
La Trilogia di Berlino di David Bowie 1977-1979
In questa Trilogia David Bowie si afferma come compositore e musicista concettuale, coraggiosamente proiettato verso una musica più astratta, verso un lirismo simbolico e non essenziale, un minimalismo scarno ed ermetico.
Nel 1976 David Bowie lascia Los Angeles che definisce “il bubbone più repellente della feccia dell’umanità” per trasferirsi in Europa, in Svizzera sulle colline a Nord del Lago di Ginevra. E’ afflitto da seri problemi di salute per l’eccessivo consumo di cocaina, tali da far temere per la sua sanità mentale e lui cerca, attraverso la pittura, di estraniarsi un po’ dall’ambiente musicale che lo circonda. Dipinge e fotografa qualsiasi cosa gli capiti a tiro e frequenta molte gallerie d’arte sia a Ginevra che a Berlino: ed è proprio la scena artistica di quella città ad incuriosirlo maggiormente tanto da decidere di trasferirsi in un appartamento a Schöneberg, nella Berlino Ovest di quel tempo, insieme con l’amico Iggy Pop. Erano gli anni della Guerra Fredda; nelle strade di una città devastata, isolata, fredda, “agonizzante e senza nessuna speranza di riscatto”, David Bowie vive in uno stato di esaltazione ed euforia: era finalmente arrivato il momento di abbandonare le droghe e tentare di rivitalizzare la propria immagine pubblica, offuscata da alcune sventate dichiarazioni sul nazismo, smentite solo a metà e ampiamente diffuse dai giornali scandalistici dell’epoca: per attuare questo programma decide di iniziare a collaborare con Brian Eno, ex tastierista dei Roxy Music, che in quel periodo stava lavorando intorno ad alcuni progetti ispirati alla musica cosmica e minimalista.
Durante quello stesso periodo Bowie è determinato ad aiutare il suo amico Iggy Pop, anch’egli purtroppo invischiato in problemi di droghe ed in crisi di creatività, scrivendo insieme con lui il suo primo album del quale cura anche la produzione: nasce The Idiot ed il successivo Lust for Life che forniscono il materiale per una lunga tournée dei due artisti in Inghilterra, Europa ed USA in cui Bowie, forse per rimpolpare anche il suo conto in banca decisamente indebolito da una vita senza freni, vestirà i panni di un anonimo tastierista. Low, primo album della cosiddetta Trilogia di Berlino, in realtà era già pronto, ma uscirà solo verso la fine del 1977, dopo i dischi di Iggy Pop: in questo lavoro egli si afferma come compositore e musicista concettuale, coraggiosamente proiettato verso una musica più astratta, verso un lirismo simbolico e non essenziale, un minimalismo scarno ed ermetico. Il disco si piazzò secondo in classifica in Gran Bretagna e negli anni, nonostante la critica non fosse mai stata del tutto favorevole, diventerà un vero e proprio oggetto di culto e l’artista d’avanguardia Philip Glass, ad esempio, lo definirà “un’opera geniale di incomparabile bellezza“.
Low fu registrato in Francia, vicino Parigi, allo Chateau d’Herouville, e rinchiusa in quel castello, attrezzatissimo monumento del suono, troviamo una line-up molto nutrita: David Bowie, voce, basso sintetizzato, sax, violoncello, xilofono, chitarra, armonica, pianoforte, vibrafono, percussioni, sintetizzatori, suoni ambientali, produzione; Brian Eno, sintetizzatori, chitarre trattate, voce in Sound and Vision; Carlos Alomar, chitarra; Dennis Davis, batteria, percussioni; Ricky Gardiner, chitarra; Eduard Meyer, violoncello in Art Decade, ingegnere del suono; George Murray, basso; Roy Young, piano, organo Farfisa; Iggy Pop, cori in What in the World; Mary Visconti, cori in Sound and Vision; Peter & Paul, piano e ARP in Subterraneans; Tony Visconti, produzione; Lauren Thibault, ingegnere del suono. Il disco verrà ultimato all’Hansa Tonstudio 2 di Berlino Ovest. Diciamo subito che l’apporto di Brian Eno fu determinante soprattutto perchè artefice di quelle “Strategie Oblique”, vere “tavole” della creatività che contenevano istruzioni casuali come “onora il tuo errore come intenzione nascosta“, “enfatizza le pecche“, “usa personale non qualificato” e via dicendo, destinate a ridefinire il linguaggio musicale di Bowie, a rinnovarlo dall’interno dei suoi contenuti semantici: lui stesso chiarirà ulteriormente questo processo definendolo “astrazione della comunicazione” che userà da quel momento in poi nei suoi lavori successivi.
Bowie aveva cominciato a scrivere brani strumentali già nel 1975, quando gli era stata affidata la colonna sonora del film The Man Who Fell To Earth, interpretato da lui stesso e rimasta incompiuta ed inedita; in quell’occasione aveva cercato motivi d’ispirazione nella musica cosmica di Brian Eno, naturale dunque che i due musicisti cercassero di collaborare. Fu essenziale poi il lavoro che svolse il produttore Tony Visconti, a cui si deve la creazione di un nuovo apparecchio, l’Harmonizer, che avrebbe donato alla batteria una timbrica assolutamente nuova e futurista, in seguito molto richiesta da band e compositori di tutti i tipi. Low, “depresso” questa la chiave di lettura dell’intero album, composto principalmente di suoni, rarefatti ed eterei, ispirati alla musica cosmica di matrice mitteleuropea mescolati, nella prima facciata alla ritmica multicolore di Alomar-Murray-Davies.
Le liriche (laddove comprensibili e non linguaggio solo apparente, dal contenuto semantico nullo) rispecchiano l’intima sofferenza del musicista: in Always Crashing In The Same Car, brano folk non tradizionale con un uso importante dell’elettronica, la sua voce, innaturale ed impressionista, esprime un fatalismo molto vicino all’atarassia; oppure in Breaking Glass, dove, nelle spire di un ritmo funk cibernetico e marziale, egli nasconde frammenti di vita ordinariamente burrascosa; l’urgente bisogno di aiuto e sostegno umano in Be My Wife viene bene interpretato da una chitarra rabbiosa che si muove in uno spazio rock aspro e spigoloso; la oggettiva difficoltà della rinascita esistenziale, la tristezza e la malinconia del fallimento personale, prendono corpo in Sound and vision, si trasfigurano in un’algida atmosfera elettronica con la bellissima batteria di Dennis Davis molto effettata e il coro di Mary Visconti; ancora inquietudine, infine, ed insicurezza in What in the World, brano pop-rock più tradizionale, con la voce di Iggy Pop ai cori di accompagnamento. Velocissimo e fresco, l’opener solo strumentale Speed of Life, dall’irrestistibile e trascinante melodica rock aperta da un effetto curioso, l’assolvenza, che crea in chi ascolta la sensazione di essere capitato nel mezzo di qualcosa già iniziato, fa il paio con l’altro brano strumentale, A New Career in a New Town, che chiude invece la prima facciata e che la dice tutta sulla svolta che Bowie vuole imprimere alla sua vita e nel quale si sentono maggiori le influenze dei Kraftwerk nella miscela originale di R&B ed elettronica.
“Warszawa descrive Varsavia e il senso di desolazione che avevo provato visitando la città.” Così Bowie racconta in due parole il senso del brano di apertura della seconda facciata, tutta strumentale (se si escludono alcune frasi e frammenti di testi senza senso apparente) ed in cui è Brian Eno ad interpretare il ruolo di protagonista: Bowie voleva “un pezzo molto lento” che avesse “un sentimento quasi religioso” e allora ecco i sintetizzatori intonare una lamentazione funebre, una salmodia triste e monocorde nella quale ci si accorge di aver abbandonato del tutto il narrato della prima parte, di esserci addentrati in un territorio sconosciuto della mente. Il viaggio immaginario prosegue nella Berlino Ovest di Art Decade una città prigioniera all’interno di un blocco, quello sovietico, che non lasciava speranze di redenzione, una città culturalmente agonizzante. Pregevole la parte di violoncello scritta da Tony Visconti ed eseguita da Eduard Meyer. Weeping Wall: ed eccolo il famoso muro di Berlino, grigio ed angosciante, in un brano anch’esso strumentale, questa volta del solo Bowie. Breve parte cantata, ma sono solo onomatopee, suoni evocativi senza significati reconditi; infine Subterraneans, ultimo brano di Low, anch’esso strumentale e unico pezzo che risale alla colonna sonora dell’Uomo che cadde sulla Terra mai pubblicata, dà l’impressione, appunto di un frammento incompleto, con un doloroso assolo di sassofono che ben rappresenta i cittadini dimenticati di Berlino Est.
Heroes, seconda parte della trilogia di Berlino, è l’unico dei tre album ad essere stato creato e realizzato interamente in Germania. Bowie ha dismesso i panni della rockstar glamour e dissoluta ed è riuscito ad integrarsi nella città, nei suoi ambienti artistici e musicali; completamente disintossicatosi dalle droghe, riesce a relizzare meglio le sue idee musicali e il disco in gestazione appare subito venato di ottimismo. Permane, tuttavia, lo spettro della Guerra Fredda e lo studio di registrazione Hansa by the Wall è situato a soli 500 metri dal muro di Berlino e secondo quanto dice Visconti le guardie russe li spiavano con grandi binocoli. Si riparte dunque, questa volta con un ospite d’eccezione: Robert Fripp, che si trasferisce a Berlino da Bowie insieme con Brian Eno, per realizzare uno dei suoi non rari capolavori chitarristici. Persino la copertina sarà destinata a far parlare di sè, con il ritratto del cantante in una posa ispirata alle opere dell’artista Eric Heckel (in quella di Low egli aveva scelto un profilo più minimalista scegliendo un fotogramma del film L’uomo che cadde sulla terra che lo ritraeva nei panni del protagonista). Dieci nuovi brani, dieci diamanti consegnati alla storia nel 1977: si comincia con Beauty And The Beast, rock irrequieto su cui aleggiano la ricca elettronica di Brian Eno e il pianoforte naturale tanto caro a Bowie: i riff di Robert Fripp avvolgono la voce cupa e baritonale del cantante e quella di Antonia Maass in una fitta nebbia timbrica. Fripp apre anche Joe The Lion con una chitarra molto distorta a celebrare la figura dell’artista-performer Chris Burden, autore di body art piuttosto “forti” nei primi Anni Settanta. Bowie aggredisce il brano con una voce incurante degli standard più comuni su intonazione ed emissione del soffio vocale a testimonianza della sua forza vitale ritrovata della sua buona salute (anche mentale).
La terza traccia, la titletrack “Heroes” (con le virgolette a sottolineare l’ironia del tributo al brano Hero del gruppo tedesco Neu!) da sola vale l’album intero. Heroes è un brano commovente, struggente, languido e malinconico e tante altre cose che vengono racchiuse dentro quell’unica frase di forza straordinaria “possiamo essere eroi, solo per un giorno” che coglie all’improvviso il nostro cuore sciogliendoci in quell’inno alla vita. “Heroes” nasce dalla storia di due giovani innamorati che si baciano a Berlino all’ombra del Muro e che nonostante la sorte sfortunata di quella città non rinunciano al loro sogno di felicità, di migliorare la loro esistenza. Bowie canta con veemenza tutto questo innalzandosi in volo sugli strumenti che sostengono al meglio la struttura compositiva del brano ma anch’essi si sciolgono alla fine di fronte alla forza del cantato divenuto urlo eccitato e disperato… difficile rimanere insensibili..!! Robert Fripp, nel suo modo unico, compie un capolavoro di inventiva creando un’onda continua con la sua chitarra, un sustain di tutto il brano, quasi un duetto-duello con la voce di Bowie e Brian Eno ci mette di suo quel senso dell’epico, del glorioso che pervade tutto il pezzo. Sons Of The Silent Age, il sassofono diventa protagonista insieme con la voce di Bowie mentre egli enuncia versi che potrebbero essere interpretati in vari modi fino a chiedere il silenzio con voce sforzata. Blackout, brano di stampo industrial con Brian Eno in evidenza. V-2 Schneider, si ispira a quel primo terribile missile balistico lanciato dalla Germania contro Londra ed il Belgio nella Seconda Guerra Mondiale e al membro fondatore dei Kraftwerk Florian Schneider: il brano inizia con un phasing che imita il rumore del missile, ma i veri protagonisti sono sintetizzatori e sassofoni accompagnati in alcuni momenti da cori distanti. Sense Of Doubt, brano cupo e claustrofobico di difficile ascolto, tra le note leggiamo lamenti e morte, cieli sporchi di smog e strade vuote: l’andamento è quello di una colonna sonora e non ha caso questo brano fu scelto insieme ad “Heroes” e altri per commentare molte scene del film Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino del 1981, tratto dall’omonimo romanzo di Christiane Felscherinow e che contiene anche un cameo dello stesso Bowie.
Moss Garden, altro brano strumentale con Brian Eno co-autore, contiene delle scale che traggono ispirazione dalla musica orientale ed è suonato sul Koto uno strumento della tradizione giapponese: atmosfere elettroniche algide e rarefatte creano uno stacco netto con il brano precedente rischiarando un po’ l’umore dell’ascoltatore. Neuköln, brano che rimarrà famoso negli anni, bene rappresenta con il sassofono irrequieto di Bowie che si stacca dallo sfondo sonoro, l’atmosfera del quartiere berlinese omonimo che ospita la comunità turca durante quegli anni di Guerra Fredda. The Secret Life Of Arabia, brano completamente diverso dal resto dell’album, protagonista Carlos Alomar, con un Bowie ironico e sornione in un aria funky, a tratti disco con sberleffi mediorientali, anticipa molte delle cose che ascolteremo negli anni Ottanta. “Heroes” resta uno dei classici dell’arte del Novecento, testimone asciutto e oggettivo degli stati d’animo dell’artista e dell’ambiente berlinese di quel periodo così travagliato.
Lodger, registrato nei Mountain Studios, di Montreux nelle pause del tour Stage che portò Bowie e i suoi musicisti in giro per quasi tutto il 1978, e terminato ai Record Plant Studios di New York nel marzo del 1979, copertina dell’artista pop inglese Derek Boshier, in apparenza, è l’album più accessibile tra quelli che compongono la Trilogia di Berlino e questo è dovuto al fatto che non ci sono brani strumentali ma una manciata di canzoni pop. Composto anche questo insieme con Brian Eno, Lodger è un album nodoso e contorto per quel suo modo di incorporare le tendenze sperimentali di un pop d’avanguardia nella forma canzone, un procedimento creativo che non troviamo negli altri due album della trilogia. D.J., Look Back in Anger, e Boys Keep Swinging, ad esempio, hanno una forte struttura melodica che viene però sovvertita da dissonanze dure e metalliche, mentre il resto del disco si divide tra pop d’avanguardia e lunghe parti strumentali in stile ambient. Lodger ha una struttura spigolosa e minimalista e tuttavia delle tre resta l’opera con un impatto emotivo più immediato, che i fans dell’artista sono riusciti ad interpretare meglio: questo album non amplia certo i confini del rock come Low o Heroes, ma utilizza quelle stesse idee in maniera forse più efficace. Robert Fripp passerà la mano ad Adrian Belew, che poi lo raggiungerà nei King Crimson, e la crew si amplia fino a comprendere anche Sean Mayes, pianoforte, Simon House, violino e mandolino, Roger Powell, sintetizzatore.
Molti i temi trattati nei testi: da Fantastic Voyage, dove il pericolo nucleare viene affrontato con sarcasmo, a African Night Flight, ricordo di un viaggio in Kenya dove partecipò ad uno stravagante safari; da Yassassin, che in lingua turca significa “lunga vita”, arrangiato su un ritmo reggae un po’ stralunato, nel quale ritorna sugli episodi di intolleranza razzista nei confronti dei suoi vicini di casa turchi a Berlino, a Red Sails, con una base da Kosmische Muzik ed uno strano ritornello. Repetition affronta con serietà il tema delle violenze domestiche anche se è un marito fallito a parlare; in D.J. polemizza con i disc jockey, nuovi satrapi delle classifiche, mentre tornano le allucinazioni venefiche del periodo depresso in Look Back In Anger. In Red Money, Bowie rivisita Sister Midnight, un vecchio pezzo scritto per Iggy Pop in cui ripropone la tematica del cambiamento; in Move On, infine, che sembra sia nato girando al contrario i nastri di All The Young Dudes, il tema del viaggio nasconde in realtà una sorta di elegia dell’assenza.
Dopo la Trilogia di Berlino Bowie continuerà a comporre musica ma con alterna fortuna e non riuscirà a raggiungere di nuovo quei toni elevati concepiti durante quel particolare percorso artistico: in quell’esperienza confluirono le vicende umane irripetibili che egli visse in quella decadente e claustrofobica Berlino della Guerra Fredda: disperazione profonda e profonda amicizia, quella con Iggy Pop, la disintossicazione e la difficile ricostruzione di se stesso in un clima di anonimato esistenziale che paradossalmente lo aiutò piuttosto che demolirlo, restituendogli quella pace perduta in tanti anni di sovraesposizione mediatica.