
Intervista a Vittorio Nistri, prima parte
Vittorio Nistri, un protagonista di primissimo piano della musica sperimentale italiana, mente e creatore dei Deadburger Factory
E’ un enorme piacere poter intervistare Vittorio Nistri, mente e ideatore di una delle più grandi rivelazioni del 2013, i Deadburger Factory. Nel nostro piccolo abbiamo eletto il loro lavoro, La Fisica delle Nuvole, miglior album dell’anno, ma sono state tantissime le recensioni estremamente positive. Questa non è una vera e propria intervista, è un lungo dialogo (verrà diviso in tre parti) in cui Vittorio si mette a nudo e si mostra per quello che è, una persona e un musicista colto, curioso, disponibile, innovativo, grande sperimentatore, grandissimo conoscitore della musica e della storia della musica, un’artista che ama in modo viscerale il suo “lavoro”. Un’artista nel senso più autentico del termine, che sperimenta, ricerca, innova, senza alcun interesse per eventuali riscontri commerciali. Vittorio Nistri approfondisce tantissimi argomenti, partendo dagli anni degli esordi sino ai progetti futuri, dandoci di volta in volta piccole perle che, a chi leggerà con attenzione, non potranno che restare impresse nella mente. Un dialogo che è anche una lezione, perchè Vittorio Nistri non è un semplice musicista, ma un vero e proprio maestro, non solo di musica.
Valerio D’Onofrio: Ciao Vittorio, piacere di conoscerti, il progetto Deadburger appare subito un progetto estremamente ambizioso. Un triplo CD con un carattere molto innovativo che intreccia rock, avanguardia e teatro. Puoi dirci da dove parte questo progetto e dove vuole arrivare?
Vittorio Nistri: Piacere mio, Valerio! Il progetto Deadburger nasce da lontano (il primo concerto della band risale al dicembre 1995), e in tutti questi anni è rimasto coerente all’idea iniziale: unire rock e sperimentazione.
Certo, le modalità con le quali cerchiamo oggi di realizzare questo connubio sono differenti da quelle dei nostri esordi. Non c’è mai stato un lavoro discografico dei Deadburger uguale ad un altro… ma questa è la logica conseguenza dell’idea iniziale. Sperimentare significa essere disposti a rimettersi ogni volta in discussione. Rinunciare alle certezze acquisite per abbracciare una condizione di work in progress permanente.
Disco dopo disco, abbiamo cercato di spostare sempre un po’ più in là i paletti della nostra musica. “La Fisica Delle Nuvole” è il lavoro più impegnativo che abbiamo mai affrontato. In passato non saremmo stati in grado di gestire un’avventura del genere.
Se oggi abbiamo potuto tirare le fila di un progetto “multiverso” come questo, lo dobbiamo all’esperienza e all’abbattimento di steccati mentali, che ci derivano da migliaia di ore spese sui nostri strumenti o sulla schermata di un computer. Alternando session in studio e concerti, partiture e improvvisazioni, collaborazioni (con altri strumentisti, ma anche con compagnie teatrali e scrittori) e progetti individuali e collettivi. Facendo tesoro anche degli errori commessi. Siamo musicisti limitati, ma – proprio perché ne siamo consapevoli – non abbiamo mai smesso di cercare di imparare.
A cosa mira un progetto come “La Fisica Delle Nuvole”? Beh… gli “obiettivi” sono molteplici. Ne menziono tre (ma sarebbero parecchi di più):
La riproposizione della centralità del contenuto rispetto al contenitore: i tre album del cofanetto usano tre linguaggi sonori diversi, ma esprimono un medesimo nucleo di sentimenti, emozioni, pensieri. Almeno nell’arte, il medium NON è il messaggio. (Senza contare che l’assioma di McLuhan mi ha nauseato anche al di fuori della musica. Trovo avvilente, per esempio, che il valore di una proposta politica venga da tante persone individuato nelle modalità di comunicazione, piuttosto che nelle scelte programmatiche).
Il rifiuto di quella artificiosa accelerazione dei nostri ritmi di consumo che si sta radicando anche in campi – come l’arte – che pure non dovrebbero essere ridotti a mero “consumo”.
La scelta di una metodologia di composizione verticale, che rinuncia al succedersi orizzontale di sequenze armoniche diversificate, per lasciare che lo sviluppo di un brano venga determinato da un fluire di variazioni e “illuminazioni” su un singolo seme sonoro di partenza.
Queste sono alcune delle direzioni di ricerca già percepibili all’ascolto de “la Fisica Delle Nuvole”. Ci sono inoltre alcuni aspetti di ricerca che per il momento non sono evidenti, ma lo diventeranno all’uscita del nostro prossimo album.
Perché “La Fisica Delle Nuvole”, pur essendo fruibile come progetto compiuto e autonomo, in realtà è stata concepita come la prima parte di un dittico.
La musica della seconda parte, a cui stiamo già lavorando (ma non abbiamo assolutamente idea di quanto tempo impiegheremo a realizzarla!), sarà speculare – nel senso di “uguale e contraria” – rispetto a quella del box. Non a caso, in chiusura del booklet de “la Fisica Delle Nuvole”, c’è un disegno di Bacilieri che raffigura Alice con la testa affondata dentro uno specchio. Quando si vedrà l’altro lato del nostro specchio, il progetto sarà chiaro nella sua interezza.
Valerio D’Onofrio: la cosa che colpisce di La fisica delle nuvole è la sua grandezza. Si tratta di un triplo CD che sicuramente avrà richiesto uno sforzo enorme da parte vostra. Quanto tempo c’è voluto per portarlo a termine?
Vittorio Nistri: Abbiamo iniziato a lavorarci a fine 2008, circa un anno dopo l’uscita dell’album precedente, “C’è Ancora Vita Su Marte”.
Avevamo appena terminato una serie di performances teatrali dal titolo “Post Atomic Café”, nelle quali per la prima volta avevamo proposto la nostra musica in versione acustica, o quasi (un buon 90% dei suoni era realizzato con strumenti quali viola, chitarra acustica, batteria suonata con le spazzole, ecc). La cosa era nata per caso, con un ingaggio da parte del Teatro Lux di Pisa, che ci aveva proposto di sviluppare in senso affabulatorio le storie raccontate da alcuni brani del nostro songbook.
Il Teatro Lux non è insonorizzato, e si trova in un contesto densamente popolato – il che lo rende più adatto a un concerto di musica da camera che non di rock/noise/electro. Ci trovammo dunque nella necessità di dover reinventare il nostro suono, rinunciando, per l’occasione, alle sonorità elettriche ed elettroniche di impatto frontale caratteristiche dei nostri concerti.
Per noi fu l’opportunità per una nuova e diversa sperimentazione. La scommessa era quella di calarsi in un contesto sonoro acustico senza cadere negli stereotipi del gruppo-rock-che-rilegge-le-sue-canzoni-in-versione-unplugged.
La cosa funzionò, tanto che lo spettacolo fu replicato in altre città. E innescò in noi una serie di riflessioni. La prima delle quali nacque dalla constatazione che eravamo riusciti a rimanere coerenti al nostro DNA musicale anche utilizzando sonorità profondamente diverse da quelle che noi stessi (sbagliando) tendevamo ad associare automaticamente ai Deadburger.
Oggi si tende ad identificare qualunque proposta musicale con un determinato sound. Siamo in un momento storico che privilegia la velocità della comunicazione al suo grado di approfondimento, e questo, in ambito musicale, porta spesso a promuovere proposte unidirezionali, che si prestino a venire sintetizzate in una singola frase descrittiva, o in un singolo brano postato su YouTube. Ma è un approccio riduttivo: non è detto che si possa ridurre ogni proposta ad una unica combinazione timbrica, o una unica tecnica esecutiva. La musica può avere tante sfaccettature quante ne ha la vita, o l’animo di una persona.
In versione “chitarra acustica e viola”, invece che in versione “chitarre distorte e elettronica”, i Deadburger erano rimasti sé stessi. Il che ci portò a pensare ad altre colonne sonore teatrali che, come band o come singoli musicisti, avevamo scritto in passato, e che si erano avventurate in contesti sonori ancora differenti: dalle partiture per archi ed elettronica a quelle per sola chitarra o solo forno a microonde.
I suoni potevano cambiare, ma il DNA della nostra musica rimaneva lo stesso.
Da qui venne l’idea di presentare, all’interno di un box, tutti questi esperimenti, sotto forma di tre album indipendenti, ciascuno col proprio sound, eppure connessi tra di loro come facce di un unico poliedro.
Ci rendemmo subito conto che sarebbe stato un lavoro particolarmente complesso, perché non volevamo fare una raccolta di materiale d’archivio: avremmo preso le composizioni originariamente scritte per gli spettacoli teatrali quali semplici spunti di partenza, per poi espanderle, svilupparle, registrandole ex novo, e cogliendo l’occasione per nuove sperimentazioni.
Era chiaro che la cosa ci avrebbe impegnati a lungo (tanto più che da idea nasce idea, per cui il disco uno-e-trino divenne presto, nella nostra testa, parte di un progetto ancora più ampio. il dittico cui accennavo prima). Nessun problema: il mondo gira benissimo anche in assenza dei Deadburger. Decidemmo, semplicemente, che ci saremmo presi tutto il tempo che sarebbe risultato necessario.
Oggi, a consuntivo, posso dirti che, per registrare i tre album del box, abbiamo impiegato complessivamente tre anni. Un altro anno è stato necessario per mixaggi, mastering, e preparazione di copertine e booklet.
Nel gennaio 2014 abbiamo finalmente dichiarato conclusi i lavori e presentato i master alle nostre etichette, Goodfellas e Snowdonia. Il box è uscito a settembre, stanti i tempi tecnici necessari per stampa e pianificazione.
Io personalmente ho speso su questo box una media di quindici ore alla settimana (gran parte delle quali rubata al sonno) per oltre quattro anni. In tutto, stimerei 3.000 / 3.500 ore.
Non esiste una spiegazione razionale del perché uno si imbarchi in un progetto del genere, che oltre a tutto, dal punto di vista commerciale, è un suicidio. Certe scelte le fai non per un ragionamento logico, ma perché senti che per te è giusto fare così.
Non saprei dirti se la musica è un virus come il linguaggio lo era per Burroughs – ma una malattia, si. Dalla quale mi auguro di non guarire!
Valerio D’Onofrio: Ascoltando la fisica delle nuvole si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un compendio di tantissima musica dell’ultimo, direi addirittura secolo. Quali sono le vostre influenze?
Vittorio Nistri: Le influenze dei Deadburger sono così numerose che nemmeno noi saremmo in grado di elencarle tutte! E non vengono solo dalla musica, ma da tutto ciò che ci appassiona (politica, cinema, letteratura, arti figurative, ecc). E anche, e soprattutto, da quello che capita nelle nostre esistenze personali – lavoro, amori, amicizie, incazzature, gioie, problemi…
La tua domanda però è specificamente incentrata all’ambito musicale, e a quello cercherò di attenermi nella risposta.
Alcune nostre influenze credo siano abbastanza facili da individuare; altre forse un po’ meno.
Una delle costanti in tutti i lavori dei Deadburger è l’uso dell’elettronica in abbinamento a strumenti “suonati e sudati”. In questo, siamo certamente debitori a una molteplicità di artisti che hanno, in vario modo, unito elettronica e rock: Brian Eno, Radiohead (da “Kid A” in poi), Silver Apples, Beaver & Krause, Pere Ubu, Can, Faust, il Battiato delle “Corde di Aries”, la trilogia berlinese di Bowie, Nine Inch Nail (fino a “Fragile”), Primal Scream, Mum, These New Puritans, Battles, Liars, ecc.
Per quanto riguarda le concezioni ritmiche: gli odierni Deadburger hanno una predilezione per i groove ipnotici, trance-oriented, apparentemente lineari ma in realtà soggetti a continue microvariazioni. Inevitabile qua l’influenza del kraut rock originario (Can e Neu in primis), e da chi oggi ne ha attualizzato la lezione (Oneida). Non ne facciamo un punto irrinunciabile (quando la canzone lo richiede, usiamo altri tipi di groove: math, industrial, ecc), ma questa è la ritmica che oggi sentiamo più nostra. Per il futuro… mi ha molto colpito l’unione di tocco jazz e ritmiche kraut dei gruppi di Mat Gustafsson (The Cherry Thing, Fire!, Fire Orchestra); mi piacerebbe se i Deadburger si muovessero in questa direzione, sebbene nessuno di noi abbia una estrazione jazz.
Per quanto concerne “l’attitudine”, i Deadburger amano molto gli esponenti della magnifica stagione del Rock In Opposition (Henry Cow e Area su tutti). Hanno mostrato che la fantasia nel fare musica non significa necessariamente evasione in mondi immaginari. Può benissimo coniugarsi a uno sguardo attento e critico sulla realtà che ci circonda e a prese di posizione precise sulla stessa.
Per il desiderio di fare una sperimentazione che non si traduca mai in giochi intellettuali fini a sé stessi, ma che sia sempre al servizio delle emozioni e dei sentimenti… beh, qui l’esempio massimo (e totalmente irraggiungibile: possiamo solo inchinarci di fronte alla bellezza della sua musica) è Robert Wyatt.
Il gusto per gli arrangiamenti che si aprono a colori “altri”, innestando su una strumentazione rock improvvise pennellate di altre timbriche (clarinetto, viola, flauto, tromba, theremin ecc), trova referenti disparati, dai Gastr Del Sol a John Zorn. Io poi ho una particolare devozione per George Martin!
Qua mi fermo, conscio di non aver menzionato molti altri musicisti assai cari ai Deadburger (come quelli delle aree impro, classica contemporanea, minimalista, psichedelica).
Mi limito ad aggiungere che i Deadburger traggono stimoli da mille cose diverse, ma non si sono mai prefissi di cercare di suonare come questo o quell’artista.
Non mi pare che la nostra musica “assomigli” specificamente, che so, a quella dei Radiohead, o dei Can, o degli altri artisti che ho menzionato prima.
Le influenze esterne (e questo vale non solo per quelle musicali, ma anche per quelle letterarie e di qualunque altro tipo) trovano spazio nella nostra musica nella misura in cui presentino sintonie con quello che sentiamo dentro di noi, e che cerchiamo di esprimere con i Deadburger.
Un po’ come un cuoco, che prende gli ingredienti che reputa appropriati al progetto che ha in mente, e li usa per elaborare una propria ricetta, che rispecchi il suo gusto, la sua sensibilità.
E’ proprio per una questione di maggiore o minore sintonia con il nostro “inner side” che non tutti i musicisti che amiamo vengono a far parte delle nostre influenze.
Per fare un esempio concreto: io adoro i Rolling Stones, ma non troverai mai traccia della loro musica in quella dei Deadburger. Solo chi ha alle spalle il vissuto e la storia di un Keith Richards può prendere tre semplicissimi accordi maggiori, e tirarne fuori la quintessenza del r’n’r. Nessuno di noi Deadburger ha una vita alla Keith Richards (e io meno di tutti: devo confessare, anche se per un musicista è davvero poco cool, di non prendere droghe, non fumare e di essere innamorato della stessa donna da tutta la vita). Magari abbiamo percorso qualche migliaio di volte l’autostrada A1… ma temo che non sia la stessa cosa degli on the road nell’ovest americano di “Honky Tonk Woman”! E dunque, una band come gli Stones non potrebbe mai costituire un’influenza per i Deadburger: sarebbe come indossare un travestimento.
Non abbiamo mai portato maschere, neppure metaforiche. Nel bene e nel male, quello che suoniamo rispecchia quello che siamo nella nostra vita di tutti i giorni.
Valerio D’Onofrio: In tutte le recensioni del vostro disco presenti su Internet venite catalogati come avanguardia. Che rapporto hai tu con i maestri dell’avanguardia?
Vittorio Nistri: Per quanto mi riguarda, io ascolto da sempre sia musica “di genere” (rock, songwriters, jazz) sia musica “di ricerca”.
Se mi venisse chiesto quale dei due mondi preferisco, non riuscirei a rispondere. Sarebbe come dover decidere se per il mio palato è meglio un piatto di pasta fatto come Dio comanda o una ciotola di ciliegie appena colte! Sono sapori diversi, ma entrambi mi danno piacere… e sono felice di non doverne scegliere uno solo, ma di potermi gustare, a seconda dei momenti e delle occasioni, sia l’uno che l’altro.
Tra i miei ascolti di “classica contemporanea” ci sono artisti come Iannis Xenakis, John Cage, Luigi Nono, Gyorgi Ligeti, Krzysztof Penderecki, Henryk Gorecki (non a caso nei Deadburger ho spesso usato campionamenti tratti dalle loro opere). Ma la mia predilezione particolare va alla scuola minimalista americana (Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich), alla spiritualità di Olivier Messiaen, e a due grandi outsiders come Moondog e Harry Partch. E poi, andando indietro di qualche decennio, Erik Satie: mi limito a dire che occupa nel mio cuore un posto prossimo a quello di Robert Wyatt.
Oltre alla “contemporanea”, i miei interessi personali abbracciano anche altre aree che di solito vengono fatte rientrare nella musica “di ricerca”. In particolare: il mondo avant/impro e l’elettronica di ricerca.
Il fatto che l’ultimo lavoro dei Deadburger sia stato spesso catalogato come “avanguardia” costituisce un onore per me e per i miei compagni di gruppo, ma ci fa anche arrossire, perché siamo consapevoli della distanza siderale che corre tra i maestri dell’avanguardia e noi!
I Deadburger sono nati come una band “rock” (anche per il nostro background: nessuno di noi viene dal Conservatorio), e credo che tuttora sia questa la definizione che ci calza di più. Solo che, fin dagli inizi, abbiamo cercato di muoverci, all’interno del “genere” rock, in piena libertà, assecondando la nostra indole e la nostra curiosità, senza sentirci legati a quei topoi (tanto di stilemi musicali quanto di “immaginario”) che il più delle volte vengono associati alla musica rock.
Potrei dire che cerchiamo di fare musica “di genere” con lo spirito della musica “di ricerca”. Ed è con questo spirito che i Deadburger attingono a inputs e/o metodologie delle “avanguardie”, inoculandoli in un corpo che sostanzialmente rimane “rock”.
Nei nostri primi lavori, queste iniezioni di “altri mondi” erano più sparute e timide. Poi, di pari passo con il nostro percorso di musicisti, hanno assunto un peso via via crescente, fino a diventare particolarmente evidenti ne “la Fisica Delle Nuvole”.
Comunque, già nel nostro album di esordio, che pure era molto più “lineare” rispetto alla nostra produzione attuale, c’era un brano – “Deadburger # 2”, posto in chiusura del disco – in qualche modo debitore alla “contemporary classical”. Si trattava infatti di un esperimento di musica aleatoria alla John Cage, dove però l’aleatorietà non risiedeva, come in Cage, nella partitura o nell’esecuzione, bensì nel mixing. Il brano consisteva in 11 tracce di chitarra elettrica, ognuna delle quali reiterava, con continue variazioni di intensità e “tocco”, una singola cellula di 1 o 2 battute. La composizione prevedeva che il mixatore sovrapponesse le varie cellule in modo casuale, “improvvisando” fade-in e fade-out con i cursori del volume. Ogni diversa sovrapposizione conduce a melodie e armonizzazioni differenti, per cui questa composizione non potrà mai avere una versione “definitiva”: ogni mix dà origine ad una versione diversa.
La prima parte dell’intervista.