
Intervista allo scrittore e saggista Donato Zoppo
E’ un grande piacere intervistare lo scrittore, saggista Donato Zoppo, ormai da anni punto di riferimento per tanti appassionati di musica rock, con una particolare attenzione al rock progressivo. Donato è autore di svariati testi che potrei tranquillamente definire fondamentali, ricordo in particolare Prog. Una suite lunga mezzo secolo (2011), King Crimson. Islands. Testi commentati, Premiata Forneria Marconi. 1971-2006 35 anni di rock immaginifico o ancora Cotto e suonato. La musica immaginifica in cucina. Ho avuto il piacere di conoscere Donato pochi giorni fa e l’impressione che ho avuto è stata subito quella di trovarmi di fronte uno come me, cioè una persona che non sa vivere senza parlare di musica o senza ascoltare musica. A me basta questo per nutrire profonda stima.
Valerio D’Onofrio: Ciao Donato, comincerei l’intervista con una frase, credo molto interessante, che il musicista Claudio Milano ha scritto proprio in questi giorni su Psycanprog in una monografia sul progressive rock: può essere un genere che a tutto attinge e che tutto rimescola essere a sua volta un “genere”?
Donato Zoppo: Ciao Valerio, grazie per l’opportunità che mi offri. Il mio libro Prog è uscito oramai da quattro anni ma riceve ancora apprezzamenti e letture, la cosa mi soddisfa molto e conferma la bontà dell’opera, dunque grazie ancora.
Il discorso inerente ai generi è particolarmente insidioso, soprattutto per una musica “di frontiera” come il progressive, che trovò la sua fisionomia, la sua personalità e persino una significativa originalità proprio nella connessione tra diversi linguaggi musicali. D’altronde la storia della popular music ci ha insegnato che la purezza non è indicativa dell’esistenza di un genere, a partire dal primo rock ‘n’ roll, che consideriamo genere pur essendo il punto di incontro di country & western, jump blues e rhythm & blues. Il rapporto tra il fenomeno progressive e la collocazione in generi è complesso, fermo restando che la tua domanda ha un senso proprio perchè coglie due elementi: il primo è la capienza del “contenitore prog”, che ha congiunto classica, rock, jazz, acustica ed elettronica, in tempi e con modi diversi; il secondo è la sua rapida (e aggiungerei volontaria) “canonizzazione”, prevedibile visto che siamo comunque nell’ambito della popular music, dunque musica di massa e di consumo.
Sostanzialmente sì, credo che il prog sia un genere, tra l’altro caratterizzato da sottogeneri tematici, cronologici o localistici affini ma distinti (il rock romantico che è diverso dal RIO, il new prog che è diverso dal primissimo prog, la scena di Canterbury a sua volta differente dal prog del Quebec, tanto per fare degli esempi…). Ricordo con piacere un convegno organizzato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, al quale fummo invitati come relatori Riccardo Storti ed io, se non ricordo male nel 2006: si chiamava “(S)definire la musica” ed era incentrato proprio sul rapporto tra definizioni musicali tra creazione artistica ed esigenze di mercato. Anche quella volta emerse con nettezza che la collocazione in generi (e la relativa definizione degli stessi) è un’esigenza proveniente dall’ascoltatore e dal giornalista, raramente da parte del musicista, a meno che questi non sia un emulo, un epigono, che utilizza codici e stili passati. Credo che Steve Howe, Greg Lake e Francis Monkman non abbiano mai pensato, durante i primi anni ’70, di voler creare un genere con tanto di etichetta e definizione, ma lavoravano indipendente alla propria musica, quella di Yes, ELP e Curved Air, tre proposte tra l’altro diversissime. Ma credo invece che Steve Hogarth, Martin Orford e Geoff Mann abbiano voluto esplicitamente “fare prog”, dunque entrare in un genere, con la consapevolezza tanto del recupero di una vecchia forma quanto della voglia di farlo alla luce della propria personalità.
Valerio D’Onofrio: Genere o non genere esistono varie visioni del progressive. Alcuni lo intendono come un’attitudine progressiva, una ricerca e sperimentazione continua, dandone quindi una visione molto estensiva tanto da accomunare tra loro gruppi molto diversi tra loro, altri invece ne danno una visione più ristretta delimitandola a coloro che più chiaramente si rifanno ai gruppi prog classici, dai Genesis, ai King Crimson, ecc. Tu che opinione hai in proposito?
Donato Zoppo: In ogni genere, e credo in ogni ambito artistico, esistono progressisti e conservatori, esistono creativi e “più realisti del re”, ed è così anche nel progressive. E’ più che naturale, direi fisiologico, che al suo interno ci siano sfumature, punti di vista, chiavi di lettura ed esperienze molto diverse. Pensiamo a tre nomi storici, tre gruppi capitali nella definizione del prog: ELP, Soft Machine e Gentle Giant. Sono diversissimi pur appartenendo allo stesso contenitore; Emerson, Ratledge e Minnear sono tastieristi con origini, tecniche, preparazione, orizzonti culturali e artistici piuttosto lontani, ma tutti e tre legati a un’idea forte di non convenzionalità, quella che ha reso il prog un fenomeno ricco e suggestivo all’alba degli anni ’70. I gruppi del new prog, dai Marillion in poi fino ad oggi, non hanno svolto ricerche analoghe, se non migliorando e affinando la propria personalità, lavorando su elementi forti quali ad es. la voce di Fish o il tastierismo di Martin Orford: pur avendo pubblicato opere eccellenti (ad es. Fugazi, The Wake e Fact and Fiction sono innegabilmente ottimi album), hanno ripreso caratteristiche e moduli del passato, proponendo dunque un’adesione al canone, più che un’attitudine progressiva come tu stesso sottolinei. Non dimentichiamo che esistono anche gruppi estranei al genere prog convenzionalmente inteso, che ne usano alcune componenti (penso ai vari Radiohead, Tool, Muse, Mars Volta, Archive) all’interno di una forma compositiva altrettanto eccentrica che, con fare spesso sbrigativo, viene inquadrata come “alternative” (altro termine talmente vago da poter comprendere migliaia di proposte…).
Valerio D’Onofrio: Il tuo libro Prog, Una suite lunga mezzo secolo è assolutamente imperdibile per gli appassionati del genere e non solo. Una splendida idea è quella di trattare l’argomento anno per anno, seguendo una coerente linea temporale che rende bene come il fenomeno sia mutato ed evoluto negli anni. Come mai questa scelta?
Donato Zoppo: Grazie ancora per l’apprezzamento. Beh credo si sia trattato di una scelta obbligata: quando Arcana mi ha proposto di scrivere qualcosa sul prog che illustrasse le caratteristiche del fenomeno, ho pensato che il criterio cronologico era la chiave giusta per essere chiari, esaurienti e rispettosi. Bisogna anche ricordare che tra i numerosi libri in materia, sui saggi di carattere diacronico (che affrontano il prog nel suo sviluppo storico) prevalgono le monografie specifiche che individuano alcuni aspetti, dalla nazionalità (vedi i testi sul prog italiano) alla produzione (i vari libri sui 10, 100, 1000 dischi più rappresentativi). Per esigenze di collana avevo a disposizione degli spazi limitati, ovvero non più di 400 pagine: credo che un genere così complesso, sfaccettato e duraturo come il prog meriti un bel tomo di un paio di volumi… Il mio contributo altro non è che una sorta di manuale introduttivo, che prova a spiegare la nascita del genere accompagnando il lettore nella sua evoluzione dalle origini fino ad oggi.
Valerio D’Onofrio: Che opinioni hai dei generi figli diretti del prog. Il neoprog, il prog-metal, ecc?
Donato Zoppo: Ogni genere nato per gemmazione dal tronco principale ha avuto i suoi fasti e i suoi inesorabili momenti di decadenza. Ad es. ricordo con piacere i primi tempi del prog-metal, quando nei dischi di Fates Warning, Queensryche e Dream Theater si trovavano elementi davvero interessanti (soprattutto nei primi, che ho sempre apprezzato di più). Stessa cosa per il new prog – che però per sua natura è già più derivativo, pur avendo una componente emozionale fortissima – o per il recente manipolo di gruppi “post progressive” della Kscope. Preferisco distinguere disco per disco, artista per artista, e credo sia un elemento costante la freschezza e la vivacità dei primi titoli rispetto ai successivi, penso a due colonne come Flower Kings e Spock’s Beard, piacevoli agli inizi ma poi, come accade fisiologicamente, più stanchi nelle fasi successive. Ad esempio, del new prog una cosa che mi colpiva moltissimo era questa forza emotiva, questo orgoglio misto a una vitalità melodica che, durante la prima metà degli anni ’80, era raro trovare.
Valerio D’Onofrio: Una delle cose che ho apprezzato moltissimo del libro è che sei riuscito a trattare in modo anche approfondito di gruppi prog anche poco conosciuti provenienti dal Giappone, dal Sud America, dal Canada fino ad un capitolo, credo unico, sul prog dei paesi del blocco sovietico. Puoi dirci qualcosa sul prog che stava dall’altra parte del muro?
Donato Zoppo: Il prog ha avuto una singolare peculiarità: ha offerto a tantissime nazioni non anglofone un modello da seguire e da innestare sulla propria identità musicale. Ecco allora Italia, Germania, Francia ma anche paesi extraeuropei, dal Giappone agli USA (un po’ più avanti rispetto al boom europeo della prima metà degli anni ’70). Anche al di là della Cortina di ferro c’è stata una bella scena prog-rock, diversa da paese in paese e legata anche alla maggiore o minore tolleranza dei singoli regimi. Una cosa che mi ha sempre colpito è la presenza di album di area rock-jazz di natura strumentale, evidentemente timorosi dello spettro della censura da parte dei governi nei confronti dei dischi, peraltro pubblicati da etichette di stato. Nomi come Solaris, Modry Efekt, Omega, Fermata, SBB, Stern-Combo Meissen, Progresiv TM non mancano nella discografia di ogni amante prog e in alcuni casi non sfigurano accanto ai classici inglesi.
Valerio D’Onofrio: Sei anche autore del libro, anche questo immancabile, King Crimson. Islands, testi commentati. Immagino che studiando tutti i testi di Fripp e compagni avrai carpito sfumature non facilmente comprensibili. C’è un aspetto che ti colpito più di altri?
Donato Zoppo: Questo libro sui King Crimson mi ha coinvolto molto. Sono sempre stato un amante della musica di Robert Fripp ma non avevo mai approfondito i testi, nel senso che mi ero sempre soffermato sulla natura concettuale dei singoli dischi senza scendere nel dettaglio. Dopo averlo fatto, posso dire che l’universo crimsoniano è tra le cose più affascinanti, seducenti e magnetiche che la storia del rock abbia offerto: per ogni fase del gruppo e per ogni autore di testi (Sinfield, Palmer-James e Belew) si percorrono itinerari differenti, dall’esoterico al letterario, dal mitologico al sarcastico, dai linguaggi della contemporaneità alle riflessioni sull’integrità artistica. Quest’ultimo è l’aspetto che mi ha colpito di più, e non a caso è il tema che soggiace con forza ad ogni manifestazione crimsoniana, anche quelle solo strumentali.
Valerio D’Onofrio: Che confini temporali daresti al genere? E’ possibile secondo te definire un primo album pienamente prog? O magari un album che chiude come un cerchio il movimento?
Donato Zoppo: Il primo album pienamente prog, quello col quale possiamo individuare con sufficiente nettezza un prima e un dopo, è In the Court dei King Crimson. 10 ottobre 1969. Ma in musica nulla nasce dal nulla e anche il prog-rock assorbe una lunga serie di suggestioni tipiche della seconda metà degli anni ’60. Dalla ricerca di “rispettabilità” rock di Bob Dylan al lavoro in studio su nastri, echi e loop dei Beatles, dalla musica “altra” di Frank Zappa & The Mothers alle nuove direzioni elettriche di Miles Davis, dal teatro rock sciamanico dei Doors alle lunghe jam elettriche dei Cream: tutto ciò stimola, suggestiona e galvanizza i musicisti della generazione prog, dai primi, seminali e coraggiosi sperimentatori (penso ai Family e agli East Of Eden, ancor prima Nice e Moody Blues) ai gruppi nati in una seconda fase come Camel e National Health.
Credo che il disco di chiusura del genere, o meglio del periodo d’oro, sia The Lamb dei Genesis: fatti salvi clamorosi exploit dei secondi anni ’70 come Going For The One, Wind & Wuthering, Songs from the Wood e Rain Dances, intorno al 1974 i protagonisti scontavano un notevole calo di ispirazione, avendo smarrito la vitalità e la freschezza degli esordi. The Lamb contribuisce a rafforzare l’idea dell’opera rock e offre un contributo decisivo allo sviluppo del teatro rock, ma è anche l’ultimo album con Peter Gabriel: da un punto di vista simbolico la sua uscita coincide con la fine di un’epoca. Non è un caso che in quel periodo l’industria discografica si stia riposizionando guardando con interesse al revival del rock ‘n’ roll classico (tra 1973 e 1975 c’è il boom di American graffiti e di Happy Days) e all’ascesa di Bruce Springsteen (e con lui di un’idea old style di rock americano).
Valerio D’Onofrio: Che musica ascolti oltre il prog? Immagino un pò di tutto ma quale prediligi?
Donato Zoppo: Per carattere e per mestiere (dal 2007 conduco un programma in radio e mi occupo di tutto il rock esistente) ascolto di tutto, dalla canzone d’autore all’afrobeat, dal soul jazz al post grunge: il prog è una vecchia passione di gioventù che nel corso degli ultimi 15 anni è un po’ scemata in favore di altre musiche, ma grosso modo nelle mie orecchie c’è una pacifica e variopinta convivenza di suoni… Purtroppo non riesco a capire rap e hip hop (a meno che non sia inserito in un contesto più ampio, vedi l’ultimo eccellente disco di D’Angelo & The Vanguard) e l’indie italiano mi irrita più che mai, ma di queste cose se ne può tranquillamente fare a meno…
Valerio D’Onofrio: Chiudo chiedendoti quale secondo te è stato il miglior album in assoluto del 2014 e quale invece riferito solo al genere prog.
Donato Zoppo: Una domanda di riserva? Stilare le classifiche non è il mio forte, spesso mi trovo costretto a farlo nel fornire le mie personali Top 10 di fine anno per Jam o Rockerilla o per gli speciali natalizi che facciamo in radio, ma se potessi ne farei davvero a meno.
Non riesco a farti un solo nome – nè voglio farlo! – poichè il 2014 è stato un buon anno, ho trovato tanti dischi molto validi, ti cito Neneh Cherry, Dr. John, Orlando Julius & The Heliocentrics, David Crosby, Ginger Baker, Leonard Cohen, Tony Allen & Damon Albarn, Joe Bonamassa, Gov’t Mule, Tom Petty & Heartbreakers, Jack White, D’Angelo & Vanguard e infine Sonny Simmons & Moksha Samnyasin. Tra le proposte “extra big” del 2014 ricordo le ottime prove di Sonido Gallo Negro, Fofoulah, Mole, Goat, Flying Lotus e Fire! Orchestra. Tra gli italiani Susanna Parigi, Teho Teardo, Steeplejack, Bud Spencer Blues Explosion, Fabrizio Poggi & Chicken Mambo. E il prog? Devo ammettere che ne ascolto di meno anche perchè non mi entusiasma più come una volta: sarà per questo che al momento ricordo con piacere solo tre nomi, Opeth, Marbin e Ågusa.
Già che ci siamo, tra le cose belle ascoltate da gennaio 2015 ad oggi segnalo ai tuoi lettori Sir Richard Bishop, Sycamore Age, Samba Touré, Sleater-Kinney, Caterina Palazzi, Bob Dylan, Doomraiser, Europe, Angelique Kidjo e Van Morrison. In campo prog mi sta piacendo il secondo dei finlandesi Sammal (l’ho appena recensito positivamente su Rockerilla), mi hanno stupito le cover dei Porcupine Tree in versione big band di Gavin Harrison e persino il nuovo di Steve Hackett, pensavo peggio. Spero che il 2015 ci porti anche un nuovo disco di OM e Iron & Wine. E anche i Wilco, perchè no.
Valerio D’Onofrio: Hai sorprese da riservarci per il futuro?
Donato Zoppo: Certo, per ora posso rivelarti che il 2015 porterà un mio nuovo libro: un’indagine molto interessante su un momento speciale della storia degli Area….