And Then There Were Three… sarà ricordato per la splendida melodia pop di Many too Many, Duke, tenterà una commistione tra passato e presente senza lasciare alcuna traccia, se non lontana da un pop di bassa leva. Mama, da Genesis, troverà un’alchimia perfetta tra canzone pop e avanguardia, ma sarà solo un episodio isolato. A fronte di un Gabriel fortunatamente vicino alle avanguardie pop-rock più insperate e votate, prevalentemente, all’essenza ritmica del suono, inteso come pulsazione primordiale (essenziali i suoi dischi noti come Melt e Security), Genesis, si spegne, in maniera proporzionalmente inversa a milioni di copie vendute. Steve Hackett se ne fa carico dell’eredità, continuandone a rileggerne il primo repertorio in maniera, più o meno credibile.
L’eredità della band è indescrivibile, dai cloni Marillion e The Watch, ai Radiohead, agli Ultravox di Midge Ure, mezza storia del rock, da metà degli anni ’70 ad oggi, ha pagato tributo, in maniera esibita e riconosciuta (Non c’è prog band italiana, Area e Perigeo a parte, forse, dai ’70 ad oggi, che non abbia tratto spunti dal loro percorso). Una storia assai popolare, ma assai più facile, perché priva di quella propensione dichiarata, sfacciata a tratti, verso le origini della cultura europea, che nei primi passi di questa band, ha trovato inequivocabile alveo di risonanza sonora, visiva e performativa.
Coda
Qui mi fermo, perché questo mi è stato richiesto, assoluta sintesi inclusa, ma è innegabile che, un’approfondita analisi dei percorsi canterburiani, R.I.O., Zeuhl, folk e metal legati al “genere” e di tanto che è stato appena citato, Jethro Tull in primis, ma anche Traffic, Gong, Camel, Roxy Music, Mike Olfield, delle band non anglofone, sarebbe dovuta e necessaria. Magari, in un secondo momento. Intanto, come detto, questo rimane un punto di vista intimamente personale, probabilmente non accomodante, che tutto vuol essere, tranne che “definitivo”, di un percorso, di per sé, già così controverso e vasto, da risultare inesauribile in quanto a possibili angolature.
Claudio Milano