
Cinque domande sulla psichedelia inglese ad Antonello Cresti
La Psichedelia Inglese
È con vero piacere, ma anche con viva curiosità, che presentiamo nelle pagine di Psycanprog una delle figure più vivaci e interessanti del panorama musicale italiano: Antonello Cresti.
Musicista, Cresti ha legato il suo nome a progetti con una forte impronta sperimentale (soprattutto psichedelica e folk), come Nihil Project e In Yonder Garden, o colti e scanzonati, come i Cocainomadi. Critico e storico della musica, che descrive – vivaddio! – sempre in stretto rapporto con la Storia, la società e la cultura, il Nostro è anche autore di saggi in cui è rimasto sempre fedele a questo approccio occupandosi di folk revival britannico (Fairest Isle. L’epopea dell’electric folk britannico, Aerostella, 2009), di nuovo electric folk inglese, l’industrial e apokalyptic folk, in rapporto all’evoluzione di contro-cultura e underground (Lucifer over London. Industrial, folk apocalittico e controculture radicali in Inghilterra, Aerostella 2010) e di influenza della tradizione esoterica antica sulle sub-culture giovanili dagli anni ’60-’70 a oggi (Come to the Sabbat. I suoni per le idee della Britannia esoterica, Tsunami 2011).
In questa intervista discuteremo della psichedelia inglese, alla quale Antonello ha dedicato il suo primo saggio, U.K. on Acid. Viaggio attraverso la Summer of Love inglese (Jubal, 2004). Varrà la pena presentare questo breve ma prezioso vademecum di appena 30 pagine, che ha anzitutto il merito di recuperare, oltre a una quantità di nomi dimenticati dai più, uno straordinario quadro d’insieme del movimento psichedelico meno conosciuto, quello appunto d’oltremanica, sullo sfondo dell’epoca in cui nacque e si sviluppò. Temi centrali ma da sempre controversi (su tutti l’origine della psichedelia inglese e il suo rapporto con quella americana), vengono trattati con stile leggero e incisivo. Il tentativo di risalire dalle diverse manifestazioni della psichedelia inglese all’idea-paradigma che le ispirava non dà mai al lettore l’impressione di una griglia preconcetta, ma piuttosto di un ingegnoso e raffinato gioco di prospettive, nel quale ogni filone psichedelico trova definizione in sé e per sé e/o in rapporto con generi contigui (folk e blues revival, ossia la roots music più latamente intesa, il sunshine pop d’ispirazione californiana, gli altri filoni psichedelici). Oltre alla sorprendente profondità di un quadro d’insieme siffatto (data dallo zelo “archeologico” con cui riporta alla luce nomi dimenticati), colpisce la coerenza di una visione tanto più credibile poiché non sovverte gerarchie di “maggiori” e “minori”, ma le vanifica: suggerisce che ogni band valga come tessera di un mosaico e non prescinde dal “valore”, ma lo vincola indissolubilmente alla comprensione problematica del mosaico e alla prospettiva in cui lo si osserva.
Crediamo che possa intendersi in questo senso l’obiettivo dichiarato del saggio, di suscitare curiosità ad extra, «in un pubblico potenziale», ma anche – aggiungeremmo – di rendere più consapevole il pubblico attuale degli appassionati sull’effettivo significato della parola “psichedelia” stimolandolo a tenere aperto uno scrigno che, dopo quasi mezzo secolo, sembra non finire mai di restituirci il suo incanto.
Veniamo, adesso, alle nostre cinque domande.
GS – Cominciamo… dalla fine, Antonello. A tratti, emerge da U.K. on Acid l’idea che la psichedelia inglese sia, se non addirittura autoctona, almeno largamente autonoma da quella americana. Esiste un carattere della psichedelia inglese che meglio può riassumerne, secondo te, la specificità?
AC – Lasciami innanzitutto segnalare che U.K. on Acid era un libretto che, soprattutto per motivi di spazio, aveva grosse lacune e che, semmai, si limitava a “suggerire” una via… Detto questo, certamente ritengo che la psichedelia inglese abbia specificità talmente forti da farla assurgere al ruolo di “nuovo suono” in maniera ancora più netta che negli States. Se infatti in America il rock più celebrato della West Coast (si pensi ad esempio ai Grateful Dead) era un esperimento che, partendo chiaramente dal blues, lo proiettava in territori più acidi e dilatati, in Inghilterra la stella cometa era data dalla idea di ibridazione tra generi e suggestioni. Si partiva dal pop, poi si attingeva dalla sperimentazione, dal folk, dal vaudeville, dalla musica indiana. Un itinerario chiaro anche solo ascoltando gli album beatlesiani e che secondo me rende tanti album inglesi affascinanti. Godibili, freschi, spensierati e al contempo pieni di idee e innovazioni.
GS – Ritieni fondata la visione tradizionale che attribuisce, generalmente, alla psichedelia americana un carattere più politicizzato e “militante”, più decadente, sperimentale e al limite estetizzante a quella inglese? Come descriveresti il rapporto tra la psichedelia inglese e la controcultura?
AC – Che la psichedelia americana fosse una faccenda più politicizzata non c’è dubbio… D’altronde il clima per i giovani negli States, con la brutta faccenda del Vietnam e della coscrizione obbligatoria, non era granchè spensierato… Ma sulla sperimentazione e sul background culturale invece sono molto più dubbioso. Tutto il rock inglese infatti ha radici ben più “acculturate”: Lennon e McCartney erano studenti d’arte, Elvis un camionista… E tentativi di sperimentazione radicale si ebbero eccome in Inghilterra… AMM, White Noise, David Bailey, David Bedford, Basil Kirchin… Tutto un universo sotterraneo sconosciuto eppure molto più influente di tanti gruppi garage rock del medesimo periodo! Sulla scena controculturale inglese invece ha detto tutto Barry Miles nel suo “London Calling”, lettura che vi consiglio!
GS – Indicheresti una band tra quelle “classiche” o comunque più conosciute e una tra quelle dimenticate o meno conosciute, che secondo te meglio riassumono le caratteristiche della psichedelia inglese?
AC – Senza dubbio il primo album dei Pink Floyd rimane una sintesi perfetta tra canzone pop e avventura sperimentale, una bella cerniera tra quello che era e quello che sarebbe stato… Tra i nomi meno noti ci sarebbero tantissimi esempi interessanti; al volo direi che il debut-album di Bill Fay, un artista riscoperto recentissimamente, rappresenta un tentativo perfettamente riuscito di creare canzoni surreali, sghembe, eppure anche con un pathos quasi classico, drammatico. Ma di tesori nascosti ce ne sono a decine…
GS – Perché ascoltare musica psichedelica inglese e magari approfondire il suo contesto storico, oggi?
AC – Mi verrebbe da dire, molto semplicemente, che ascoltare la psichedelia è una esperienza da fare perché si tratta di musica di grande valore… Riuscire a restare nel solco della tradizione apportando elementi di rottura è operazione difficile. E naturalmente quella musica ci testimonia di un momento felice culturalmente e socialmente, un momento in cui la gioventù diviene protagonista assoluta, senza per questo venire associata a tensioni sociali superiori alla norma. La Summer of Love fu brevissima, ma per qualcuno, fortunatamente, vive ancora, nei cuori e nelle menti!
GS – Hai studiato e descritto in profondità la psichedelia inglese nel suo contesto storico. Credi che esistano caratteri di questo fenomeno musicale che maggiormente sfuggono all’ascoltatore odierno, pur magari appassionato e competente, sui quali vorresti porre l’accento affinché diventassero bagaglio comune?
AC – La considerazione che faccio qui è valida per questo e per altri generi musicali: immaginare l’esperienza dell’ascolto come un “viaggio” dimostra chiaramente di quanto fosse attivo il ruolo immaginato da e per l’ascoltatore. Si tratta di una considerazione quasi rivoluzionaria al giorno d’oggi in cui la musica è relegata ad essere sottofondo, brusio indistinto della meccanizzata vita quotidiana. Saper ascoltare donerebbe all’uomo nuovi spazi di perscrutazione necessari oggi come non mai…
Grazie, Antonello, ancora complimenti e arrivederci a presto su Psycanprog!
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Antonello Cresti: La psichedelia inglese.
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