
Le Origini del Rock: Il Blues pt 2 – Dal blues urbano al blues elettrico di Chicago
Lo sviluppo del blues nelle metropoli del Nord fino agli anni ‘50.
L’autore dell’articolo, Daniele Modica, è il creatore della pagina Facebook The musical box, una storia del rock, a cui si rimanda per eventuali approfondimenti.
Il “classic blues” degli anni 20
Nella precedente monografia si è visto come il blues suonato nella zona del Delta del Mississippi derivi direttamente dalla musica degli schiavi afro-americani e ne rappresenti la sua più autentica evoluzione; il blues rurale tuttavia non fu la prima forma di musica tradizionale nera ad essere registrata e rimase per decenni un fenomeno pressoché sconosciuto e relegato al più nelle campagne. Mentre infatti le prime incisioni si avranno solo negli anni ‘30 per merito soprattutto degli etnologi John e Alan Lomax per conto della Libreria del Congresso Americana, il termine “blues” girava nei teatri americani già da più di un decennio: basti pensare a tal proposito che nel 1914 veniva dato alle stampe il famosissimo Saint Louis Blues per orchestra ad opera del compositore William Christopher Handy.
La prima diffusione del blues presso il grande pubblico nero americano risale ai primi decenni del ‘900 grazie ai cosiddetti “minstrels show”. Questi ultimi erano spettacoli di varietà che includevano sketch comici, danza e musica, interpretati da attori bianchi con la faccia dipinta di nero, i cosiddetti “blackface”, che interpretavano in maniera caricaturale e stereotipata personaggi di colore, rappresentati quasi sempre visti come goffi, rozzi, ingenui e con un particolare talento per la musica. In maniera graduale i blackface vennero affiancati e infine del tutto sostituiti da artisti di colore i quali portarono all’interno degli spettacoli la musica folk nera che avevano sentito per le strade o per le campagne, ripulendola dalle sue asperità e rielaborandola in una forma più elegante e con strutture ben definite.
In questa nuova forma si venne a creare un tipo di spettacolo le cui potenzialità commerciali furono subito intuite da due fratelli italiani, i Barasso, che costituirono la Theater Owners Booking Agency (TOBA), un’agenzia che arrivò a controllare più di 80 teatri in tutto il paese, tra cui il famoso Cotton Club di New York, e che contribuì così alla diffusione capillare della musica tradizionale nera in tutta la nazione.
Questi spettacoli fecero da tramite tra il blues delle origini e quello professionistico dei primi decenni del secolo comunemente indicato come “classic blues”, decisamente lontano dallo spirito autentico del blues rurale e sempre più vicino al jazz, dei cui esponenti si avvalse per gli arrangiamenti e l’accompagnamento dei brani. Il classic blues, la cui forma canonica prevedeva una voce femminile accompagnata da un pianista o un piccolo complesso jazz, fu in assoluto il primo tipo di blues ad avere un mercato ed attrarre le grandi case discografiche soprattutto negli anni ‘20 dove avrebbe vissuto il suo massimo splendore grazie al talento di stelle del calibro di “Ma” Rainey, Mamie Smith e soprattutto Bessie Smith, una delle più grandi interpreti di blues di sempre.
Il blues urbano
Mentre le dive del classic blues facevano fortuna nelle grandi metropoli con i loro “race records”, un termine coniato a quell’epoca dal mercato discografico per indicare i dischi di musica nera, gli autentici bluesman delle campagne vivevano nella più totale miseria, incidendo di rado qualche disco per pochi spiccioli.
La Prima Guerra Mondiale e la grande inondazione del Mississippi del ‘27 peggiorarono ulteriormente la loro situazione: molti iniziarono a elemosinare o a condurre una vita persino più degradante di quella dei propri progenitori schiavi; tanti altri finirono per vagabondare da una città all’altra alla ricerca dei lavori più umili, in un contesto in cui la discriminazione e la segregazione razziale avevano raggiunto dimensioni spropositate.
Fu così che sul finire degli anni ‘20 iniziarono i grandi flussi migratori dalle campagne del Sud alle grandi città del Nord, in particolare dopo il crollo di Wall Steet nel ’29 che mise economicamente in ginocchio il paese dando inizio a quel periodo storicamente noto come “la Grande Depressione”. Durante la Grande Depressione anche il blues si trasferì dalle campagne alle grandi città adattandosi ai nuovi gusti delle metropoli; qui si contaminerà con altri generi musicali trasformandosi in quello che verrà indicato storicamente col termine “blues urbano” e che sarebbe stato rappresentato tra gli anni ‘30 e ‘40 da esponenti del calibro di Tampa Red, Leroy Carr, Memphis Slim e Big Bill Broonzy.
A spianare la strada al blues urbano era stato il boogie-woogie, un nuovo genere pianistico derivato dal blues e orientato al ballo che ebbe negli anni 30 un successo tale da arrivare ai primi posti di tutte le classifiche di vendite surclassando il classic blues.
Il genere ebbe così fortuna che persino le grandi orchestre jazz negli anni ’40 iniziarono ad esserne influenzate; il risultato fu un genere ibrido che fondeva il blues con lo swing e il ritmo scatenato del boogie-woogie e che sarà il precursore del rock’n’roll. E’ opportuno precisare che questo nuovo stile fa parte a tutti gli effetti del “blues urbano” inteso in senso lato; tuttavia per determinate sue caratteristiche peculiari, come l’andamento decisamente allegro, eccitante e urlato, che lo distaccavano dal blues tradizionale, dimesso e malinconico, la sua trattazione sarà oggetto di una monografia specifica dedicata al cosiddetto rhythm and blues.
Quello che occorre sottolineare per il momento è che il dilagare di questo nuovo stile di blues aprì le porte anche al blues propriamente detto, più legato alla tradizione delle campagne del Sud per quanto anch’esso inevitabilmente contaminato.
Nel passaggio dalle campagne alle città il blues perse quella ruvidezza che lo aveva contraddistinto sin dalla nascita e dunque, in parte, la sua vera essenza. Dall’altro lato si aprirono le porte a tutta una serie di innovazioni, in particolare nella strumentazione: il pianoforte, per esempio, divenne uno strumento tanto diffuso quanto la chitarra e vedrà in grandi musicisti come Memphis Slim, Leroy Carr, Roosevelt Sykes e Big Maceo Merriwheater, con il loro stile elegante e influenzato dal jazz, la sua massima espressione. Inoltre, mentre il blues rurale era per lo più solistico, il blues urbano divenne sempre più musica di gruppo.
Un altro strumento che si fece sempre più spazio grazie al blues urbano fu l’armonica a bocca, uno dei pochi strumenti a poter competere con la forza comunicativa della chitarra, il cui re incontrastato fu Sonny Boy Williamson. Considerato ancora oggi il padre dell’armonica moderna, Williamson riuscì a elevare l’armonica da strumento marginale a uno degli strumenti principali usati nel blues e per decenni influenzò col suo stile intere generazioni di musicisti. La sua fama fu tale che in seguito un altro talentuoso armonicista, Alex Miller, si impossesserà addirittura del suo nome per sfruttarne la notorietà.
Va detto che in realtà il sogno di migliorare le proprie condizioni di vita emigrando verso le grandi metropoli del Nord si rivelò ben presto essere un’illusione; molti finirono infatti per vivere ammassati e in condizioni degradate nei ghetti (il South Side a Chicago, Harlem a New York giusto per citarne un paio), ancora una volta dunque emarginati dalla società, tutt’altro che aperta e disposta a una vera integrazione. Per quanto lo scenario fosse cambiato, l’universo dei neri americani continuò cioè a rimanere dolente e squallido come lo era stato nelle campagne del Sud.
La concentrazione nei ghetti determinò d’altro canto un’esaltazione dei valori della cultura dei neri, i quali, vedendosi emarginati dalla società, umiliati in mille modi e consapevoli dell’impossibilità di affermarsi, finirono per sentirsi sempre più legati ai compagni di razza, accomunati da un eguale destino.
Nei versi dei grandi interpreti del blues di quel periodo, come Big Bill Broonzy, si trova tutto il malessere e il tedio esistenziale di milioni di neri americani. “Avere i blues” (termine che deriva dall’antica espressione inglese “to have the blue devils”, avere i demoni blu), “to feel blue”, “to be blue”, sono tutte espressioni che indicavano l’essere afflitti da una malinconia profonda, da un sentimento di rassegnazione e impotenza, di non appartenenza. Il blues si configurava sempre di più come una musica basata sul reale e i suoi drammi visto con l’occhio disincantato di chi sa di non poterlo cambiare; una musica cruda, diretta, essenziale, ruvida, istintiva, che raramente lasciava spazio a sentimenti di gioia. Le strofe del blues parlavano di amore, visto non come romantico ma come tormentato se non addirittura come puro sfogo sessuale, del non avere un quattrino, del vagabondare da un posto all’altro, di tradimenti, dell’alcool e della musica come unico anestetico per alleviare le sofferenze della vita.
Il blues elettrico di Chicago
Con il boom industriale del secondo Dopoguerra vi fu una seconda grande ondata di emigrati verso le città del Nord e in particolare a Chicago, il cui ghetto, il South Side, divenne una vera e propria città dentro la città.
Il benessere economico ebbe come conseguenza diretta un incremento esponenziale del pubblico che si riversava la sera nelle bettole e nei teatri popolari del South Side; i musicisti che vi si esibivano dovettero dunque fare i conti con il rumore e il chiasso di questi locali. Fu così che molti bluesman iniziarono ad utilizzare chitarre elettriche, batterie, contrabbassi e talvolta persino dei fiati per ottenere un volume maggiore. Inoltre, piuttosto che ai testi e alle emozioni da comunicare, si iniziò a dare maggiore enfasi al ritmo, allo stile e al suono; emblematico a tal proposito il caso di Elmore James, famoso per l’uso di volumi così elevati da mandare in saturazione l’amplificatore della propria chitarra e ottenere un particolarissimo timbro distorto, precursore di quello che sarà il suono della chitarra rock.
Anche i cantanti non poterono esimersi dal modificare il loro stile vocale che divenne sempre più urlato visto che doveva riuscire ad emergere su tutti gli altri strumenti. Il piu` rivoluzionario degli “shouter” di Chicago fu Howlin’ Wolf, un gigante di quasi 2m e 130Kg la cui voce, una delle più forti e potenti mai sentite, ne fece uno dei personaggi più memorabili della storia del blues.
Il maggior risalto dato al ritmo e alla presenza scenica fece coniare a un famoso disc jockey il termine “rhythm and blues” per indicare la scena blues di Chicago anche se, come si vedrà in seguito, questo termine sarebbe stato utilizzato dal mondo dell’industria discografica per indicare più in generale, con un espressione più “politically correct” rispetto a race records, tutta la musica leggera nera degli anni ’40 e ’50. A differenza del blues commerciale che andava di moda in quegli anni, più legato al jazz, il blues elettrico di Chicago continuava però a trarre spunto dal blues del Delta, anche perché molti dei suoi rappresentanti venivano proprio dalle zone rurali del Mississippi.
Negli anni si vide infatti il nascere molte piccole case discografiche indipendenti specializzate in musica nera la cui prassi era reclutare talenti dalle zone del Delta per portarli in sala di incisione a Chicago.
L’etichetta che più di ogni altra riuscì a catalizzare i migliori musicisti e portare al successo questo stile fu la Chess Records dei fratelli Leonard e Phil Chess, grazie anche all’aiuto fondamentale di Willie Dixon, contrabbassista, arrangiatore e compositore, che avrebbe scritto tra le pagine più belle della storia del blues.
Tra gli artisti scoperti e lanciati dalla Chess un posto particolare spetta a Muddy Waters, il cui stile definì di fatto il blues moderno e nel cui complesso militarono i migliori talenti presenti in circolazione come Little Walter, lo stesso Dixon, Otis Spann, Buddy Guy e tanti altri.
Uno dei limiti del blues, per lo meno fino agli anni ’50, fu quello di essere una musica suonata da musicisti neri e indirizzata a un pubblico nero: da un lato infatti il grande pubblico bianco americano non si rispecchiava nelle tematiche del blues e non di rado lo riteneva, con un certo pregiudizio di stampo razziale, troppo “selvaggio” se non addirittura immorale a causa soprattutto degli espliciti riferimenti al sesso presenti in molti testi; dall’altro lato, visto che l’acquisto di un disco era un “lusso” spesso troppo grande per gli abitanti dei ghetti, non si riuscì a creare un vero e proprio pubblico di massa nero per questo stile musicale.
Occorrerà aspettare fino agli anni ’60 perché il blues venga rivalutato e ottenga il giusto riconoscimento grazie anche all’interesse di molti musicisti europei, soprattutto inglesi, nei confronti della musica di Waters, John Lee Hooker, Bo Diddley, Jimmy Reed, Sonny Boy Williamson II, Albert King, B.B. King e tutte le altre stelle del blues di quegli anni.
Nel frattempo, nel ’55, si presentava agli studi della Chess Records, sotto segnalazione dello stesso Waters, un chitarrista talentuoso che avrebbe avvicinato il rhythm and blues al linguaggio dei giovani americani cambiando per sempre la storia della musica: Chuck Berry.
Daniele Modica
Per maggiori approfondimenti si rimanda alla rubrica
https://www.facebook.com/themusicalbox.unastoriadelrock