
Intervista al musicista e compositore Luigi Porto
Dopo gli svariati riscontri positivi del nuovo album "Scimmie" parliamo col suo autore, Luigi Porto
Il nome di Luigi Porto, musicista e compositore calabrese, trapiantato negli States, negli ultimi mesi, si è sempre più diffuso sul web, grazie alle svariate recensioni positive del suo primo lavoro solista Scimmie. Noi lo abbiamo conosciuto proprio grazie a questo album e oggi abbiamo il piacere di poter dialogare con lui.
Valerio D’Onofrio: Ciao Luigi, ho avuto il piacere di conoscerti grazie all’ascolto dell’album Scimmie, il tuo primo lavoro solista. Leggendo la tua biografia ho visto che ti occupi di musica, teatro, cinema, hai lavorato nelle colonne sonore di oltre venti film,alcuni dei quali hanno partecipato a storici festival internazionali, Cannes, Venezia, Roma, Locarno, Berlino, Toronto e altri. Puoi descriverci la tua formazione e come è avvenuto il tuo avvicinamento al cinema e al teatro?
Luigi Porto: Innanzitutto ciao e complimenti per il tuo lavoro e la passione che dedichi ad esso, in un mondo dove ognuno è una piccola star il tuo è un entusiasmo che mi ricorda le vecchie “fanzine”. Dunque, da premettere che io lavoro come montatore del suono. Ho dovuto mettere la dicitura “sound designer”, che mi piace sempre meno, perché ormai è questo il termine, erroneo, con cui si identifica chiunque lavori col suono. Ho iniziato a suonare la chitarra (destrimana, di mio padre, ed io sono mancino) e le tastiere da adolescente, quasi sempre da autodidatta, in alcuni gruppi di Cosenza negli anni Novanta. Era una piccola scena che stava nascendo, partiva dai punti di ritrovo, centri sociali, una radio comunitaria, Radio Ciroma. Io sono sempre stato attratto dal versante più sperimentale, immaginifico della musica. Sperimentale nel vero senso della parola, ovvero “vediamo se funziona”. Contemplando la possibilità che spesso non funzioni.
Contemporaneamente facevo il radioamatore (illegale, perché non ho mai preso la licenza). Essendo figlio di due insegnanti di elettronica, a casa mia non mancavano manuali di analogica e digitale. Vivevo parecchio dentro il mondo dei suoni. Credo che il “tuning” della radio sia uno dei suoni che più mi sono familiari al mondo.
Musicalmente il mio primo serio impatto fu il Morricone de La Piovra. La seconda botta furono i Christian Death, e attraverso loro l’Oedipus Rex di Strawinskij. Poi, in seguito, i cantastorie drammatici come Young, Cave e Cohen e ancora avanti Charles Ives. Il teatro era il luogo più naturale per quello che facevo, non fu neanche una decisione conscia, le cose si sono evolute naturalmente in quella direzione, visto che quell’utilizzo “fisico” della musica mi interessava di più del palco con la band che suona (che ancora oggi è una cosa che non mi piace vedere, odio vedere la musica che esce dagli strumenti. Per me la musica è una questione di forme ed elementi astratti, se vedo come è prodotta, mi muore. Per questo quelle poche volte che vado ai concerti guardo altrove).
Per quanto riguarda il suono cinematografico, fu un percorso naturale, un giorno vidi Professione Reporter e decisi che volevo fare quel mestiere. Dopo l’università studiai sound engineering e scienza del suono a livello un po’ più avanzato e mi trasferii a Roma, dove iniziai a lavorare nello studio di Stefano Di Fiore. Fu lì che feci avere un mio demo a Romano Scavolini, di cui avevo amato Un Bianco Vestito per Marialè.
Valerio D’Onofrio: Oltre a questo, prima di intraprendere la carriera solista, hai pubblicato album con diverse band (Maisie, Appleyard College, Mond). Con i Maisie ti sei dedicato al rock più sperimentale, leggo che vari brani erano suonati con chitarra e basso mancanti di una o più corde mentre negli altri progetti hai cercato di cambiare strada. Cosa puoi dirci di quegli anni?
Luigi Porto: Erano gli anni dell’università, avevo uno studietto ricavato in soffitta, come molti nel mio quartiere. Da queste soffitte uscì veramente di tutto. Ci passavamo notti intere (con disappunto dei vicini). Appleyard College fu la mia seconda creatura, dopo ch.emon (nome con cui firmavo musiche per teatro e produssi un paio di demotape che hanno in pochissimi). Era il primo serio tentativo di dilatare la forma canzone e renderla perturbante, inaspettata. Canzoni acustiche venivano fuori da magmi di suono, interferenze. Look At Me uscì per Cold Current Production di Andrea Penso, nel 2006. Il nome apparve ancora in uno split ed un paio di compilation, poi più nulla, perchè per anni smisi di far uscire materiale, dedicandomi solo allo studio. Mond fu invece il nome con cui firmai un solo EP autoprodotto, My My After World, e fu una delle esperienze più profonde a livello musicale. Anche questo ce l’hanno pochi amici, ma i pezzi stanno sul mio vecchio Myspace. myspace.com/mondcanvas. Con i Maisie iniziai nel 2007 con Balera Metropolitana, i dischi a cui ti riferisci sono i primi, io ancora non c’ero. Attualmente stiamo ultimando i missaggi del nuovo Maledette Rockstar. Iniziai a collaborare prima di Balera come turnista/arrangiatore live perchè Cinzia La Fauci chiese a Michele Alessi di trovare un tastierista per la live band. Michele me lo propose, e con lui, sempre in soffitta, arrangiammo l’intero live. In seguito, dopo un paio di tour, entrammo ufficialmente nel gruppo, collaborando a livello autoriale. Attualmente il disco è sotto le mani del produttore Emiliano Ra-B.
Valerio D’Onofrio: Ho anche ascoltato un interessante brano, credo giovanile, di musica elettronica, On Walden. Che rapporto hai con la musica elettronica, quali artisti segui con maggiore interesse?
Luigi Porto: On Walden stava su My My After World, e fu l’unico pezzo da quel disco che eseguii qualche volta dal vivo. Risale, credo, al 2003, ed era realizzato con procedimenti abbastanza spartani (noi dicevamo “agricoli”). E’ basato sulla chitarra registrata su un walkman (procedimento che ho utilizzato spesso, finchè non si è rotto il walkman) e processata al computer quando ancora con i software che giravano dovevi darti parecchio da fare per inventarti qualcosa che non c’era. Della musica elettronica in genere, ho amato e amo la Bristol della fine degli anni Novanta, dove a mio parere si è raggiunto l’apice della produzione musicale pop, una vetta ancora ineguagliata. Lì l’elettronico e l’acustico si fondevano insieme, l’utilizzo dell’elettronica era viscerale, elaborato, veramente funzionale all’atmosfera e all’estetica dei brani. Poi ho ascoltato per anni Brian Eno, la cosiddetta dark-ambient, e gruppi industrial/gothic come i Die Form. Un mio ideale di pezzo elettronico è “Art Decade” di Bowie, che poi è di Eno.
Valerio D’Onofrio: Una cosa che mi colpisce della tua carriera è la scelta di vivere negli Stati Uniti. Immagino che gli stimoli culturali di una città come New York siano irresistibili per un musicista oppure c’è un problema nell’essere musicista nell’Italia di oggi?
Luigi Porto: Sono venuto qui nel 2010, ho iniziato a lavorare con uno studio e come sound designer (stavolta è appropriato) in un’opera contemporanea, e ci sono rimasto, con un visto da artista. Lavoro come montatore del suono e sono resident composer in una music company. Non ho molto da dire su questo, nel senso, la mia vita è girata così, ad un certo punto credo sia il caso di cambiare aria. Non sono né un emigrato né niente, credo che sia solo un momento importante della mia formazione professionale e artistica. Qui mi infiltro di continuo nel mondo della classica contemporanea, imparo molto e cerco di dire la mia in quanto autodidatta impenitente.
Valerio D’Onofrio: Andiamo all’album Scimmie di cui abbiamo già parlato su Psycanprog. Figlio di svariate collaborazioni credo possa definirsi il tuo lavoro più ambizioso (dimmi se sbaglio). Come è nato l’album? Sei soddisfatto del risultato?
Luigi Porto: Abbastanza soddisfatto. Era quello che volevo fare, una sorta di summa teologica di esperienze. E’ un lavoro concepito in tantissimi posti diversi, Puglia, Calabria, Toscana, Piemonte, alcune cose le ho scritte in Francia, altre in Irlanda e Inghilterra dove mi sono trovato qualche volta anni fa per lavoro. E poi qui. Un amico qui mi disse che era “Apocalyptic World Music”. Certo è stato un esperimento: volevo realizzare una sorta di collage fra la scrittura e l’improvvisazione, la musica acustica pura e il trattamento elettronico, un gioco di contrasti molto duri. Ho cercato, soprattutto, di non avere paura. La costante, mentre si fa musica, è la paura, la paura che un gesto possa distruggere tutto. Così ho trovato il coraggio di sovrapporre improvvisazioni completamente estemporanee a partiture scritte meticolosamente, o sporcare queste ultime con sonorità lontane. Anche tonalità lontane: mi piace, e piace anche al regista del film, la sovrapposizione, il cluster, le melodie coperte, impacchettate tra le dissonanze. E’ una cosa che piaceva moltissimo a Charles Ives. Credo che la musica che mi interessa sia sempre, soprattutto, un’esperienza, un mondo aperto in cui camminare, viaggiare, una sorta di campo minato. Non mi interessa la musica narrativa che ti prende per mano e ti porta dove vuole lei, sono insofferente all’autorità di qualsiasi tipo, anche delle note. Non mi interessa neanche, per dirla con Byrne in un recente articolo sul New York Times, che la musica diventi una “spa” per anime in cerca di relax. Non mi interessa nessun elemento rassicurante, per me la musica è perturbante o non è, quello di Freud e dei sogni – se vuoi, quello di Lynch. Deve essere un terremoto, deve scuoterti, come la musica tribale, come gli esorcismi di una funzione gospel ad Harlem (che sono veramente “psichedelia” nel vero senso della parola). Tra apollineo e dionisiaco, il secondo. Se a volte veste gli abiti del primo, meglio ancora.
Dalla prima nota ho saputo che il lavoro sarebbe stato un’opera parallela al film, un qualcosa capace di vivere di vita propria. Una sovrapposizione anche quella. Così pubblicai, d’accordo con Romano, il disco prima dell’uscita del film. La Cineploit fu la prima etichetta interessata al progetto, io la conoscevo per i bellissimi vinili “audiophile” che stampava, e iniziai a lavorare alle registrazioni che mancavano con Alberto La Riccia di Echo Mobile Studio. Soprattutto registrammo gli ospiti, da Mirko Onofrio e Carmen D’Onofrio (che non sono parenti) ai Soul Siigh Gospel Choir, Antonio Fratto, Francesco Caruso, Stefano Amato e il suo quartetto d’archi, Rudi Assuntino, e poi negli USA il percussionista Uka Gameiro, i fiatisti Rupert Frank e Luke Pirozzi, Mr.Dead. Senza di loro il disco non esisterebbe.
Valerio D’Onofrio: Che progetti hai in futuro?
Luigi Porto: Oltre ad aspettare l’uscita di Maledette Rockstar sto scrivendo un’opera da camera per la compagnia con cui lavoro, la NY iBOC. Poi sto lavorando ad un nuovo disco, che è fatto per buona parte di materiale precedente a Scimmie. Preparo nel frattempo una serie di live in Italia e anche qui in USA.
Poi la prossima primavera presenterò la seconda parte dell’ installazione audio/video Quattro Tempi, un lavoro iniziato l’anno scorso in collaborazione col regista Gianluca Colitta. E in futuro, sempre per Cineploit, il secondo volume di Scimmie.
Valerio D’Onofrio: Luigi, ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato. Il nostro sito si occupa in generale di rock sperimentale ma l’attenzione maggiore è rivolta al rock psichedelico, progressivo e alla scena di Canterbury. Voi dirci un album per ogni genere che più ha contribuito alla tua formazione?
Luigi Porto: Del cosiddetto progressive mi piace poco, ma quel poco occupa un posto fondamentale nella mia vita. Scelgo Islands dei King Crimson. Della scena psichedelica “originale” inglese il classico The Piper At The Gates Of Dawn, o anche Surrealistic Pillows, se vuoi qualcosa di newyorkese l’ancora più classico The Velvet Underground & Nico. Canterbury, assolutamente Rock Bottom di Wyatt.