
Intervista a Francesco Nunziata, autore del libro “Captain Mask Replica”
Francesco Nunziata è uno dei redattori di Ondarock che nel 2017 esordisce con la sua prima fatica letteraria, una lunga e completa biografia su uno dei musicisti più importanti e originali del secolo scorso, Captain Beefheart. Abbiamo discusso con lui del suo libro in questa intervista.

Captain Mask Replica di Francesco Nunziata
Valerio D’Onofrio: Ciao Francesco ho finalmente avuto la possibilità di reperire il tuo libro “Captain Mask Replica” e certamente l’impressione iniziale è quella di un lavoro di grande complessità e precisione, più una biografia a 360 gradi sulla vita di un’artista che una semplice analisi delle sue opere musicali. Sei uno dei redattori della primissima ora di Ondarock, dove hai firmato tantissime monografie oltre a una serie lunghissima di recensioni, dove hai sempre mostrato una spiccata personalità e un’affinità particolare verso scene nascoste, a volte estreme, molto spesso trascurate se non addirittura ignorate persino dalle riviste di settore.
Questo volume è invece il tuo esordio da saggista; quando e perché hai deciso questo passo in avanti?
Francesco Nunziata: Avendo scritto, per Ondarock, articoli dedicati ad alcune band profondamente influenzate dalla musica di Captain Beefheart (Pop Group, Butthole Surfers, Residents, Pere Ubu, Half Japanese, King Snake Roost, Royal Trux, etc.), a un certo punto iniziai a raccogliere materiale per un articolo da dedicare proprio al grande musicista californiano. Buttando giù i primi appunti, però, mi resi conto che continuavo, senza sosta, ad aggiungere notizie sulla sua vita e la sua musica, cosa che mi fece comprendere che potevo tranquillamente tirarne fuori un libro. Che è, poi, quello che ho effettivamente fatto, in questo supportato senza limitazioni dalla Arcana e stimolato anche da alcuni lettori di Ondarock, che continuavano a chiedermi perché non avessi ancora omaggiato Captain Beefheart con un articolo monografico.

Captain Beefheart
Valerio D’Onofrio: La musica di Don Vliet non è certamente la più semplice su cui scrivere in modo divulgativo; cosa ti ha spinto a scegliere proprio lui come protagonista del tuo primo libro?
Francesco Nunziata: Captain Beefheart è uno dei musicisti che maggiormente hanno influenzato la mia percezione della musica rock e non solo. È vero, non è facile parlare della sua musica, ma a me è sempre interessato dare innanzitutto spazio alle realtà musicali più nascoste. Pur non essendo proprio uno sconosciuto, in Italia a Captain Beefheart, fatta eccezione per un piccolo volumetto monografico uscito nel 1996 e firmato da Luca Ferrari, non era ancora stata dedicata una biografia, né tantomeno uno studio sistematico relativo alla sua musica, ai suoi testi e alla sua pittura. A conti fatti, ho scritto il libro che mi sarebbe piaciuto leggere, quello che non ho mai trovato nelle librerie…

Captain Beefheart and his magic Band
Valerio D’Onofrio: Una cosa che voglio chiederti è un quesito che mi sono sempre posto ascoltando album come “Trout Mask Replica” (1969). Ascoltandolo sembra un lavoro venuto fuori da un altro mondo, con quasi nessun legame con la sua contemporaneità. E’ davvero così o invece è possibile legare l’esperienza di Don Vliet a tutti gli avvenimenti storici e musicali dei suoi anni, dai movimenti giovanili alla psichedelia fino alle recenti evoluzioni jazz?
Francesco Nunziata: Trout Mask Replica è figlio del suo tempo, ma la sua alchimia lirico-musicale lo rende, al contempo, un disco che si oppone all’essenza del suo tempo, finendo per acquisire un carattere atemporale. È difficile, se non impossibile, comprendere appieno la sua grandezza se non se ne scandaglia a dovere la densa stratificazione musicale e letteraria. Trout Mask Replica si nutre del blues del Delta del Mississippi (Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Son House, Robert Johnson, etc.), del free-jazz (Ornette Coleman, Albert Ayler, Eric Dolphy, Yusef Lateef, etc.), dell’avanguardia di John Cage e Steve Reich, della psichedelia più oltranzista, oltre che della tradizione dei «field-holler» e dei canti marinareschi. Dal punto di vista delle liriche, invece, si evidenziano legami con il dadaismo, il surrealismo, la poesia della «Beat generation», l’esperienza, in bilico tra musica e poesia, della «jazz poetry» e, in generale, con ampi tratti dell’immaginario americano. Il risultato finale, però, vale molto più della semplice somma delle diverse influenze.
Quando si ritirarono a Woodland Hills, in quella che, poi, sarebbe passata alla storia come la «Trout house», Beefheart e i suoi musicisti si estraniarono ancora di più da quella che era la controcultura del tempo, creandone, a conti fatti, una alternativa e privatissima, che raccolse la sfida di una rigenerazione spirituale radicata in una musica veramente rivoluzionaria, in cui non fosse alterata la sola sintassi del rock, ma anche il processo di ideazione, scrittura e arrangiamento dei brani, come ho mostrato nei due lunghi capitoli del mio libro dedicati a Trout Mask Replica. Quando quel mitico doppio uscì, nel giugno del 1969, la controcultura si stava rovinosamente avviando verso il proprio tramonto, lasciando emergere le prime avvisaglie di quel ritorno al privato che avrebbe caratterizzato gli anni Settanta. Tuttavia, Beefheart mostrò che quel ritorno al privato non doveva necessariamente tradursi in forme di vuoto edonismo. C’erano, infatti, anche altre strade. Una di queste, come suggerisce il testo di “Frownland”, l’incredibile brano d’apertura di Trout Mask Replica, conduceva verso la sorgente ultima dell’Io, lì dove l’uomo può comprendere che il proprio “spirito” è fatto di “oceano”, “cielo”, “sole”, “luna” e di tutto quello che i suoi occhi possono vedere. Insomma, lontano dalle dolorose contraddizioni della “frownland” (che la controcultura aveva tutt’altro che risolto), l’uomo può scoprire di essere profondamente connesso alla Totalità.
My spirit’s made up of the ocean
And the sky and the sun and the moon
And all my eyes can see

Frank Zappa e Don Vliet
Valerio D’Onofrio: Un elemento importante della vita di Don Vliet è il suo legame con Frank Zappa, aspetto su cui hai scritto molto. Come riassumeresti il loro rapporto di amore/odio?
Francesco Nunziata: Don e Frank si conobbero da ragazzi, a Lancaster, la cittadina californiana in cui le rispettive famiglie si erano trasferite per motivi di lavoro. In quel posto, c’era ben poco da fare. Così, i due amici iniziarono a trascorrere molto tempo insieme, ascoltando i dischi dei grandi bluesmen e andandosene in giro sulla Oldsmobile azzurra di Don. Frank voleva diventare un compositore a tutti gli effetti, un desiderio che aveva maturato subito dopo aver ascoltato la musica di Edgar Varése. Don, invece, iniziò a cantare il blues durante le festicciole per ragazzi che allietavano, di tanto in tanto, le calde serate di Lancaster. Mostrò subito di possedere un’estensione vocale notevole e, ovviamente, l’attento Frank prese nota, tanto da coinvolgerlo, nel 1959, nella registrazione di “Lost In A Whirlpool”, un blues basato su una storia grottesca. Frank è sempre stato più scientifico nel suo approccio alla musica: componeva i suoi brani come un vero compositore e non lasciava molto raggio d’azione ai suoi musicisti. Don, invece, non aveva conoscenze di notazione musicale: per lui, spirito pittorico, i musicisti della Magic Band non erano altro che l’incarnazione di pennelli, colori e tela, strumenti che egli poteva manipolare a suo piacimento per “dipingere” la sua musica (quella che sentiva nella sua testa…) su di una “tela d’aria”… Se Frank, quindi, era, musicalmente parlando, un razionalista (anche se la sua musica è, spesso e volentieri, contraddistinta da una profonda vena parodica e da un piglio irriverente), Don era un istintivo, un naïf che considerava la musica come una “pittura in movimento”.
I rapporti tra i due furono spesso tormentati, anche perché il primo non aveva esattamente un carattere facile e temeva che il secondo potesse, in un modo o nell’altro, non dargli il giusto valore. Frank, comunque, non solo gli diede piena libertà creativa all’epoca di Trout Mask Replica, ma gli offrì anche l’opportunità di una rinascita artistica quando, dopo il “tragico” 1974 (anno in cui Don aveva toccato il fondo registrando i suoi due peggiori album: Unconditionally Guaranteed e Bluejeans & Moonbeams) lo fece entrare nella sua band per il tour da cui, poi, sarebbe stato ricavato l’album Bongo Fury (1975). Don e Frank, in definitiva, rappresentavano due modi diversi e opposti di approcciare la materia “rock”. Anche per questo, il loro fu sempre un rapporto di amore e odio.
Valerio D’Onofrio: “Trout Mask Replica” è ritenuto il suo lavoro più rappresentativo ma ovviamente la sua carriera va molto oltre. Citare un brano piuttosto che un altro non è facile, ma vorrei sceglierne uno, la grottesca Dachau Blues, un blues da campo di concentramento che, non solo affronta temi estremamente difficili, ma per di più lo fa in modo assolutamente non convenzionale. Puoi dirci qualcosa su “Trout Mask Replica” e in particolare su questo brano?
Francesco Nunziata: Trout Mask Replica è un disco rivoluzionario che assomiglia, ancora oggi, a un vero e proprio ufo. Se lo si ascolta distrattamente (e sono ancora in troppi a farlo!), sembra un disco per lo più improvvisato, in cui i musicisti suonano senza una direzione precisa. In realtà, è quanto di più strutturato ci possa essere! Come disse nel 1974 Fred Frith (all’epoca chitarrista degli Henry Cow, altra band che subì il fascino della musica beefheartiana): «È sempre allarmante ascoltare delle persone che suonano insieme senza seguire alcun pattern ritmico riconoscibile. Questa non è free music; è del tutto controllata, il che è uno dei motivi che la rende così notevole. Le forze che solitamente emergono durante l’improvvisazione sono imbrigliate e rese costanti, ripetibili». Trout Mask Replica non solo scardina la sintassi del rock, ma ne costruisce una nuova di zecca, come ho cercato di mostrare in “Captain Mask Replica”.
Quanto a “Dachau Blues”, uno dei brani più celebri del disco, esso mostra non solo la grandezza di una musica assolutamente senza precedenti, capace di anticipare tante cose (qui, per dire, c’è già tanta no-wave!), ma anche lo spirito anti-tecnico con cui Beefheart suonava gli strumenti a fiato (nel caso specifico, il clarinetto basso). A Beefheart non interessavano tanto le note, quanto, secondo un insegnamento di Albert Ayler, i sentimenti, il loro libero fluire attraverso l’ancia… Per la cronaca, “Dachau Blues” fu il primo brano a essere registrato alla «Trout house».
Valerio D’Onofrio: Interessante la scelta di inserire ogni aspetto della vita artistica di Don Vliet, non solo musicale. Hai avuto difficoltà nel reperire notizie sulle sue attività di pittore?
Francesco Nunziata: Beefheart si considerava innanzitutto un pittore. Le sue più grandi passioni erano Vincent Van Gogh e la pittura dell’Espressionismo astratto (Franz Kline, Jackson Pollock, Willem de Kooning). Credo che il contatto con i suoi dipinti (alcuni veramente eccezionali) possa aiutare a trovare un sentiero dentro la fitta boscaglia della sua musica. Perciò, ho pensato che dedicare un intero capitolo all’analisi della sua pittura potesse essere un buon modo per spingere gli appassionati di musica ad interessarsi anche all’altro versante della sua attività artistica . Per scriverlo, ho dovuto leggere tutte le interviste e gli articoli reperibili in giro, oltre che, naturalmente, prendere visione dei suoi dipinti.
Valerio D’Onofrio: Concludendo, pensi che Don Vliet rischi di essere dimenticato o ti sembra ci sia un nuovo interesse? Cosa diresti a un giovane che non sa nulla di lui, perché dovrebbe iniziare a interessarsi a un musicista tanto originale?
Francesco Nunziata: L’influenza della sua musica si avverte ancora in tanti dischi dei nostri giorni. Di certo, però, come tanti outsider della storia del rock, Captain Beefheart continua a restare e in bilico tra l’oscurità del sottosuolo e le fioche luci di una relativa fama. Perciò, spero che “Captain Mask Replica” contribuisca a mantenere desta l’attenzione intorno ad un artista così straordinario, anzi, praticamente unico nella storia della musica. Un artista cui i giovani dovrebbero guardare come a una fonte inesauribile di creatività. A loro, l’esperienza beefheartiana potrebbe insegnare che, anche se hai dei limiti (tecnici e non solo), puoi provare lo stesso a districarti nel folto groviglio delle tue emozioni, cercando di tradurle in espressioni artistiche. In ogni caso, nessun appassionato di musica può dirsi veramente tale se non percorre a fondo le molteplici traiettorie della sua musica, a cominciare da quella che caratterizza l’inarrivabile Trout Mask Replica, il disco che, oltre venti anni fa, mi cambiò la vita.