
Intervista a Vittorio Nistri, seconda parte
Vittorio Nistri, un protagonista di primissimo piano della musica sperimentale italiana, mente e creatore dei Deadburger Factory
Ecco la seconda parte dell’intervista a Vittorio Nistri dove ci concentriamo sul primo dei tre cd di La Fisica delle Nuvole.
Valerio D’Onofrio: Arriviamo ora ai singoli cd. Il primo è uno splendido album d’avanguardia con varie rivisitazioni di brani di Erik Satie e si intitola “Puro Nylon 100%”. Cosa volevi dire scegliendo questo nome?
Vittorio Nistri: Una piccola precisazione: non è esatto parlare di “rivisitazioni”. Le quattro “Variazioni su un campione di Erik Satie” presenti nell’album sono altrettante composizioni originali, che ho scritto suonando sopra una singola battuta di 4 secondi campionata dal “Socrates” di Satie e messa in loop. Ho trasportato in un contesto “cameristico” una procedura compositiva storicizzata in altri ambiti (come l’hip hop primigenio, dove la scrittura dei brani partiva da frammenti di grooves campionati da vecchi vinili).
Venendo alla tua domanda: il titolo “Puro Nylon 100%” (che è stato un’idea di Tony Vivona, autore del libro di poesie utilizzato per i testi di quest’album) è un ossimoro. La lana può essere pura (e anche vergine: praticamente, il sogno di preti e iman!). E così le altre fibre naturali: seta, cotone, lino, cashmere, canapa (si, serve anche per fare tessuti). Ma il nylon no. E’ la fibra artificiale per eccellenza, e di “puro” – nel senso di “prodotto della natura” – non ha niente.
Io credo che la contraddizione tra aggettivo e sostantivo implicita nel titolo Puro Nylon rifletta una gran fetta della realtà. Dire una cosa per intenderne l’opposto. Esiste qualcosa di più diffuso?
Da Bush, “il presidente compassionevole” (sdoganatore della tortura) alla chiesa cattolica “dalla parte degli umili e degli oppressi” (al balcone con Pinochet).
Dai 5 Stelle “uno vale uno” ai paladini della famiglia pluridivorziati e puttanieri (nessuno secondo me ha rappresentato l’UDC meglio di Cosimo Mele!). Dai Pierluigi e Pierferdinando “mai col PDL” all’alternativo Salvatores che gira spot per McDonald.
Dall’emergenza nazionale “fondi mancanti per la ripresa” (mentre si acquistavano gli F-35) a amici fraterni “farei tutto per te” che poi ti fregano alla grande (io sono stato derubato da una persona cara, per la quale avrei messo una mano sul fuoco. Muzio Scevola rules!).
“Quel che ho detto ho detto, e qui lo nego” (Totò).
Questa è per me la prima valenza del titolo “Puro Nylon”. Ma ce n’è anche un’altra.
E’ un titolo che evoca contemporaneamente il naturale e l’artificiale, confondendone i confini.
Nella musica, i più identificano il naturale negli strumenti acustici e elettrici, e l’artificiale nell’elettronica (soprattutto quella in dominio digitale). Questo è un distinguo che a me non interessa. La compenetrazione (non contrapposizione) tra strumenti reali e manipolazioni elettroniche è una delle principali chiavi del suono Deadburger. E tutto l’album “Puro Nylon” è incentrato su un ininterrotto dialogo tra strumenti “classici” (viola, violino, violoncello, clarinetto, tromba, chitarra) ed elettronica.
Anche la compenetrazione di naturale e artificiale rispecchia secondo me l’hic et nunc in cui viviamo. Parecchi confini tra reale e non reale, nelle nostre esistenze, sono saltati da un pezzo. Esiste qualcosa di più innaturale di un reality? O di una caramella alla pesca senza traccia di pesca negli ingredienti?
La realtà e la sua rappresentazione (che realtà non è) tracimano l’una nell’altra. A partire dalla nostra politica (vent’anni di immersione nel placebo di un’Italia virtuale, finchè lo shock dell’impoverimento non ha riportato un pò di focus sul reale) per arrivare all’abuso dei social network (non mi esalta vedere i ragazzi che “si parlano”, ognuno solo nella sua stanza a digitare PC o iphone, privandosi della real thing, cioè l’ascolto delle reciproche voci. Ma chi può dire che l’amicizia via tastini non sia, oggi come oggi, la real thing?).

Un’immagine di Bacilieri presente nel cofanetto di La Fisica delle Nuvole
Per essere obiettivi, e non sembrare pessimista ad oltranza, aggiungerò che la compenetrazione tra elementi teoricamente disomogenei può avere anche valenze positive.
L’ibridazione è movimento, cambiamento, vita. Possono esserci cambiamenti positivi e non, ma è un rischio che è giusto correre, perché senza cambiamento avremmo ancora i servi della gleba e la poliomelite.
E poi, il melting pot aiuta a superare il mito della “purezza”, che lascio volentieri ai Breivik e agli apritori di scatolette di tonno che augurano morte e stupri agli avversari politici. O – in musica – ai khomeinisti del 100% analogico o del 100% digitale.
Valerio D’Onofrio: Sempre nel il primo disco, uno dei brani migliori è “Obsoleto Blues”. Il Blues è obsoleto, il rock è morto, oppure la pensi come me, il Rock è appena nato?

Carlo Sciannameo
Vittorio Nistri: Da almeno tre decadi, periodicamente, si leva qualche voce apocalittica e integrata per informarci che il rock è morto. Ricordo negli anni ’80 una copertina del settimanale L’Espresso, con una foto dei Guns ’n Roses e il titolo “ROCK: IL DIO CHE HA FALLITO”.
Abbiamo sentito simili sentenze centinaia di volte. A pronunciarle, non solo critici, ma anche musicisti. Fra i tanti: Sting – all’epoca in cui si esibiva con una liutista per promuovere “Songs from the Labyrinth”, tributo al compositore elisabettiano John Dowland – dichiarava che “il rock odierno ha esaurito ogni stimolo”. E, per rimanere nel nostro paese, Umberto Palazzo, lo scorso novembre, ha suscitato un gran dibattito sul suo blog con l’affermazione che “in Italia, il rock è morto” (all’estero però no: è già qualcosa!).
Forse, il requiem più netto degli ultimi tempi è stato quello di Gino Castaldo, pubblicato su Repubblica nel gennaio 2012. Si intitolava “Il grande silenzio del rock: questa volta è finita davvero” (…come a dire: si, lo so che sono trent’anni che viene annunciata, magari anche a vanvera, la morte del rock…. ma questa volta è vero!). Le prove provate del decesso, secondo Castaldo, sono due: il fatto che le odierne classifiche siano dominate dal pop disimpegnato; e il fatto che imponenti movimenti di protesta (Occupy Wall Street, Indignados) non abbiano avuto una loro “canzone simbolo”.
Cosa ne penso io?
Secondo me, il rock è morto nell’animo di chi crede che lo sia. Mentre è vivo e vegeto nell’animo di chi ancora vede nel rock un veicolo di espressione di emozioni e passioni. Perché le emozioni e le passioni moriranno solo insieme all’ultimo uomo sulla Terra.
Quando Sting lamenta la mancanza di stimoli nel rock attuale, commette l’errore di estendere all’Universo Mondo quello che è il suo personale stato d’animo. Uno come lui, a questa musica, ha già dato tanto (e tanto ha ricevuto in cambio: un report di un paio di anni fa lo metteva al nono posto tra i musicisti più ricchi d’Inghilterra); è più che legittimo che oggi preferisca godersi la sua magnifica tenuta in Toscana. Ma credimi, caro Gordon Matthew Thomas: ci sono ancora persone per le quali il rock costituisce uno stimolo pulsante, e un’urgenza espressiva, come era per te quando cantavi il marciapiede di Roxanne. E non è una questione di età (artisti come Lou Reed e Scott Walker sono stati capaci di continuare a rimettersi in gioco anche passati i sessant’anni) né di status economico, ma proprio di spirito.
Certo, in giro c’è molta musica da supermercati. C’è sempre stata! Ma basta sforzarsi un pò, basta cercare, e… ancora oggi, io riesco regolarmente a trovare artisti capaci di emozionarmi impugnando una chitarra o una batteria. E ringrazio gli Dei della Musica perché questa sorgente continua a stillare, a dispetto i tutti i necrologi.
Un brano come “Obsoleto Blues” è una dichiarazione d’amore per il rock. Non rinuncia a quelle ibridazioni con altri mondi che caratterizzano l’album (vedi il serrato, e quasi organico, dialogo tra i loop elettronici e la performance di basso e batteria; oppure l’uso iniziale della chitarra per accordi sospesi, svincolati dal groove, in modo da ricoprire un ruolo simile a quella di cluster di archi). Ma il tutto viene riportato alla fisicità, la passione, l’elettricità del rock. Non a caso, il brano si conclude con una viscerale esplosione di batteria (grande Pino Gulli!), su cui Alessandro Casini innesta il topos e “cadavere” per eccellenza del rock: l’assolo di chitarra. I Deadburger di solito non ne fanno uso, ma qua proprio non ci potevamo esimere!

Deadburger dal vivo
Passando ora all’ultima parte della tua domanda: non saprei dire se il rock sia o meno – come pensi tu, Valerio – “appena nato”.
Forse io non lo vedo così beginner. Non dimentichiamoci che l’avvento del fonografo di Berliner e Edison ha cambiato per sempre la velocità di “maturazione” di qualunque proposta musicale.
In precedenza, ogni innovazione in ambito musicale (invenzione di nuovi strumenti o di nuove tecniche esecutive, evoluzioni di concezioni armoniche, ecc), necessitava di lunghi periodi di tempo per diffondersi. Ci volevano addirittura secoli perché diventasse patrimonio culturale acquisito.
Per dire: già nel secolo XV i compositori fiamminghi resero popolari le consonanze per terze maggiori o minori; ma occorsero poi altri tre secoli circa, perché il clavicembalo ben temperato di Bach rendesse popolare in tutto l’occidente la codifica delle scale maggiori e minori nelle varie tonalità dell’accordatura in 12 semitoni.
E bisognò arrivare alla seconda metà del 1800 perché la musica cominciasse a svincolarsi dagli obblighi di adesione alle scale maggiori e minori (…ed ecco le armonie enigmatiche del Tristano e Isotta di Wagner, l’uso di accordi di nona e undicesime di Satie, le scale esatonali di Debussy, eccetera).
Ma dal novecento in poi, questi tempi lenti di assimilazione e reazione non sono più concepibili. Tutto è cambiato con l’arrivo di tecnologie atte alla registrazione della musica, nonchè alla sua diffusione su supporti fruibili ovunque.
Da quando esistono dischi e radio (e ancor più oggi, col web), qualunque innovazione musicale diventa linguaggio universalmente acquisito (e dunque, non più “novità”) nel giro di pochissimi anni.
La musica rock, nata nel periodo di massimo successo dell’industria discografica, ha goduto di una diffusione planetaria rapidissima, che ha comportato una iper-accellerazione nella ricerca di innovazioni. Un esempio per tutti: Hendrix reinventò l’uso del suo strumento, ma furono sufficienti tre anni perchè il mondo pullulasse di chitarristi che seguivano, chi meglio chi peggio, i suoi insegnamenti. Al punto che, a soli due anni di distanza da Axis: Bold As Love, c’era già chi era pronto a recidere i ponti con l’imperante suono hendrixiano (è del 1969 l’esordio del Re Cremisi di Robert Fripp… e nello stesso periodo, Derek Bailey si accingeva a dare vita alla sua etichetta Incus).
Il rock ha partorito in pochi anni tante di quelle innovazioni che, in epoche precedenti, sarebbero state sufficienti per molti secoli.
Io penso fermamente che il rock continui tuttora, e continuerà sempre, a rigenerarsi e reinventarsi, ma con un passo meno frenetico rispetto al turbine di innovazioni apportate nel ventennio che va da metà anni ’60 a metà ’80. Certi bioritmi, fisiologicamente, non sono perpetuabili all’infinito.
In questo senso, non mi viene facile pensare al rock come “appena nato”. Lo vedo piuttosto come un giovane adulto, già con il suo bravo bagaglio di esperienze, ma con la voglia e la capacità di farne tante altre ancora.
Vorrei concludere questo punto con una replica alle argomentazioni di Gino Castaldo. I due fenomeni da lui rilevati (la netta prevalenza nelle charts di musica “disimpegnata”, e l’assenza di una specifica colonna sonora di riferimento per i recenti movimenti di protesta) sono sicuramente una realtà. Ma mentre Castaldo pensa che ciò dimostri l’esaurimento della capacità del rock di interpretare il presente (scrive testualmente: “mancano idee e progetti, il rock sembra incapace di rinnovarsi”)…. io penso che si tratti semplicemente della conseguenza del mutamento nelle modalità di fruizione della musica apportato dal peer-to-peer.
Il download illimitato e non pagato ha messo tutte le musiche del mondo a disposizione di chiunque, ma, paradossalmente, ha ristretto gli orizzonti musicali dell’ascoltatore “medio”. Ha infatti abituato la maggior parte degli ascoltatori a relegare la musica al ruolo di sottofondo: qualcosa che non richieda particolare attenzione né impegno.
Quando per sentire un disco bisognava necessariamente comprarlo, l’acquirente – anche nei casi in cui il primo ascolto non lo aveva convinto del tutto – gli concedeva un secondo ascolto, prima di buttarlo via, e magari anche un terzo. E non di rado, scopriva che proprio i brani che al primo impatto gli erano sembrati più ostici, agli ascolti successivi si rivelavano quelli che gli davano il maggiore piacere. Perché nell’arte capita che ciò che all’inizio richiede un piccolo sforzo, sappia poi ripagarlo alla grande.
Oggi che i dischi vengono per lo più scaricati gratis, o ascoltati altrettanto gratis su You Tube o altre piattaforme, difficilmente viene concessa la chance di un secondo ascolto. Se qualcosa non piace al primo impatto… viene semplicemente abbandonata, per passare a qualcos’altro. Con i milioni di brani disponibili in rete, perché dedicare tempo e impegno a qualcosa che non compiace l’orecchio di primo acchito?
Così facendo, vengono ad essere privilegiate le proposte musicali di più immediata fruibilità… che sono, nella maggior parte dei casi, quelle più canoniche e scontate. Quelle più simili a quanto si è già ascoltato in precedenza.
Risultato: oggi, sono oggetto di condivisione di massa quasi esclusivamente le proposte musicali più “commerciali”. E’ questa, secondo me, la causa dell’assenza di una colonna sonora per Indignados, Occupy Wall Street e altri movimenti antagonisti. Difficile pensare di scandire un corteo con Rihanna!
Detto questo… se è vero che la maggioranza degli ascoltatori oggi è incline a un approccio epidermico alla musica, è pur vero che esiste ancora chi attribuisce a quest’arte una diversa importanza, ed è disponibile a dedicarle amore e attenzione.
Vorrei dire a Gino Castaldo che idee e progetti non mancano: solo che non sono più appannaggio della maggioranza degli ascoltatori. Oggi, a seguirle, è una minoranza.
Peraltro, una minoranza bellissima, di appassionati sinceri e calorosi.
In un certo senso, la buona musica sta tornando ad acquisire una valenza di opposizione al conformismo di massa e al disimpegno imperante, come era nella fase pioneristica del rock.
Pochi ma buoni, insomma. Sperando che in futuro si possa ritornare a “molti ma buoni”.
Valerio D’Onofrio: Il brano “In Ogni Dove” sembra un omaggio alla psichedelia, magari alla neopsichedelia dei Bark Psychosis. Sei d’accordo? Puoi parlarci più diffusamente di questo brano?

Simone Tilli
Vittorio Nistri: La più bella definizione di “psichedelia” che io conosca è di Ian MacDonald, un critico e saggista inglese scomparso nel 2003. Nel suo opus magnum sui Beatles (“Revolution In The Head: the Beatles’ Records and the Sixties”) MacDonald scrisse: “The true subject of English psychedelia was neither love nor drugs, but nostalgia for the innocent vision of the child”.
“Il vero argomento della psichedelia non fu l’amore nè la droga, ma la nostalgia per la visione che è propria dei bambini”. Mi sembra perfetto!
Gli adulti troppo spesso si rassegnano ad accettare le cose come stanno. Potrebbero cercare di fare qualcosa (magari poco… ma quel poco sarebbe importante a prescindere) per cambiare quello che non va; e invece rinunciano anche solo a provarci. Una resa incondizionata di fronte a una realtà che “il buon senso” gli fa sentire come immodificabile e soverchiante.
Il bambino invece non conosce resa, e del buon senso non gliene potrebbe importare di meno. Nella sua mente, riplasma la Realtà come se fosse Pongo. La ricolora, ne espunge la meschinità. La rende di nuovo a misura di bambino – e dunque, di essere umano.
Questa è la potenza della visione dei bambini, e questo dovrebbe essere la psichedelia. Una ricarica di immaginazione e empatia. Un invito a scrollarci di dosso quell’eccesso di “realismo” che finisce col renderci rinunciatari. Uno stimolo per tornare a pensare che un altro mondo (forse) è possibile.
La psichedelia dovrebbe prendere per mano l’ascoltatore e portarlo altrove. Un altrove che può anche essere la realtà in cui viviamo, però osservata con occhi diversi. E’ quello che cerca di fare il brano che citi, “In Ogni Dove”.
E’ un trip psichedelico di 6 minuti, il cui testo (di Tony Vivona) parla di sentimenti e di bellezza. Cose che possono apparire carenti nella nostra esistenza quotidiana, stritolata dal loop “produci consuma crepa”, o – per chi non si trova nella condizione di produrre – da problemi economici giustamente prioritari.
Eppure, nonostante tutto, nei sentimenti e nella bellezza possiamo ancora imbatterci. Possono essere “in ogni dove” – anche e soprattutto dove uno non si aspetterebbe di trovarli. Magari aspettano solo di esser scovati da uno sguardo diverso.
La musica di “In Ogni Dove” a me fa venire in mente un viaggio notturno. I neon di una città d’inverno. Il viaggio sembra senza meta, ma invece è una ricerca di qualcuno o qualcosa, perché nella musica c’è un senso di solitudine… ma anche il desiderio di non arrendersi alla solitudine.
La parte finale di marimbas e tromba la immagino come il termine della notte. L’arrivo di un alba che è una promessa di calore, e non solo come temperatura nelle strade. Quel qualcuno o qualcosa, forse, è stato trovato.
Il tutto viene “raccontato” con scenari musicali dilatati, ipnotici, apparentemente iterativi eppure in perenne cambiamento. C’è secondo me un gusto visionario, che si esplica nell’utilizzo di una tavolozza di colori particolari. Si comincia con poliritmie elettroniche alla Radiohead (opera del nostro amico Emanuele Fiordellisi degli UnePassante: tutte suonate a mano, improvvisando su pad, senza alcuna sequenza programmata). Queste sfociano in una canzone senza cantato (la voce recitante è di Lalli, uno dei nostri miti); e da qui, in una lunga jam session notturna (ispirazione: le atmosfere “Drive” di Winding Refn), punteggiata però da una viola “cameristica”. Nel finale, il brano si risolve in una sequenza minimalista che è anche un omaggio allo Steve Reich di “Six Marimbas”.
Se ci pensi bene, non una sola di queste sonorità rientra tra quelle che normalmente vengono associate alla musica psichedelica.
Io non concordo con cui identifica la psichedelia in un pugno di elementi meramente timbrici ed esecutivi, quali storicizzati e “canonizzati” negli anni ‘60 (come gli arpeggi di una Rickembacker, o il fuzz dei 13th Floor Elevator, o il sitar di George Harrison).
La psichedelia dovrebbe essere uno stato della mente. Qualcosa di vivo e palpitante, non un reperto di modernariato in una teca di museo.
La prima parte dell’intervista.