
Intervista ad Agostino Macor, tastierista dei Maschera di Cera
Il progressive è morto: viva il progressive..!!
Il gruppo di musica progressive (o neo-progressive) La Maschera di Cera nasce nel 2001, da un’idea di Fabio Zuffanti, già bassista dei Finisterre, che coinvolge anche Agostino Macor e Marco Cavani, tastierista e batterista di quel gruppo (Marco Cavani sarà, poi, sostituito alla batteria da Maurizio Di Tollo), insieme ad Alessandro Corvaglia e Andrea Monetti conosciuti in precedenza in altre occasioni di lavoro. Il loro primo disco è del 2002, e prendeva il titolo proprio dal nome del gruppo.
Dino Ruggiero: Agostino, sono passati 12 anni da quella prima uscita, a che punto siete?
Agostino Macor: Beh, si può dire che con l’ultimo disco, pensato e registrato nell’anno del nostro decennale, abbiamo in un certo senso “chiuso il cerchio”: siamo partiti nel 2001 scommettendo sul recupero delle atmosfere dark del prog italiano “minore”, siamo passati attraverso dischi più sperimentali ed altri più vicini alla forma canzone, qualche cambiamento in organico ed una continua evoluzione nelle sonorità ci ha riportato a guardare indietro con un definitivo omaggio alla stagione d’oro del RPI ma con i piedi “ben piantati nel 2013”, come ha scritto qualcuno.
DR: Cosa finisce con i Finisterre e cosa comincia con i Maschera di Cera, e soprattutto cosa rimane ancora oggi di quel progetto iniziale? Il mondo nel frattempo è cambiato moltissimo…
Agostino Macor: Sarebbe impreciso definire la Maschera come una “costola” dei Finisterre, nonostante le ovvie parentele e le line-up “intrecciate”. I Finisterre erano –e sono tuttora, nonostante il torpore- una sorta di “laboratorio” in cui confluiscono diverse matrici stilistiche e linguaggi in una tensione avventurosa alla sperimentazione, anche se non necessariamente “sperimentale” nel risultato. Durante il tour messicano dei Finisterre nel 2001 io e Fabio abbiamo percepito (con grande stupore) tra i “progster” d’oltreoceano una vera e propria venerazione nei confronti di quel progressive italiano minore “oscuro” di cui eravamo grandi estimatori, ma di cui mai avremmo immaginato potesse destare interesse recuperarne ed attualizzarne le cifre stilistiche. Così, complice un momento di “riposo” della band, Fabio ha pensato di concretizzare questo folle progetto e poco dopo abbiamo assemblato l’organico MDC per quello che sarebbe stato un disco one-shot, alcuni membri addirittura convocati come session-man. Molte cose sono cambiate da allora: il gruppo è diventato…un vero gruppo e ha inciso dischi anche molto lontani dalle atmosfere degli esordi, moltissimi gruppi storici di quel prog minore si sono riformati, altri gruppi sono nati con intenti simili, i Finisterre hanno inciso un altro disco per poi riperdersi, mentre alcuni nostri side-projects (Rohmer, LaZona) hanno proseguito in altre forme l’attività del “laboratorio”.
E anche il mondo, come hai giustamente osservato, è cambiato moltissimo: pensare agli spostamenti del sopracitato tour con diversi transiti alla frontiera USA (via aria ma anche in furgone da ElPaso!) pochi mesi prima dell’11 settembre, alle successive “esportazioni di democrazia”, allo sviluppo della rete (allora agli albori quantomeno nell’utilizzo), alle dinamiche macroeconomiche e a quanto è cambiato il nostro belpaese….
DR: Sappiamo che ti sei avvicinato molto presto alla musica: raccontaci qualcosa dei tuoi primi passi, degli artisti che ascoltavi e che ti hanno maggiormente ispirato.
Agostino Macor: Ho cominciato abbastanza presto ma neanche troppo: a otto anni ho cominciato a prendere lezioni di pianoforte classico, poi abbandonato al liceo per passare allo studio del jazz. Dei miei primissimi ascolti fatti in casa dai vinili di famiglia mi è rimasto, oltre alla classica tardo romantica o impressionista del novecento, molto buon cantautorato italiano e americano e un po’ di beat italiano, oltre al primo avvicinamento (complice il fratello maggiore) a Yes e Genesis.
DR: Nel 2013 esce il vostro album Le Porte del Domani che, nel tentativo si direbbe riuscito molto bene, di dare un seguito all’album storico delle Orme Felona e Sorona, torna a dare lustro al progressive di marca italiana, anche grazie ai ritrovati più moderni della tecnologia. Ci vuoi raccontare come è nata questa idea e come siete riusciti a svilupparla?
Agostino Macor: L’idea, folle, è stata di Fabio, ma ha trovato terreno fertile nel resto del gruppo, tutti –nessuno escluso- sfegatati fans di F&S che riteniamo, oltre che emblematico ed epocale, essere anche oggettivamente un disco di qualità nettamente superiore non solo al resto della produzione del gruppo in questione ma anche alle produzioni coeve di quegli anni, non solo italiane.
La storia vuole proseguire come nell’originale la presenza di diversi piani di lettura, alcuni più simbolici, ed esserne la credibile conclusione chiamata dalla sospensione del finale originario. L’approccio musicale è stato molto stimolante, abbiamo voluto effettuare richiami armonici e melodici all’interno dell’architettura del disco comunque prettamente originale, allo stesso modo accanto a strumentazione ordinaria più o meno “vintage” abbiamo voluto ricreare atmosfere particolari grazie all’uso di macchine dell’epoca come l’eco a nastro o organi e sintetizzatori analogici, o alle tecniche di microaccordatura degli oscillatori dei sintetizzatori: il tutto accanto a strumenti assolutamente attuali come arpeggiatori o chitarre “non 70s”.
DR: Cosa significa suonare progressive oggi? Cosa avete recuperato nella vostra musica del mondo degli anni ’70?
Agostino Macor: Bisogna fare attenzione a non confondere lo “spirito” del progressive con il suo linguaggio, la sostanza dalla forma: siamo soliti associare il termine all’epoca d’oro e al suo recupero “estetico” ma io personalmente credo che, quando a metà decade si è esaurita la carica propulsiva (svuotando gradualmente di spessore i dischi delle band che solo pochi anni prima erano genuini ed innovativi), lo “spirito” sia sopravvissuto in altre avanguardie e nel corso degli anni ottanta si sia sempre più allontanato dagli stilemi originari fino al paradosso di avere da un lato band “regressive” che recuperavano sonorità e complessità strutturali senza attualizzarne i contenuti, e dall’altro artisti magari distantissimi, anche più easy o mainstream ma profondamente “progressivi”. Sono pochissimi gli esempi di artisti che sono riusciti in quarant’anni a conservare la spinta a ricercare ed esplorare territori realmente nuovi, moltissimi invece quelli che si sono dignitosamente riciclati e reinventati per stare al passo con i tempi, magari in ambito pop, con ottimi risultati non solo in termini di “business”. La maschera di cera è indubbiamente derivativa, ma ritengo abbia nella sua proposta una genuina energia vitale, quasi “punk”, che trascende il mero linguaggio estetico e ne costituisce un tratto di originalità che si aggiunge alla semplicità armonica spesso molto distante dalle articolate architetture tipiche del prog “canonico”; inoltre, al di là della strumentazione vintage ed il consueto armamentario prog, cerchiamo nei nostri dischi sonorità e atmosfere con tratti attuali o comunque fuori dal tempo.
DR: Ti conosciamo anche come ottimo esecutore di musica jazz-rock: come riesci a conciliare queste due tendenze così presenti nel tuo lavoro?
Agostino Macor: I miei progetti musicali rispecchiano i miei gusti personali, non fatico a differenziare il materiale composto per le differenti situazioni. Il side-project Zaal è nato come progetto strumentale “impressionista” e per alcuni tratti si avvicinava a lidi jazz-rock, il secondo album ha visto un totale reimpasto della formazione e una decisa virata verso il jazz elettrico. Il prossimo sarà molto più canterburiano ma vorrei tentare di far convivere queste sonorità con istanze più “world”.
In ogni caso non mi considero affatto un “jazzista”, nonostante sia considerato tale dai più rocchettari: per contro sono considerato dai jazzisti con cui mi capita di suonare un “perfetto rocchettaro”.
Di recente invece ho messo su un trio strumentale molto “trasversale” in cui, grazie a sintetizzatori e loopstation, riusciamo a fare “elettronica senza computer”, e grazie all’effettistica applicata al rhodes, riusciamo a fare “rock senza chitarra”: Il tutto in una miscela curiosa di, synth punk, post-rock, jazz, ambient e funk. Abbiamo appena terminato di registrare il disco di debutto che uscirà a mesi.
DR: Quali sono gli impegni della band per l’immediato futuro?
Agostino Macor: Stiamo terminando la prima tranche di concerti in Italia. Si sta muovendo qualcosa per l’estero ma ancora non si è concretizzata l’ipotesi di una tourneè vera e propria, purtroppo sono saltate alcune date in terra iberica.
DR: Nelle tue esibizioni dal vivo e nei momenti di improvvisazione ci sono molti passaggi “colti” e citazioni raffinate: vuoi parlarci dei tuoi riferimenti artistici, delle tue radici stilistiche di oggi?
Agostino Macor: Il mio stile è un miscuglio di quello ho immagazzinato con i miei ascolti o carpendolo dai musicisti con cui ho suonato, quindi è un maremagnum in cui convive “alto” e “basso”, con prevalenza –forse- del secondo. Sono diventato decisamente onnivoro in termini musicali, posso spaziare dalle avanguardie del novecento al synth-pop da classifica, evitando forse gli estremismi di entrambi i “poli”. I miei riferimenti assoluti rimangono comunque, in ordine cronologico: gli impressionisti del primo novecento, il bebop, i Beatles, le contaminazioni di Davis (fino al 75), le visioni di Hancock sperimentatore periodo warner, il canterbury, i Pink Floyd, Battiato, i King Crimson, la new wave, gli Air, il post-rock, certo nu-jazz illuminato (Truffaz) e i pochi esempi di svecchiamento del jazz su etichette come Act o Jazzland.
DR: Il momento è difficile per i giovani del nostro Paese: cosa ti senti dire per dare loro un po’ di fiducia e coraggio?
Agostino Macor: Beh non è facile così su due piedi, bisogna tener duro… credo che questo momento sia ancora più faticoso perché commisurato al passato prossimo in cui il benessere era eccessivo e ci si è abituati a vivere avendo tutto. In particolare sarò retorico ma i più giovani sono cresciuti con molte, troppe possibilità e “cose” non essenziali, per cui il salto verso questa fase di incertezza di prospettive è stato più lungo e doloroso. Credo che riscoprire l’essenziale e le priorità reali, distinguere il valore dal costo delle cose, (ri)scoprire la solidarietà ed il servizio possano migliorare le cose e la percezione delle cose. Questa ovviamente è la mia personalissima opinione, io non sono nessuno ed ho la fortuna di poter seppur faticosamente contribuire a mantenere la mia famiglia.