
Intervista a Vittorio Nistri, terza parte.
Vittorio Nistri, un protagonista di primissimo piano della musica sperimentale italiana, mente e creatore dei Deadburger Factory
Concludiamo con l’ultima parte dell’intervista a Vittorio Nistri che ci parla del secondo e terzo cd di La Fisica delle Nuvole e di tantissimo altro.
Valerio D’Onofrio: Il secondo album è davvero eccezionale. Si tratta di avanguardia pura, nel primo brano cercate di ricreare l’urlo di Münch in musica, non posso che farvi i complimenti.
È diviso in due parti, una intitolata microonde ed una seconda vibroplettri. Leggo che i primi quattro brani sono state realizzati utilizzando quale unica sorgente sonora un comune forno a microonde, la descrivi come musica cosmica fatta in cucina. Puoi spiegarmi meglio?
Vittorio Nistri: Questo è uno split album. Se fosse un vinile (e forse un giorno lo ripubblicheremo su LP, con una tracklist ampliata), il lato A sarebbe “Microonde” e il lato B “Vibroplettri”.
Ogni lato è stato registrato imponendosi di utilizzare una sola ed unica fonte sonora. (I Deadburger spesso si autoimpongono dei “limiti”, non per masochismo, ma perché costituiscono uno stimolo per la creatività).
Per Vibroplettri, la fonte sonora è stata la chitarra di Alex, suonata usando come plettri piccoli congegni elettrici vibranti. Per lo più sex toys, ma anche rotori per lecca lecca Chupa Chups.
Per Microonde, la fonte è stata il banale forno DeLonghi della mia cucina.
Sono partito registrando la sua gamma di suoni. Il ronzio di accensione, il bip dello spengimento. Lo sfrigolare di diverse tipologie di cibo messe nel suo interno a cuocere. Le chiusure dello sportello, effettuate con varie gradazioni di forza. Ritmi primitivi ottenuti percuotendo a mani nude le lamiere. Suoni tipo güiro, ottenuti strusciando le dita sulle griglie dell’areazione. Indimenticabile la faccia di mia moglie quando mi ha trovato all’alba, in cucina, in piena colluttazione col fornetto.
Dopo di che, ho acquisito tutti questi suoni sul Macintosh e li ho editati, loopati, e sopratutto intonati (sia con plug di pitch control, sia con vocoder. Ma anche ricampionandoli e suonandoli con una master keyboard).
Una volta organizzati i brani secondo il disegno compositivo che avevo in mente, ho ulteriormente processato i suoni del microonde, tanto con filtri elettronici quanto con trattamenti analogici (li ho passati attraverso pedaliere da chitarra – fuzz, wah wah – e amplificatori valvolari Marshall).
Ciascuno dei quattro brani di Microonde esplora un ambito differente di musica elettronica.
“La mia vita dentro il forno a microonde” è harsh noise. Lo registrai come autoterapia in uno dei momenti di maggior stress della mia vita. Un periodo in cui mi sentivo come l’Urlo di Munch.
“Strategia del topo” usa il microonde per rileggere il “motorik” krautrock; “Magnetron” la musica minimalista/iterativa (ma basterebbe aggiungere una cassa subsonica in quarti per trasformarla in abstract techno).
E infine, “Micronauta” è una rivisitazione dei Corrieri Cosmici. Un trip spaziale effettuato senza uscire dalla mia cucina.
Potrei aggiungere che una cosa che accomuna i due lati dello split è l’elogio del moto sottile. Il forno a microonde riscalda gli oggetti facendone vibrare le particelle. I vibratori per definizione vibrano, se no sarebbero solo dei cetrioli. In ambedue i casi, abbiamo un movimento continuo ma sottile, sottile, al punto da essere poco o nulla percettibile ad occhio nudo.
Eppure, senza questo movimento, si perderebbe il meglio.
Questo è quello che cerchiamo di fare con le architetture compositive dei Deadburger. I brani si basano su strutture essenziali (un loop, o un riff, o una sequenza minima di accordi), che però “vibrano”, con spostamenti sottili ma incessanti, al punto che non c’è mai un momento identico ad un altro.
Valerio D’Onofrio: Nella seconda parte c’è una dedica al primo cinema di fantascienza con “Dr. Quatermass, I Presume”. Anche il nome Deadburger si riferisce al film 2022 I sopravvissuti. Che rapporto ha la vostra musica col cinema di fantascienza?
Vittorio Nistri: Nei migliori cinema e letteratura di fantascienza c’è una componente importante di tecnologia, che però si interseca con una, ancora più importante, prettamente “umanista”. A questo connubio si aggiunge, in molti casi, un forte gusto visionario. Ecco… io credo che la combinazione di questi tre elementi sia presente anche nella musica dei Deadburger.
Certo, non tutti i filoni della fantascienza ci intrigano. Io, per esempio, non sopporto quello della space opera e delle spade laser, né quello bellico/machista dei marines vs alieni.
Amo molto, invece, certi piccoli film animati da una fantasia che le produzioni major neanche si sognano. Penso a outsiders ai confini della psichedelia, come Il Pianeta Selvaggio di Renè Laloux. O a un film come Monsters di Gareth Edwards, capace di trasformare il tema sfruttatissimo dei terrestri-inseguiti-dagli-invasori in una specie di viaggio iniziatico alla Werner Herzog (per poi – negli ultimi, straordinari cinque minuti – sorprendere tanto i protagonisti quanto lo spettatore con la scoperta della visionaria, struggente bellezza degli alieni).
Mi piace poi la cosidetta “fantascienza filosofica”. Dopo gli apici di Kubrick e Tarkovskij è stata un po’ trascurata, probabilmente perché poco compatibile con le orge di effetti speciali e i ritmi da action movie… ma non è mai scomparsa del tutto, e anche in tempi recenti ha prodotto piccoli capolavori. Come “Moon” di Duncan Jones (il figlio di Bowie: buon sangue non mente!).
Il filone della SF che però mi sembra più vicino ai Deadburger è quello della distopia. La fantascienza anti-utopica, i cui futuri fantastici altro non sono che una riflessione sui possibili punti di arrivo delle problematiche del presente.
Spesso queste speculazioni si sono rivelate singolarmente profetiche, non tanto dal punto di vista tecnologico (per dire: che io sappia, nella SF dei sixties nessuno aveva previsto il Web o i computer quantistici), quanto dal punto di vista delle tendenze sociali/politiche/economiche.
Nelle pagine di “1984” non troviamo le tecnologie attuali (…grazie al cielo, non siamo arrivati a far scrivere i romanzi da macchinari “versificatori”… anche se, a scorrere la lista dei libri più venduti in Italia, non ne sarei poi così sicuro). Ma certo Orwell aveva previsto lucidamente l’attuale erosione del concetto di “privacy”. Non ci hanno imposto telecamere in casa accese 24 ore su 24 a sorvegliarci, ma ci stiamo avviando in quella direzione tramite la mappatura permanente dei nostri movimenti e delle nostre dichiarazioni realizzata da social, web, cellulari e bancomat.
Similmente, Orwell aveva previsto la sinergia tra la semplificazione/superficializzazione del pensiero e la conservazione dei gruppi di potere esistenti (“l’ignoranza è forza”). E che dire dell’invenzione dei quotidiani “due minuti d’odio”? Non ha forse anticipato il rituale delle periodiche esplosioni di violenza verbale collettiva contro un “nemico”, che i nostri odierni demagogi fomentano come elemento di coesione del “popolo” o dei “cittadini”, nonché come sfogo catartico/onanistico delle tensioni sociali?
Da notare che la capacità anticipatrice della fantascienza distopica non è appannaggio solo di opere note e celebrate come “1984”. Anche in molte opere “minori” troviamo una simile abilità nel congetturare “the shape of things to come”. Rivisto oggi, “2022 I sopravvissuti” (dal quale i Deadburger hanno tratto ispirazione per il proprio nome) appare invecchiato come linguaggio cinematografico, ma terribilmente attuale nello scenario che dipinge: quello di una civiltà che finirà col divorare sé stessa, se continuerà ad inseguire il mito crescita illimitata invece che un progetto di sviluppo sostenibile.
Potrei portare innumerevoli altri esempi, ma mi limiterò ad un ultimo: il cyberpunk degli anni ’80. Temo che si stia rivelando esatta la sua previsione di un mondo in cui i governi delle varie nazioni andranno a diventare progressivamente irrilevanti, rimettendo il potere decisionale alle corporazioni multinazionali.
Ecco, quello che mi piace nella fantascienza distopica è lo sforzo di interrogarsi sul nostro futuro.
Oggi siamo troppo assorbiti dal bombardamento di inputs usa-e-getta, e troppo schiacciati sul presente dalla difficoltà e precarietà del lavoro, per coltivare il pensiero del futuro. Ma sarei felice di vedere questa tendenza invertirsi.
Io, personalmente, ho fame di futuro.
Forse perché, non essendo più giovane, ne ho meno davanti a me. O forse semplicemente perché è nel mio carattere. Anche a vent’anni, ero affascinato dal pensiero del “what happens next?”.
Valerio D’Onofrio: il terzo cd ha una struttura meno elettronica, più tradizionale e con testi poetici. Come mai questo cambio di direzione?

Presentazione live de “la Fisica Delle Nuvole” alla galleria d’arte contemporanea “Studio Rosai” (ottobre 2013)
Vittorio Nistri: Io non ravviso nel terzo album del cofanetto un “cambio di direzione”, ma un ulteriore esperimento lungo le medesime direttive di ricerca degli altri due.
A differenza degli altri, il terzo cd vede la quasi totale assenza di suoni elettronici (il parco strumenti utilizzato è ampio, ma di tipo “tradizionale”: viola, flauto, clarinetto, sax, chitarra acustica, piano elettrico, organo, basso, batteria, percussioni acustiche). E tuttavia, anche il terzo cd non sarebbe mai esistito senza la sperimentazione elettronica.
Per spiegarmi, devo raccontarti le sue modalità di realizzazione.
Abbiamo preso un pugno di composizioni dei Deadburger – alcune inedite, altre tratte da nostri album precedenti – e ci siamo ritrovati in studio di registrazione, nella formazione ad otto del nostro ultimo spettacolo teatrale. Tutti i musicisti sono stati invitati ad improvvisare liberamente su questi brani, anche cambiandone durate, strutture, armonie. Abbiamo registrato per due giorni di seguito, e di ogni brano sono stati incisi diversi take, ciascuno diverso (…a volte, molto diverso) dagli altri.
Ulteriori improvvisazioni sono state sovraincise successivamente nel mio home studio.
Passato qualche tempo, ho cominciato a riascoltare sistematicamente tutte le improvvisazioni, una ad una, selezionando i momenti e gli spunti che mi sembravano più espressivi.
Ho lavorato mesi ad organizzare e equilibrare una cornucopia di contributi creativi dei più disparati. Cosa resa possibile dall’elettronica (e in particolare, dalla Santa Registrazione Digitale), che mi ha consentito, per esempio, di incrociare l’impro di flauto del take 1 di un brano con quella di viola del take 3, sulla base ritmica del take 4. O di posizionare come intro uno spunto scaturito improvvisando un libitum finale. O di isolare un paio di battute di un singolo strumento, che avevano apportato una qualche interessante variazione armonica, e su di esse scrivere un arrangiamento ex-post, che in seguito abbiamo realizzato con una apposita sovraincisione, sfumando i confini tra “improvvisazione” e “scrittura”.
Questa è stata l’importantissima, irrinunciabile componente tecnologica di un album solo all’apparenza non elettronico. Il risultato: arrangiamenti che, seguendo metodi di lavoro più canonici (come mettere a punto i pezzi in sala prove, prima di andare a registrare), non ci sarebbero mai venuti.
Benchè il terzo cd del box sia l’unico a presentare vere e proprie “canzoni”, a me e a i miei compagni di gruppo il terzo cd pare tutt’altro che “tradizionale”. Naturalmente, potremmo sbagliarci (se ad un orecchio preparato come il tuo, così come ad alcuni altri critici, è sembrato più “tradizionale” rispetto agli altri due dischi, può darsi senz’altro che sia così. Forse siamo noi che, stante il coinvolgimento emotivo, non riusciamo ad essere sufficientemente oggettivi nel giudicarlo). Ma ci piace pensare che la fruibilità più immediata del terzo disco si accompagni ad un grado di ricerca pari a quello degli altri due.
Prendi per esempio l’utilizzo della chitarra (rigorosamente acustica, per tutto l’album). I momenti in cui svolge il canonico ruolo di “accompagnamento” – ovvero, esposizione ritmica o arpeggiata di giri di accordi – sono limitati a una quarantina di secondi nella title track, e una trentina di secondi di arpeggio in “Cose che si rompono”. In tutto, un minuto o poco più. Per tutto il resto del disco, la chitarra acustica apporta alle canzoni linguaggi di altra natura (soprattutto impro e psichedelia). Su un brano melodico come “Wormhole”, la chitarra si produce solo in escrescenze puntilliste alla Derek Bailey. Non mi sembra esattamente un tipo di approccio “tradizionale” per una ballad. E una analoga discendenza da esperienze dell’area “avant/impro” è ravvisabile negli sfrigolii di chitarra acustica che chiudono “Amber”, o nel coinciso ma schizzato solo di “Deposito 423”.
Altro esempio: sia in “Amber” sia nella prima parte di “C’è ancora vita su Marte”, c’è il tentativo di applicare, pur rimanendo in un contesto di songwriting melodico, qualcosa di simile alla teoria armolodica di Ornette Coleman. Non esiste un “giro di accordi” su cui si deposita una melodia, bensì una melodia su cui possono interagire numerose opzioni di accordi. (In “Amber”, la melodia del basso viene accompagnata a volte da un re maggiore settima, altre da un do quinta diminuita, un re minore nona ecc. E in “Marte”, le armonizzazioni dei fiati oscillano tra si maggiore, la minore nona e do, senza rispettare una sequenza ripetuta, bensì assecondando volta per volta le note della voce).
Potrei continuare osservando che il terzetto di clarinetti bassi che conclude “Il mare è scomparso” (opera del sempre formidabile Enrico Gabrielli) opera sugli sfasamenti di patterns alla Steve Reich.
O che la title track, benchè sia stata in alcune recensioni accostata ai Massimo Volume (presumo, per la presenza della voce recitante), esprime il mio amore per altri mondi musicali: Philip Glass e Gavin Bryars, prima di tutto, ma anche “Gandharva” di Beaver & Krause (mi riferisco all’intervento di clarinetto che “galleggia” sulle.volute degli archi, così come in quel disco dimenticato e bellissimo il sax di Gerry Mulligan fluttuava sui tappeti dell’organo della Cattedrale).
Altrettanta ricerca è stata posta nella struttura dei brani. Abbiamo provato a raggiungere nuovi equilibri attraverso voluti squilibri. Per esempio, “Cose che si rompono” avrebbe potuto essere una ballata folk, basata su un “giro” di chitarra arpeggiata (con tanto di contrappunto di flauto alla “John Barleycorn”); ma al “giro” si arriva solo dopo una introduzione ossessiva, quasi kraut, su una sola nota, di lunghezza volutamente spropositata (dura il triplo rispetto al “giro” folk che segue). Altrettanto sproporzionata la porzione strumentale mono-accordo che segue, basata su una esplosione di percussioni che sembra contraddire la melodia precedente; e che invece sfocia di nuovo nel “giro” (stavolta con l’aggiunta di un tema morriconiano di chitarra e viola). Direi che qua, dei criteri canonici di strutturazione di una canzone folk, non ne è stato rispettato nessuno; eppure il brano, almeno alle mie orecchie, suona “giusto”, con uno sviluppo sensato sia musicalmente che emotivamente.
L’intero terzo disco del cofanetto è, per me e i miei compagni, un esperimento. Non sta a noi dire se riuscito o meno quanto gli altri, ma di sicuro frutto della stessa curiosità e dello stesso spirito.
I Deadburger non ripetono mai due volte lo stesso esperimento, quindi aspettati per il nostro album ancora qualcosa di diverso!
La prima parte dell’intervista.