
Il triennio Art-Rock dei Queen (1974-1976)
Tre anni, quattro album, (Queen II, Sheer Heart Attack, A Night At The Opera, A Day At The Races) prima di diventare mainstream.
I Queen sono stati uno dei gruppi con maggiore riscontro di pubblico della storia del rock. Questo enorme successo, che ha coinvolto e coinvolge tutt’ora sia gli adolescenti sia un pubblico adulto, deriva da vari fattori. In primis la figura carismatica di Freddy Mercury, figura ambigua, teatrale, dotata di un’elevatissima estensione vocale che gli permetteva di passare dall’hard rock all’operetta. Altro fattore è stato la capacità di creare, miscelando l’hard rock dei Led Zeppelin (pur depurato dal disagio giovanile che questo in parte rappresentava) con l’estetica glam rock esplosa in quegli anni con David Bowie, melodie estremamente semplici ed orecchiabili, accompagnate da frequentissimi cori (il loro reale marchio di fabbrica) che col tempo diventeranno veri e propri inni da stadio. Questa innegabile semplicità dei brani è stata comunque accompagnata nei primi anni della loro carriera, nel triennio 1974-76, da una discreta qualità che consentì di creare, almeno 3-4 album interessanti, elaborati, con elementi originali che prendevano ispirazione anche dal progressive rock britannico.
Il loro primo album, Queen (Voto 6/10) del 1973, era ancora acerbo e immaturo. Conteneva comunque My Fairy King, che aveva in se quegli aspetti di opera rock che verranno ripresi negli anni successivi, e soprattutto Liar, il miglior brano dell’album. Appariva per la prima volta la scritta No Sintetizzatori che, secondo i Queen, stava a significare una maggiore onestà verso il pubblico che poteva ascoltare suoni veri e non artefatti. L’idea era abbastanza bislacca in quanto, in quegli anni, c’era gente che con i sintetizzatori stava stravolgendo la storia della musica. Inoltre la loro musica non poteva definirsi non artefatta, in quanto l’uso dell’overdub, cioè di sovraincisioni di strumenti e voci diverse, era massiccio e nei loro anni migliori (ad esempio in A Night at The Opera) divenne quasi maniacale.
Con Queen II del 1974 (voto 6,5/10), il suono diventò molto più tipico di quello che abbiamo chiamato il triennio art-rock. C’era maggiore complessità e maturità, in particolare i brani The March of the Black Queen e The Fairy Feller’s Masterstroke sono i primi dove i Queen realizzarono quello che avevano in mente, un hard rock barocco, influenzato da prog-rock, accompagnato da cori sovraincisi che erano la loro vera peculiarità di quegli anni. Mercury affinava sempre più la sua figura da presentare in pubblico. May e Taylor, pur in secondo piano rispetto a Mercury, collaboravano scrivendo gran parte dei brani e mantenendo ognuno proprie caratteristiche (brani hard rock o acustici per May e un rock molto duro e difficile da etichettare per Taylor, tra l’altro dotato di una voce molto particolare). Nel disco c’era anche spazio per uno dei primi brani con quasi tutte le caratteristiche del metal, Ogre Battle. Interessanti anche la intro Procession che mostrava come May cercasse un suono quasi sinfonico dalla sua chitarra elettrica, e la ballad White Queen, che alternava melodia alla durezza della chitarra.
Sempre nello stesso anno veniva pubblicato Sheer Heart Attack (voto 7/10), un ulteriore passo in avanti rispetto a Queen II. L’album era più orecchiabile e apriva le porte dei Queen ad un successo insperato. Ad esempio Killer Queen fu il loro primo vero successo commerciale. Le cose più interessanti erano altrove, gli esperimenti vocali di In the Laps of the God, quelli di May con la chitarra di Brighton Rock, il revival anni trenta di Bring Back That Leroy Brown, la teatrale Flick Of The Wrist e Stone Cold Crazy, da molti ritenuto il primo brano metal della storia. Sheer Heart Attack era il disco intermedio tra gli esordi e il loro miglior album, il successivo A Night at The Opera.
A Night at the Opera (voto 7,5) è stato certamente il miglior album dei Queen, l’apice della loro carriera artistica. Ci si trovava di fronte una vera opera rock che, ancora una volta, miscelava facili ritornelli, opera lirica, hard rock e Theatre du Vaudeville. La miscela era in parte inaudita ma l’equilibrio tra le parti riuscì perfettamente. Bohemian Rhapsody è stato il loro capolavoro, tanto originale e maniacale da ricordare i taglia e cuci zappiani. Segnalo anche The Prophet’s Song, il brano più complesso, quasi progressivo, scritto da May, il divertente Vaudeville di Seaside Rendezvous, l’hard rock di Death on two Legs e di I’m in Love with my Car, il revival di Lazing on a Sunday Afternoon. Nell’album c’era un pò di tutto, tutto reso in modo semplice e intuitivo, adatto a vari tipi di pubblico e di età. La strada per il successo era pronta.
L’anno dopo i Queen cercarono di ripetere il successo del loro precedente lavoro e lo fecero partendo sia dal titolo che dalla copertina. Ma A Day at the Races (voto 6,5) accentuando la parte melodica e vocale creò più canzonette pop carine che brani di un certo spessore. You and I era tipica dell’esagerazione dell’uso dei cori che alla lunga stancavano l’ascoltatore. I brani migliori erano l’hard rock di Tie Your Mother Down e Somebody to Love, un classico della loro discografia. I cori gospel sono tra i migliori mai registrati dai Queen, se non fosse per l’assolo di May che ha l’aria di essere fuori posto, il brano sarebbe perfetto. The Millionaire Waltz e Good Old-Fashioned Lover Boy erano due brani retrò che riprendevano i revival descritti negli album precedenti. Furono gli ultimi della loro carriera. Con A Day at the Races terminava il periodo migliore, art-rock, dei Queen. Dal 1977 in poi la loro carriera diventò, con l’eccezione del colpo di coda finale Innuendo, mainstream sfrenato. Bisogna però ammettere che all’interno del mainstream i Queen possedevano qualità mediamente superiori. Nonostante la svolta, o forse proprio per questo, le loro vendite raggiunsero cifre esorbitanti. La verità era che i Queen avevano ormai abbandonato ogni ambizione artistica, fu proprio Mercury a dirlo in un’intervista negli anni ottanta: “Non dovete cercare significati particolari nella nostra musica, è solo divertimento, puro divertimento”. Nel 1977 pubblicarono News of the World (voto 6/10), un album di svolta. I Queen con We Will Rock e We are the Champions crearono veri e propri inni da stadio destinati a farli entrare nell’empireo delle vendite. Avevano ormai trovato un posto nell’Olimpo del rock ‘n’ roll. Nel frattempo strizzavano l’occhio alle nuove mode, il punk, nel brano Sheer Heart Attack. Il brano migliore era My Melancholy Blues dove Mercury mostrava le sue enormi capacità vocali. Se News of the World era stato il disco della consacrazione del grande pubblico, divenne anche l’inizio della fine. La consacrazione c’era stata, ma era solo commerciale. Jazz (voto 4,5/10) del 1978 è stato il loro peggior album degli anni settanta. Ormai privi di idee e alla ricerca di nuovi brani “sfonda classifica” li cercarono in un hard rock banale, a volte di una banalità imbarazzante (Mustapha). Erano passati solo tre anni da A Night at the Opera ma sembravano molti di più. L’ingresso negli anni ottanta non fu semplice, i Queen cercarono di crearsi una nuova immagine per non apparire dei dinosauri del rock. Già dalla copertina (vestiti in pelle, capigliatura rockabilly) di The Game (voto 4,5/10) si capiva il tentativo di cambiamento. Nel disco però non c’era nulla se non una ripresa di sonorità rock’n’roll, alcuni classici brani corali stile Queen e per la prima volta, un uso del sintetizzatore che non aggiungeva nulla di buono. Dopo pochi mesi pubblicarono la colonna sonora del film Flash Gordon (voto 5,5), che aveva perlomeno il merito di portare i Queen in ambiti nuovi. Hot Space (voto 3/10) del 1982 fu il peggior album della loro carriera. A quel punto apparì inevitabile prendersi un perido di riposo, il livello raggiunto era davvero troppo basso. Il 1983 fu un anno sabbatico, i quattro si dedicarono a progetti solisti per poi ritrovarsi nel 1984 cercando di riproporre suoni più consoni al loro stile. The Works (voto 4/10) li fece riconciliare con i vecchi fan e portò il loro singolo Radio Gaga ai vertici delle classifiche. Seguirono esibizioni live sempre più pompose che testimoniano come i Queen erano diventati un enorme baraccone capace di riempire stadi in ogni angolo del globo. A Kind of Magic (voto 5/10) segnava il ritorno dei Queen al cinema ma era puro mainstream, un insieme di brani totalmente scollegati fra loro, alcuni francamente orribili (Pain Is So Close to Pleasure). Altri invece, Who Wants To Live Forever e la title track, mostravano un buon compromesso tra qualità e commercialità. Il successivo The Miracle del 1989 (voto 4,5/10), registrato dopo che Mercury era venuto a conoscenza della sua patologia, fu il primo dove i brani erano scritti da tutti i quattro musicisti. Dopo anni di musica disimpegnata cercarono di affrontare il tema della guerra (The Miracle) ma il risultato era estremamente infantile, mentre I Want it All cercò di riproporre un brano inno aggiornato alle nuove generazioni. Ormai i Queen erano alla frutta, nonostante ciò le vendite continuavano a premiarli. A The Miracle non seguì più alcun live vista la salute ormai precaria del leader. Ma proprio nel momento peggiore si giunse ad un inaspettato colpo di coda finale. L’ultimo loro vero album, Innuendo (voto 7/10) del 1991, fu un passo in avanti enorme rispetto alla loro recente discografia. In tutto l’album aleggiava una sensazione di morte e di depressione, tutta dovuta dallo stato di salute di Mercury. Tra i brani primeggiava certamente Innuendo, il loro miglior brano dal 1976 in poi, tra l’altro impreziosito dalla chitarra classica di Steve Howe degli Yes. The Show Must go on era lo straziante addio di Mercury, ormai consapevole della sua fine. These Are the Days of Our Lives era un nostalgico ricordo dei loro anni giovanili mentre I’m Going Slightly Mad si segnala per la splendida voce di Mercury e per il clima decadente. Finisce così la carriera ventennale dei Queen, con un buon album che spicca rispetto alla discografia anni ottanta. Quello che verrà dopo sarà un tentativo, a volte ignobile, di sfruttamento commerciale dell’immagine del defunto Mercury. Tra infinite raccolte e live, si toccò il fondo con l’orribile Made in Heaven, che già dal titolo mostrava la sfacciataggine delle case discografiche.