
Cinque album del 2016 consigliati da Vittorio Nistri
Il 2016 sta per concludersi e insieme al musicista Vittorio Nistri – mente creativa dello storico gruppo italiano dei Deadburger – cercheremo di conoscere i suoi ascolti dell’anno e le sue motivazioni sulle scelte dei cinque album che ha preferito. Come ogni anno scelte interessanti e significative. I cinque album scelti sono:
- David Bowie – Blackstar
- By The Waterhole – Two
- Shackleton & Ernesto Tomasini – Devotional Songs
- Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity Of Experience
- Alfio Antico – Antico
Valerio D’Onofrio: Ciao Vittorio, il 2016 è stato un anno di grandi perdite, Bowie, Cohen, Emerson, Lake, Paul Kantner, ecc. In tanti ci hanno lasciato. Che ruolo hanno avuto questi musicisti nella tua formazione musicale?

Vittorio Nistri
Vittorio Nistri: Tra i molti artisti che purtroppo ci hanno lasciato nel 2016, i due che hanno avuto il maggior peso nella mia formazione sono stati DAVID BOWIE e GEORGE MARTIN.
Uno dei motivi per cui, ancora oggi, sono affascinato dall’interscambio tra rock e sperimentazione, e tra elettronica e strumenti “tradizionali”, sta nell’imprinting indelebile che mi lasciò l’ascolto di “Low”. Fu uno di quei quattro o cinque album (insieme a “Tago Mago” dei Can, “Rock Bottom” di Wyatt, ecc) che mi cambiarono la vita, e mi spinsero a diventare musicista.
Quanto a George Martin, il suo lavoro con i Beatles ha influenzato il mio gusto per gli arrangiamenti. Devo a lui (e ai pittori impressionisti) la mia inclinazione ad inserire, in un brano che ha determinate sonorità, una improvvisa pennellata di uno strumento “altro”, magari per pochi secondi e poche note. George Martin poteva utilizzare una miriade di suoni diversi, eppure l’apporto di ognuno di essi si distingueva nitidamente, e l’effetto non era mai sovraccarico perché ogni strumento interveniva solo per quel poco che davvero risultava prezioso per il brano. Tra gli altri grandi musicisti scomparsi nel 2016, vorrei rivolgere un omaggio a PIERRE BOULEZ (che approcciai nel 1988, grazie al suo “The Perfect Stranger” su musiche di Zappa, e in seguito fu la mia porta d’accesso per il mondo della musica atonale e dodecafonica)…. e soprattutto a PAUL KANTNER. Dischi come “Volunteers” e “Blows against the empire” per me rappresentano ciò che la psichedelia avrebbe dovuto essere, e raramente è stata.
Valerio D’Onofrio: Che aspetti caratteristici hai notato in questo 2016?
Vittorio Nistri: E’ stato un anno doloroso. Penso alla Siria, al terrorismo, al dramma dei migranti, al terremoto, ecc.
Nel lavoro, vedo aumentare precarietà e sfruttamento. In politica, il giusto desiderio di protesta e di cambiamento sembra incanalarsi in vicoli ciechi (esempio da manuale: i voti di sfruttati e precari a Trump)… mentre in Italia, è per me frustrante il perdurare dell’assenza di una credibile alternativa “a sinistra”. Credo inoltre che il gigantesco mutamento antropologico apportato dal web – di per sé foriero, come tutti i cambiamenti epocali, di aspetti sia positivi che negativi – stia mostrando, in questi ultimi anni, un progressivo acuirsi delle sue ombre.
Ma questi discorsi ci porterebbero lontano, e forse la tua domanda si riferiva alle caratteristiche del 2016 in ambito musicale.
Allora, tornando alla musica… rispetto ai due anni precedenti, nel 2016 ho trovato qualche stimolo in più in ambito elettronico, e qualcuno in meno in ambito new jazz. Non penso che si tratti di un trend, ma di differenze casuali, inevitabili tra un anno e un altro.
Se dovessi individuare una tendenza, la vedrei piuttosto nel moltiplicarsi, anche nell’ambito sperimentale, di proposte basate sullo sfruttamento intensivo di una singola idea. Faccio un paio di esempi per spiegarmi: “Deepak Verbera” di BOTANY propone un affascinante incontro tra i procedimenti compositivi che furono di un DJ Shadow (creare nuove composizioni usando campioni di campioni di altri dischi) e le atmosfere mistiche e space-jazz di Alice Coltrane… però reitera questo connubio per tutti i brani della tracklist.
E similmente, “Interventions” degli HORSE LORDS applica in modo molto interessante la tecnica degli sfasamenti di patterns di Steve Reich a un classico combo rock basato su chitarre/basso/batteria… ma a questa idea si attiene, implacabile, pressocché per la totalità del disco.
Questi sono solo due esempi. Potrei citarne tanti altri. Naturalmente, ci sono ancora album generosi di idee e creatività, ma la percentuale di quelli monodimensionali mi pare in progressivo aumento.
Ho la sensazione che sia un “sign of the times”. Se i dischi vendono sempre meno… perché sbattersi più di tanto nel farli? Se i fruitori (e, forse, anche parte dei “critici”), sommersi dall’oceano di musica a disposizione, sono sempre più frettolosi nell’approcciare un nuovo album… che “utilità” c’è nel pubblicare lavori troppo densi di idee, che abbisognano di più ascolti per venire comprese?
La moltiplicazione dell’offerta a scapito dell’approfondimento è una costante della nuova era (nella musica come nella politica, nella socialità, nell’informazione), e ho l’impressione che anche nell’ambito sperimentale – che pure dovrebbe essere, per definizione, quello più congeniale alla creatività – stia aumentando il numero degli artisti che a questa visione di “modernità” si stanno adeguando.
Valerio D’Onofrio: Insieme a Luigi Porto abbiamo parlato di una trilogia della morte riferita a Cohen, Cave e Bowie. Tu nella tua cinquina hai scelto solo Blackstar, perchè?

David Bowie – Blackstar
Vittorio Nistri: Massima stima per Cohen, come artista e come essere umano, ma non è mai rientrato tra i miei ascolti abituali (anche se devo dire che trovo stupenda la title track del suo disco di addio). L’album di Nick Cave è di una bellezza lancinante. L’ho sentito un paio di volte, mi ha spezzato il cuore, e credo che non lo ascolterò più. Ho tre figli, che sono la cosa più importante della mia vita. E provo empatia al massimo grado per tutti i bambini – anzi, per i figli di qualunque età. Cito una frase (tratta da “Luce”, una canzone di Fiorella Mannoia) in cui mi riconosco in pieno: “Non c’è figlio che non sia mio figlio”. L’album di Cave, che è il suo commiato dal figlio morto a quindici anni, mi fa stare male fisicamente. Nessuna religione, ma anche nessuna opera d’arte, mi aiuta a dare un senso a un dolore – una ingiustizia cosmica – come quello di un genitore che sopravvive a un figlio.
“Blackstar” invece conferisce alla morte un senso, e una grandezza. Trasformare la propria malattia e la propria fine in un’opera d’arte, e congedarsi dai suoi ascoltatori con il dono prezioso di un ultimo capolavoro: a nessun artista si potrebbe chiedere di più.
Erano tanti anni che non trovavo più una sintonia così intensa con un disco di Bowie. Avevo amato molto tutta la sua discografia fino alla stratosferica quadrilogia “Low / Heroes / Lodger / Scary Monsters”, che per me era stato il picco della sua arte; ma, a partire dall’album “Tonight” del 1984 (il primo lavoro di Bowie che trovai totalmente fuori dai miei gusti), il mio interesse per il Duca Bianco si era raffreddato. Da lì in poi, per oltre trent’anni, non c’era più stato nella sua produzione un album che mi avesse veramente avvinto (con le sole parziali eccezioni di “Outside” e “Earthling”).
“Blackstar” mi ha nuovamente folgorato. Per il rinnovato spirito sperimentale. Per l’enorme carica emozionale. Per la oggettiva bellezza delle canzoni (tutte valide, con almeno tre brani in grado di stare nel pantheon delle più grandi composizioni di David: la title track, “Lazarus”, e “I can’t give everything away”). Ma anche per un fattore strettamente personale: la direzione musicale che Bowie ha preso per “Blackstar” ha, per bizzarra e casuale coincidenza, un tratto in comune con la direzione del prossimo album Deadburger, al quale sto lavorando da tre anni.
Bowie, per “Blackstar”, ha chiamato musicisti jazz a suonare brani rock. Mirando non alla vecchia concezione del “rock-jazz”, né tanto meno alla cosidetta “fusion” (sottogenere che personalmente mi ha sempre annoiato), ma proprio a suonare “rock” – però, con una sensibilità “altra” rispetto al rock.
Nel mio piccolissimo, anche io sto da tempo lavorando in questa direzione. In modo diverso da come ha fatto Bowie, e ovviamente con risultati non comparabili a quelli di un musicista immenso come lui… ma nel prossimo Deadburger (che pure sarà il più aspro e violento della discografia del gruppo), a suonare rock ci saranno molti jazzisti.
Ho avuto il piacere e la fortuna di coinvolgere alcuni dei musicisti jazz italiani che preferisco in assoluto (Zeno De Rossi, Silvia Bolognesi, Cristiano Calcagnile), e altri si aggiungeranno.
Valerio D’Onofrio: By The Waterhole è una musicista tedesca che vive e registra a Bergen, Norvegia, cosa ti ha colpito della sua proposta musicale?

By The Waterhole – Two
Vittorio Nistri: Questo suo lavoro è la dimostrazione che, in mezzo al proliferare delle proposte “monodimensionali” di cui parlavo prima, c’è ancora chi persegue una idea di creatività generosa, realizzando album dove ogni brano della tracklist ha la sua idea, la sua ricerca, la sua ragione di essere.
La cosa che mi ha colpito in By The Waterhole (= Eva Pfitzenmeier) è che questa ricchezza di idee convive con una semplicità francescana. Questo album, che ho acquistato incuriosito da una recensione su Blow Up, al primo ascolto sembra tanto minimale da lambire l’austerità. I brani sembrano registrati su pochissime tracce, usando solo voce, scarnissima elettronica, rade percussioni.
Eppure, dentro di me è cresciuto ascolto dopo ascolto, man mano che mi rendevo conto della profondità delle composizioni celata sotto l’apparente understatement, della compiutezza degli arrangiamenti (…i suoni usati sono pochi perché ad essi non serviva altro), e, appunto, della ricchezza e varietà di idee. Se fossi un recensore, avrei qualcosa da raccontare per ogni brano di questo lavoro. Per esempio: “In the end of it all” ha il lirismo e l’incanto artico della migliore Bjork, ma senza la sua alterigia. “Rollin’” introduce un inaspettato calore blues in straniate brume di minimalismo sintetico. “A thought caught on fire” usa solo voci e percussioni – gli strumenti più “fisici” e antichi (e dunque, meno “astratti”) che esistano – per spingersi in territori metafisici e lunari di pura astrazione. “House by the sea” è una ballad per soli synt ambient e voci che avrebbe ben figurato su “Before and after science” di Eno.
Ed io continuo a stupirmi della qualità della musica che, in questi ultimi anni, arriva dai paesi scandinavi, negli ambiti più disparati: dal new (no) jazz della meravigliosa FIRE!ORCHESTRA alla psichedelia dei Goat.
Valerio D’Onofrio: Shackleton ha invece prodotto un album molto apprezzato dalla critica

Shackleton & Ernesto Tomasini – Devotional Songs
Vittorio Nistri: Il campo della musica elettronica è probabilmente quello in cui ogni anno escono più dischi. Ciò nonostante, ancora capita di imbattersi in opere come questa: un album elettronico che non assomiglia a nessun altro.
Per me che da ragazzo ebbi uno sballo con “Rainbow in a Curved Air”, è stato un colpo di fulmine trovare, in questo lavoro di Shackleton, un aroma di Terry Riley (…quelle improvvisazioni mantriche di tastiere) che si intreccia con electrosongs. Accoppiata già insolita di per sé, e resa ancora più inusuale dal fatto che i brani vengono completamente privati di un elemento che normalmente è centrale nelle electro-songs, ovvero i ritmi digitali. Qua tutte le parti percussive sono affidate a percussioni acustiche – usate peraltro più come colore che per grooves – e vibrafono. Ciliegina finale: la bellissima voce di un cantante d’opera italiano (il siciliano Ernesto Tomasini). Wow!
Valerio D’Onofrio: Con Chris Forsyth andiamo verso la psichedelia, ti è sembrato un album nostalgico o innovativo?

Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity Of Experience
Vittorio Nistri: Direi entrambi. E’ nostalgico perché la psichedelia oggi è nostalgica per definizione, a causa dell’humus culturale e sociale di questo momento storico, che è l’esatta antitesi di quello in cui la psichedelia trovò il suo terreno più fertile. Ed è’ nostalgico perché si ispira a una preziosa gemma del passato. Quasi tutti gli album psichedelici contemporanei si ispirano ai soliti 4 o 5 nomi canonici del genere (tipo Syd Barrett per le ballads oppiacee, 13 th Floor Elevators per l’acid rock, ecc); e pure Forsyth prende le mosse dal passato, però sceglie una gemma raramente presa come punto di riferimento, ovvero il chitarrismo poetico e emozionale dei Quicksilver Messenger di “Happy Trails” (ma anche dei migliori Grateful Dead, e, cambiando decade, dei Television).
Allo stesso tempo, questo lavoro di Forsyth riesce a suonare, a suo modo, come “contemporaneo”. Per esempio, facendo convivere momenti in cui le jam e l’improvvisazione prendono il sopravvento con altri in cui le chitarre si intrecciano in pattern “ordinati”, con echi di math rock, minimalismo, post rock. E’ un lavoro che riesce a sembrare allo stesso tempo interamente scritto e interamente improvvisato. Così come sembra “già sentito”, ma allo stesso tempo dotato di una sua personalità.
Non dimentichiamoci che Chris Forsyth, prima di trasferirsi a Filadelfia e diventare l’attuale guitar hero psichedelico, è stato per anni membro dei PSI (poi ribattezzatisi Peeesseye), trio di NY dall’attitudine fieramente e intransigentemente sperimentale.
Valerio D’Onofrio: Chiudiamo con Alfio Antico, un musicista siciliano che ha rinnovato la musica popolare

Alfio Antico – Antico
Vittorio Nistri: Io per primo sono sorpreso che un disco del genere sia finito tra i miei preferiti dell’anno. Non sono un appassionato di “musica popolare” o “world”. Per dire… nella mia collezione di dischi, che pure conta centinaia e centinaia di album, non ce n’è nemmeno uno della NCCP, o della Real World Records di Peter Gabriel.
A farmi capitolare, in questo lavoro del sessantenne tamburellista, è stata la sua inaspettata valenza sperimentale. Nei primi quattro brani della sua tracklist, una elettronica aspra e straniata incontra il suono primordiale del tamburello e la voce di un pastore dell’entroterra siracusano… mai sentito niente del genere!
Già il brano di apertura, “Ntra li muntagni”, colpisce con i ricordi di una infanzia segnata da fame e fatica srotolati nelle spire di un gelido vento sintetico (“…Quannu d’invernu lu friddu mi tagghiava…”) tipo Eskimo dei Residents. E col secondo brano, arriva il capolavoro: “Stori di pisci” inizia come una tammurriata tradizionale, ma poi, verso 1.40, entra una pulsazione techno-industrial, con un synth primitivo e ossessivo che neanche i Suicide. Contro ogni aspettativa, i due mondi si compenetrano, come se fossero nati per stare insieme.
Nella sua seconda metà l’album si fa meno estremo, e c’è qualche pezzo un po’ meno nelle mie corde. Ma bastano e avanzano i quattro brani iniziali, spiazzanti e inclassificabili come pochi, per indurmi a scegliere questo album come mio disco italiano dell’anno.
Se me lo consenti, coglierei l’occasione per segnalare qualche altra perla italiana del 2016.
“Multikulti Cherry On”, l’omaggio di CRISTIANO CALCAGNILE a Don Cherry, è forse il miglior disco di jazz italiano dell’anno. Particolare e intrigante l’organico strumentale, che ai fiati e ai ritmi affianca banjo, viola e vibrafono.
“Lunar Love” di MOP MOP – aka Andrea Benini, batterista e produttore italiano di stanza a Berlino – è la conferma che anche nei dancefloor si può portare creatività e personalità. In particolare, ho trovato riuscitissimo il massiccio inserimento di vibrafono e marimba (suonati dal grande Pasquale Mirra, che ha fatto parte pure dell’ensemble di Calcagnile menzionato poc’anzi).
“Time is circular” di VERDIANA RAW (dall’album “Whales know the route”) è per me la più bella canzone melodica made in Italy del 2016. Il brano “Austerità”, dall’omonimo album di SPARTITI (nuovo progetto di Max Collini ex Offlaga Disco pax) è invece il testo italiano che più mi ha toccato.
E poi c’è “TINNITUS TALES” delle Forbici di Manitù & Friends. Lo reputo il più interessante concept dell’anno. Se non l’ho potuto inserire nella cinquina, è stato solo per evitare un “conflitto di interessi” (i Deadburger hanno contribuito con un brano inedito, realizzato insieme a Vittore Baroni e Manitù Rossi delle Forbici). Oltre alla forza del concept, e alla grande bellezza della confezione – che è di per sé un vero e proprio oggetto d’arte! – contiene alcuni brani tra i miei preferiti del 2016: tra di essi, vorrei menzionare almeno quelli di DAGGER MOTH, dei Maisie e del duo Tiziana Conte/Adrano Lanzi.Nonché “Through vulcanian ears”, con Manitù Rossi in veste di crooner a bordo della Enterprise!