
Cinque domande su Mike Oldfield a Matteo Meda
Analisi della carriera del musicista di Reading con Matteo Meda.
E’ un grande piacere dare il benvenuto ad uno dei redattori di Ondarock, Matteo Meda. Dopo un’iniziale passione, peraltro mai sopita, per progressive, krautrock, ambient e new age, Matteo inizia ad appassionarsi (cito da Ondarock) al mondo dell’oscurità e a quello opposto-concorde della luce chiara: dark-wave e gothic, ma anche e soprattutto dream-pop. Passione più recente è quella per l’avanguardia e per la musica elettronica. Uno dei suoi primi “amori” è stato certamente Mike Oldfield, artista che ha seguito assiduamente dagli esordi sino agli ultimissimi lavori, prendendo spesso posizioni scomode che lo hanno messo, suo malgrado, nel mirino dei fan di Oldfield. Di questo vogliamo parlare, della carriera di Oldfield, dai suoi esordi sino ai nostri giorni.
Valerio D’Onofrio: Ciao Matteo, cominciamo parlando con i primissimi anni della carriera di Mike. Mike Oldfield è stato un bambino prodigio, già in giovanissima età mostrava grandi doti musicali. La sua giovinezza è stata anche segnata da vari problemi familiari, in particolare quelli con la madre, che probabilmente hanno contribuito alla formazione del suo carattere timido e introverso. Kevin Ayers, che lo ha conosciuto nel 1970, durante le registrazioni di Shooting at The Moon, lo definisce un’anima perduta, un ragazzo timido e chiuso in se stesso con cui non è semplice comunicare. Che idea ti sei fatto del giovane Oldfield negli anni precedenti a Tubular Bells?
Matteo Meda: In realtà l’idea che mi sono fatto io credo sia quella che si può essere fatto chiunque leggendo le note biografiche e le tante testimonianze sparse fra libri, rete e booklet delle recenti Deluxe Editions. Sicuramente la famiglia fu uno stimolo in più direzioni: tu parli giustamente del rapporto conflittuale con la madre, che probabilmente non fu una causa a formazione del suo carattere timido ed introverso ma una conseguenza dello stesso. Dall’altro lato però non dimentichiamo che il percorso musicale di Oldfield prende una forma grazie soprattutto alle “collaborazioni familiari” con la sorella Sally (a nome Sallyangie produssero pure un disco) e il fratello Terry. Personaggi che per altro erano decisamente diversi (e lo sono rimasti) da lui: lontanissimi dagli eccessi, diligenti in gioventù e rimasti tali per tutta la vita. Terry era il “figlio perfetto”, quello che risponde al modello sognato dai genitori (nel caso specifico dalla madre), credente fin da piccolo, non privo di determinazione (lasciò la scuola per imbarcarsi in tour coi Byrds) ma in grado di ponderare con razionalità qualsiasi scelta. Sally era la “figlia predestinata”, quella con mille talenti, capace di portare avanti in parallelo una carriera da danzatrice classica (e vincere premi su premi) e dedicarsi contemporaneamente con diligenza allo studio del pianoforte e a questo aggiunge una voce limpida e cristallina capace di far accapponare la pelle a chiunque (non dimentichiamoci la performance, sensazionale, sul capolavoro “Shadow Of The Hierophant” di Steve Hackett). Mike lì in mezzo era il brutto anatroccolo, quello “problematico”, quello che invece di studiare musica si chiudeva nella sua stanza ed improvvisava in maniera libera. Insomma, un tipo fuori dagli schemi, forse “troppo” anche per la sua epoca: un personaggio con un’anima decisamente punk ma senza il temperamento necessario per trasferirla dai sogni ai fatti concreti. Di sicuro Terry e Sally hanno sempre provato un affetto particolare per lui, al contrario dei genitori, e probabilmente avevano intuito ben presto che dei tre quello fuori dall’ordinario era lui. Ma gli mancava quell’impeto pure per sfogare i suoi malesseri psicologici nella droga, tanto che nel periodo peggiore (che per assurdo fu quello post-Tubular Bells) provò l’LSD rimanendone quasi spaventato. Il mix di alcool e psicofarmaci probabilmente tese a peggiorare le cose. Kevin Ayers infine arrivò al momento giusto ed era il tipo giusto: il suo spirito positivo nei confronti di tutto quel che gli si presentava davanti – causato anche e soprattutto da una giovinezza vissuta nella tranquillità e nell’ozio della Malesia, da figlio di un produttore della BBC a cui la dote economica non è mai mancata – fu un uragano capace di trascinare il giovane Mike in un vortice di ossigeno e positività. Per capire che personaggio fosse Ayers basta ascoltare “Flying Start” – pezzo scritto con lo stesso Oldfield per “Islands”, forse uno dei suoi dischi peggiori – e seguirne il testo. Nella band di Ayers poi avvenne l’evento decisivo, ovvero la conoscenza con David Bedford, l’uomo a cui Mike e chiunque ami la sua musica dovrebbero dedicare un ringraziamento quotidiano: non fosse stato per lui “Tubular Bells” sarebbe rimasto un collage di emozioni, sensazoni e appunti nel cassetto di un giovane incapace di superare la sua alienazione nei confronti del mondo.
Valerio D’Onofrio: Nel 1973 Mike Oldfield pubblica il suo primo album, l’indimenticabile Tubular Bells, vera pietra miliare. Nonostante sia un album complesso, con due lunghe suite di venti minuti, il successo è enorme. Quali pensi siano i motivi di questo successo e quali sono le influenze che TB ha avuto in altri musicisti?
Matteo Meda: Sarò lungo, lo dico prima, è un domandone. Partiamo col dire che “Tubular Bells” è un disco che denuncia un’incredibile esigenza emotiva, prima ancora che strettamente artistica. Questo a mio parere è il fattore decisivo che riuscì a farlo amare al pubblico: quando un artista mette il cuore e una parte importante di sé stesso in quel che fa, e riesce a farlo traducendo con originalità il sentimento in musica, compie quel passo decisivo per cui sarà impossibile che l’ascoltatore medio non apprezzi il risultato. E questo vale anche con le “traduzioni di livello opinabile”, come la stessa “Flying Start” che ti ho citato sopra, tanto per restare in tema-Oldfield. Il secondo fattore, non neghiamolo, fu indubbiamente la “Mano de Diòs” di William Friedkin: se l’intro di “Tubular Bells Part One” non fosse finita in quel film, oggi non saremmo qui a parlare di un disco che vendette così tanto. Consideriamo che oggi, per molti o quasi tutti, “comprare” un disco è un atto di fede: si fa giusto per quei capolavori che si amano alla follia, per il resto ci sono (ahimè, ma questa è un’altra storia) il web e la pirateria. Nei primi Settanta – ma anche in parte dei secondi – il verso era l’opposto: chi non aveva nemmeno un disco in casa era visto come quello “fuori dal mondo”. Come usciva una hit ci si fiondava nei negozi a comprare il singolo e come si riceveva qualche soldo in più, il tuffo era sullo scaffale dei vinili del negozio più vicino, per accaparrarsi prima di tutti l’ultima novità, potersi “sfidare” su chi avrebbe comprato il disco che in un futuro si sarebbe ricordato. Di tutte queste cose non posso ovviamente parlare per esperienza diretta, ma riporto racconti che provengono da mio padre e da colleghi che quell’epoca l’hanno vissuta in prima persona. In Gran Bretagna poi la rete era ancora più fitta, basti pensare che c’erano negozi di dischi in cui negozianti ed acquirenti passavano le ore ad ascoltare e fare “previsioni” su che dischi sarebbero arrivati prima in top 10. Insomma, non sto dicendo che fosse facile vendere, ma di sicuro dopo aver visto “L’Esorcista” parecchi acquistarono “Tubular Bells” a scatola chiusa e restarono ammaliati dalla sua capacità di arrivare ai confini degli stilemi prog (all’epoca più una suite era lunga, elaborata e complessa, più era meritevole) mantenendosi nonostante questo incredibilmente “accessibile” e “pulito” e squisitamente “sentito”. La voce si sparse, insomma, e di sicuro anche la storia di questo giovanissimo e timidissimo ragazzino che nemmeno ventenne cava fuori un disco simile aiutò non poco. Fu una compartecipazione di fattori, insomma.
Riguardo le influenze, in molti potrebbero rispondere citando una “nuova spinta” sul fronte rock di Canterbury. Personalmente non mi trovo particolarmente d’accordo con quella corrente di pensiero: Canterbury era, fu e restò fino alla fine del decennio il tempio del jazz-rock, di una forma più cruda e dritta del fusion. Anzi, semmai quella scena proseguì in direzione opposta: anziché contaminarsi di folk – “Tubular Bells” era un disco pieno zeppo di richiami al folk, anche se mai quanto i due successivi di Oldfield – arrivò a scremare sempre più ogni sua forma di legame con il “prog” classico. Basti pensare alla mutazione dei Soft Machine: una “Moon In June” all’epoca di “Six” – contemporaneo a Tubular Bells – o di “Seven” era qualcosa di impensabile. La prima grande innovazione di “Tubular Bells”, nonché la più importante, fu che sostanzialmente si tratta del primo esempio di one-man band, anzi, sarebbe a dire di “one-man rock-orchestra”! I polistrumentisti all’epoca proliferavano già, ma nessuno prima aveva mai pensato di registrare totalmente da solo la bellezza di una trentina di strumenti? Dovessimo fare la lista di quanti l’hanno fatto dopo, occuperemmo una pergamena. Faccio giusto due nomi: quello di un contemporaneo, Jean-Michel Jarre, che completò un’operazione simile (pure nel ruolo storico di “sdoganazione di massa”) radunando un’orchestrina di synth analogici per “Oxygène”; e Steven Wilson, forse l’emblema del revival Seventies nella contemporaneità, che nei primi dischi si improvvisò addirittura leader di una band fittizzia autoproducendo tutto da solo. Poi un altra innovazione legata a “Tubular Bells” che cambiò la storia fu nei confronti del pubblico: si trattò del primo disco composto da “suite” dal linguaggio così poliglotta da saziare praticamente qualsiasi palato. C’erano Terry Riley e Pat Metheny, il folk britannico e quello celtico, il prog e i tempi dispari, la coralità degli Yes e la pienezza dei Camel, lo psych-jazz dei Whole World diluito e l’oppressione di Wyatt sebbene intimidita, albori di world music con strumenti etnici e di new age nella soffusa ma costante carica “spirituale”: E proprio questo suo parlare tantissime lingue aprì le porte alla contaminazione: un fenomeno che esisteva già da tempo e continuò ad essere rigettato dai puristi, ma che con il successo di quest’album attirò l’attenzione del pubblico più pop. Ci sarebbero voluti altri vent’anni e Peter Gabriel affinché il processo arrivasse con “Passion” ad una conclusione. A livello invece prettamente sonoro il nome che verrebbe in mente a chiunque è tutto italiano ed è quello dei Goblin, che per ammissione dello stesso Simonetti composero il celebre tema di “Profondo Rosso” ispirandosi all’intro di “Tubular Bells Part One”. Poi c’è Robert Wyatt col capolavoro “Rock Bottom”: la presenza di Mike in “Little Red Robin Hood Hit The Road” non si limita certo al bellissimo assolo di chitarra. Poi ancora la metamorfosi dei Faust in “The Faust Tapes” coincidente non a caso con il loro approdo alla Virgin, e più avanti i Tangerine Dream che in “Force Majeure” ripresero parecchio della carica “sinfonica” delle campane tubolari. E potrei andare avanti ancora a lungo…
Valerio D’Onofrio: Dopo TB Oldfield continua con la stessa ricetta dei brani lunghi. Nonostante non riesca a trovarsi a suo agio con l’inatteso successo pubblica Hergest Ridge (1974). Quali sono le differenze con l’esordio?
Matteo Meda: Molti interpretano “Hergest Ridge” come il parto travagliato di un Oldfield in preda ad una crisi su tutti i fronti: quello psicologico in primis, quello sociale in secundis e quello economico infine. In realtà a mio modo di vedere il suo background è tutt’altro: si tratta di un rifugio, una sorta di terra perfetta in cui il Nostro è riuscito a ritrovarsi. L’uscita effettiva dalla cirsi avverrà con “Ommadawn” che è un po’ il fratello maggiore (per assurdo!) di “Hergest Ridge”. Io tendo ad identificare i primi quattro album di Oldfield con le Quattro Stagioni: l’autunno per “Tubular Bells”, la primavera per “Hergest Ridge”, l’inverno per “Ommadawn” e l’estate per “Incantations”. Il fatto che la primavera venga prima dell’inverno spiega bene come la vedo sul passaggio: “Hergest Ridge” è un album pastorale, un acquarello delicato e non un compendio di tensione romantica come era il suo predecessore. Non ha nessuna urgenza di tipo sentimentale né descrive lo stato d’animo di Oldfield al momento: è semmai la definizione del mondo perfetto dove vorrebbe tornare a vivere, ovvero la dimensione di casa sua, della sua collina e delle praterie sconfinate. Suggella in musica la sua timidezza e il suo modo di vedere il mondo, e a mio parere è un disco bellissimo, ingiustamente sottovalutato, nonché il vero contributo in anticipo di Oldfield al futuro universo new age, molto più di “Tubular Bells”. Queste sono le differenze a livello umorale ed emotivo, mentre sul sonoro la cosa è forse ancor più palese: suite sì, ma di un prog-folk pulitissimo e morbido con pochissime concessioni a forme complesse (per quanto l’attacco dela “Part Two” con le quaranta sovraincisioni di chitarra siano forse l’emblema di come la sua voglia di superare certi limiti non fosse certo saziata). “Hergest Ridge” avrebbe in ogni caso dato il contributo principale alla “rinascita” di Oldfield come uomo: probabile sia stata una cartina di tornasole anche per lui, la scoperta che il mondo che sognava non era certo fuori dalla sua portata, la presa di coscienza del suo poter finalmente uscire dal tunnel. Non ho letto molte sue interviste, ma sono abbastanza sicuro che “Hergest Ridge” sia uno dei dischi a cui è più legato ed inauguara anche la fase dell’Oldfield-uomo che preferisco: ovvero quella di mezzo fra l’introversione estrema della gioventù e la spocchia “viziata” della tarda età adulta.
Valerio D’Onofrio: La sua carriera continua nel 1975 con Ommadawn, che da molti è considerato uno dei suoi lavori migliori. Sei d’accordo con questa opinione?
Matteo Meda: “Ommadawn” è il mio preferito, e francamente qui perdo un po’ le parole, nel senso che non ho la benché minima idea di come gli sia saltato fuori. Sicuramente è stato il disco della definitiva uscita dal tunnel, il passo decisivo per chiudere un percorso in tal senso quasi interamente già compiuto. L’opinione che mi sono fatto è che sia un disco probabilmente meno autobiografico dei due precedenti, il primo e più riuscito dei suoi tentativi di guardare al di fuori del proprio orticello. Se “Tubular Bells” guardava dentro sè stesso e in “Hergest Ridge” contemplava le mura di casa, “Ommadawn” amplia per la prima volta le prospettive e per quel che mi riguarda è un disco di puro folk, uno dei dischi più belli di folk strumentale che abbia mai sentito. Compie l’equa e giusta distanza fra il “metterci il cuore” e il saper tenere quel distacco d’osservazione che un grande artista sa dosare col contagocce. Insomma, è la consacrazione e a mio parere è anche il disco più intenso per atmosfere, non a caso è il primo ad essere prodotto e lavorato anche (ma non ancora “soprattutto”) per essere ascoltato anziché solamente per e in sé stesso. E’ una sintesi completa, non c’è mezza virgola fuori posto, non una melodia che non faccia accapponare la pelle, non un passaggio che non tocchi nel profondo, perfino nella chiusura di “On Horseback” che forse è il ponte con “Hergest Ridge” e riassume in una prospettiva più positivista il clima e l’aria che si respira dalle parti di Hergest Ridge (dove invita pure a “fare un salto” quando ci si sente tristi e annoiati). Fa tra l’altro seguito a tutta una serie di singoli-divertissment che Oldfield aveva sparso durante gli anni: al periodo di “Ommadawn” risalgono i più belli, ovvero “First Excursion” e “Argiers”, più una versione stellare del tradizionale “In Dulci Jubilo” (già uscito in fase embrionale sul lato B della meno interessante “Don Alfonso”) con un assolo di chitarra da brividi.
Valerio D’Onofrio: Incantations del 1978 è un doppio album che continua la strada di Oldfield delle lunghe suite di venti minuti, qui sono addirittura quattro. Pensi che Mike stia cominciando a ripetersi o ritieni questo lavoro originale rispetto ai precedenti?
Matteo Meda: “Incantations” è un’altra meraviglia. Pochi artisti, a mio parere, sono riusciti a cavare quattro album di fila in apertura di carriera dal livello medio così elevato come ha fatto Oldfield. Come dicevo prima, “Incantations” è l’estate nonché l’estasi definitiva del suono del primo Oldfield. Due cose lo penalizzano: il fatto che sia arrivato un anno dopo dell’esplosione del punk e della new wave nel “magico” 1977 e l'”esagerazione” con le quattro suite, peraltro a mio parere riuscitissima oltre che legittima. Il punto semmai è che anche un pubblico ormai allenato e abituato a brani lunghi si spaventò parecchio dinnanzi ad una mole simile, per altro priva di spunti o temi memorabili o in grado di trascinare il tutto (“Hergest Ridge” aveva quell’estratto poi rinominato “Spanish Tune”, “Ommadawn” la stessa “On Horseback”). Un’altra interpretazione diffusa vuole “Incantations” come la sua opera più complessa: a mio parere invece per assurdo è quella dalle atmosfere più accattivanti e trascinanti fra le prime quattro, è un fluire continuo ed inarrestabile, un vento che soffia incessante come mai prima, spazzando via la malinconia da neve e baita che aveva invaso “Ommadawn”. Non fu capito e su questo non c’è dubbio, tanto che oggi pure lui spesso lo rinnega, dicendo che la scelta di pubblicarlo fu un autentico suicidio. A mio parere si trattò solo di mera sfortuna temporale, perché fosse uscito solo un anno prima oggi ne si parlerebbe diversamente, specie visto il bellissimo cameo di musicisti (consiglio l’acquisto della Deluxe Edition che contiene un DVD con un’esibizione dell’intero disco a cura di quel dream team che lo portò dal vivo nel 1979) e di una chicca autentica, ovvero la chiusura della “Part 4” (“Hymn To Diana”) cantata dall’impagabile voce di Maddy Prior degli Steeleye Span, formazione di punta della storia del folk britannico.
Valerio D’Onofrio: In questi anni Mike non mostra interessi verso brani brevi commerciali. Successivamente le cose cambieranno e dagli anni ottanta in poi i suoi interessi prederanno strade diverse. Come sintetizzeresti la sua successiva carriera? Pensi sia mai riuscito a liberarsi delle sue “campane” o, come pensano alcuni, ne sia rimasto schiavo?
Matteo Meda: Qui il discorso si fa abbastanza complesso. Dopo “Incantations” sicuramente capì anche lui che il modello-suite non avrebbe potuto reggere ulteriormente, e per il ripudio verso la complessità e la prolissità che la rivoluzione punk aveva portato, e per il probabile rischio di sedersi sugli allori. Paradossalmente Oldfield è un personaggio che ha cambiato i suoi connotati col tempo in direzione inversa rispetto a quanto fa la maggior parte degli artisti: se rinascesse oggigiorno, l’Oldfield-giovane troverebbe rivoltante l’Oldfield-vecchio dei nostri giorni. “Platinum” fu la reazione al punk, ha l’omonima suite breve che è piena di spunti interessanti e gli altri quattro brani che sono uno peggio dell’altro: due volti come spesso capita nei dischi di transizione. Quel che accade dopo in realtà è molto meno continuo di quanto possa sembrare a prima impressione, perché arrivano gli anni Ottanta e nel giro di un due-tre anni le carte in tavola cambiano più volte. Così ci fu “QE2” che è un lavoro interlocutorio, una raccolta di appunti per quel cantiere in lavorazione che è la carriera di Oldfield nel 1981. Poi c’è il fantomatico incidente in elicottero che cambia la sua vita in maniera radicale: la morte lo sfiora e l’avvenimento lo porta improvvisamente a riconsiderare l’ottica in cui vede la vita, e ad iniziare il cambiamento che lo condurrà a seguire le tracce del “maestro” Ayers nel mondo dell’ozio e dell’autocelebrazione. Prima però ci fu spazio per “Five MIles Out” dove la voglia di sperimentare è ancora tanta, per quanto la direzione intrapresa sia palesemente quella del pop: “Taurus 2”, sì, ma anche la title track con l’embrione di un vocoder per la prima volta in un pezzo pop-rock, e pure “Orabidoo” che è una mini-suite sul solco della prima “Taurus” dal sapore quasi esotico. “Crises” e “Discovery” invece a mio parere sono due dischi bellissimi. Il primo ha la suite omonima – che mischia nostalgia prog e propensione pop ed è un’autentica lezione a tutti coloro che negli anni Ottanta rifiutavano il decennio precedente – e “Moonlight Shadow” che è un capolavoro pop, per non parlare di “Taurus 3” che sfoggia alla grande quanto ad oggi Oldfield sia maledettamente sottovalutato come chitarrista. Il secondo è una raccolta di canzoni splendide ed è uno dei dischi pop di maggior spessore del decennio, a fianco di “So” di Peter Gabriel, “Avalon” dei Roxy Music e pochi altri.
La caduta dell’asino arrivò quando “To France” bissò il successo di “Moonlight Shadow”: se è vero che Branson iniziò ad approfittarne e gli fece partorire una paio di autentiche ciofeche (passami il francesismo) come “Islands” e “Earth Moving”, dall’altra anche a lui il denaro iniziò a non dispiacere poi tanto. La storiella su “Amarok” la sanno tutti e non sto a ripeterla, su quel disco dico solo che a mio parere è più una tardiva rivelazione dello “spirito punk” che dicevo prima, filtrato ovviamente attraverso i canoni sonori settati con i primi quattro lavori. Però ecco, l’aspetto provocatorio e ribelle fino a prima prigioniero della sua timidezza lì viene fuori, e ne esce un disco notevole per quanto spesso esageratamente ostentato da chi lo vide come una boccata d’ossigeno nel dramma della sua deriva mainstream.
La fase importante della sua carriera termina senza dubbio lì: dopo arriva quel periodo che perdura da circa vent’anni di autocelebrazione ripetuta all’infinito e progetti quasi interamente nati per vezzo e privi di qualsiasi esigenza artistica, dagli innumerevoli ricicli di “Tubular Bells” (vuoi per i due seguiti, di cui il terzo non è nemmeno così malvagio nel complesso, sebbene con l’originale condivida solo l’imbarazzante auto-plagio del tema principale, vuoi per raccolte, ri-edizioni, documentari e quant’altro) alle smanie con il lato meno interessante della new-age (“The Millenium Bell”), con l’elettronica chill-out (“Tr3s Lunas” e in parte il più recente “Light + Shade”, salvati dal suo mai abbastanza celebrato talento di melodista) e con l’universo dei videogiochi (“Tr3s Lunas” stesso). Certo, anche in questi anni ci sono un po’ di eccezioni che confermano l’irreversibile parabola discendente verso il baratro: l’ottimo passaggio dalle parti degli Enigma (ma con molta più classe) di “Songs Of Distant Earth”, il semplice quanto prevegolissimo omaggio alla tradizione celtica di “Voyager” con una guestlist di nomi importantissimi del panorama folk irlandese e il recente esperimento orchestrale-cinematografico di “Music Of The Spheres”. Tre dischi spalmati su vent’anni sui quali in realtà sono ben più indicative le avventure raccontate da lui stesso in alcune interviste: dall’adolescenza “recuperata” ad Ibiza a suon di anfetamine ai vari cambi di casa in luoghi sempre più simili agli scenari tropicali tanto cari al vecchio mentore Kevin Ayers. Il tutto raccontato con la spocchia dell’anziano signore altezzoso e pieno di sè e di soldi, immerso nel benessere e nell’agio, sensazione che si respira anche nelle scialbe ed irritanti canzonette dell’ultimo “Man On The Rocks”, disco pubblicato probabilmente tanto per chiudere l’accordo con la Mercury che gli ha permesso di prender casa alle Bahamas (la più recente delle tante terre dove ha piantato bandiera in questo ultimo ventennio). Insomma, questo è Oldfield oggi: più che delle sue campane è diventato schiavo a mio parere di sé stesso.