
Cinque album del 2015 consigliati da Vittorio Nistri
Terminiamo la lunga carrellata di consigli sugli album del 2015, iniziata circa un mese fa, col nostro amico Vittorio Nistri, mente creativa dello storico gruppo italiano dei Deadburger, musicista che – ormai da anni – abbiamo il piacere di conoscere e con cui scambiare opinioni. I suoi cinque album sono:
- SUFJAN STEVENS – Carrie and Lowell
- ALGIERS – Algiers
- MAURO OTTOLINI SOUSAPHONIX – Musica per una società senza pensieri
- SECOND MOON OF WINTER – One For Sorrow, Two For Joy
- SUN RA – To Those Of Earth And Other Worlds
Valerio D’Onofrio: Ciao Vittorio, molti hanno parlato di questo 2015 come di un anno di transizione, magari attesa di qualcosa di nuovo, non solo musicalmente ma da vari punti di vista (sociali, politici, ecc). Tu che idea ti sei fatto?
Vittorio Nistri: Dal punto di vista artistico, è sembrato anche a me un anno di transizione. Ho trovato tante cose belle e valide, ma senza punte realmente extraordinaire, né input particolarmente innovativi.
Credo che sia normale; non tutti gli anni possono essere ugualmente memorabili. Oppure, può darsi che mi sia perso qualcosa (per esempio, non ho ancora sentito gli artisti che tu hai messo ai primi due posti della tua playlist, cioè Knox e Irisarri).
Dal punto di vista sociale e politico il giudizio è molto più negativo. Sotto questi aspetti, il 2015 non mi è sembrato un anno di transizione, quanto di vero e proprio regredimento. All’attivo metterei i negoziati in Iran, e forse (la cautela è d’obbligo, perché chissà se alle dichiarazioni di intenti seguiranno i fatti) l’accordo parigino sui cambiamenti climatici. Le cose da segnare al passivo sono purtroppo ben più ingenti.
Gli orrori dell’Isis sono una pagina nera per l’umanità, e le reazioni che si profilano a questi orrori faranno la loro parte nel rendere questo mondo ancora peggiore. Mi sembra infatti che si siano gettati i semi per una proliferazione dei bombardamenti (con conseguenze tragiche per i civili), leggi liberticide, chiusure di frontiere, proliferare di movimenti razzisti e xenofobi, criminalizzazione del dissenso pacifico; mentre, almeno per il momento, non vedo volontà di correggere quelle ingiustizie politiche, economiche e sociali nelle quali il terrorismo trova la sua primaria fucina di reclutamenti.
Inoltre: la tragedia dei profughi politici mi induce al pessimismo sul futuro dell’Europa, che in larga parte si è comportata in modo indecente. Pessimismo avallato anche dalla crisi greca, un dramma “senza buoni”, in cui tutte le parti in causa hanno dato il peggio di sé.
Il rallentamento della “locomotiva cinese” e la recessione in Brasile mi pare che abbiano incrinato buona parte delle speranze in un superamento a breve della crisi economica.
Gli scandali sulle banche hanno mostrato quanto fossero infondate le speranze di chi pensava che, dopo i disastri planetari del 2008, il sistema bancario fosse stato “moralizzato” e depurato dalla follia della “deregulation” turbocapitalista.
E, nel suo piccolo, la politica italiana ha aggiunto un ulteriore motivo di scoramento per quella parte dell’elettorato che vorrebbe votare a sinistra, ma che si trova di fronte uno scenario dominato da quattro partiti (PD, 5 stelle, Lega, Forza Italia), dei quali nemmeno uno “di sinistra”. Se non è la de-evoluzione preconizzata dai Devo, poco ci manca.
Valerio D’Onofrio: Hai scelto 5 album, ci sono stati degli aspetti particolari che volevi segnalare (sperimentazione, ricerca, ecc) o sono semplicemente gli album che ti sono piaciuti di più?
Vittorio Nistri: Mi sarebbe piaciuto poter segnalare lavori che, anche a prescindere dai miei gusti personali, mi fossero sembrati avere oggettivamente caratteristiche tanto speciali da poterli raccomandare a tutti. Ma quest’anno non ho trovato particolari “punte di diamante”. Come non ho trovato “nuove tendenze”. Di conseguenza, ho dovuto giocoforza attenermi al criterio dei dischi “che mi sono piaciuti di più”. Che è il criterio più soggettivo di tutti – e, come tale, non so quanto potrà interessare chi leggerà queste righe.
Valerio D’Onofrio: La tua prima scelta è “Carrie and Lowell” di SUFJAN STEVENS, album apprezzatissimo che ritroviamo nelle classifiche dei migliori del 2015 un pò dappertutto.
Vittorio Nistri: So che non è molto “cool” mettere questo disco in una playlist indie, perché è già finito in così tante altre playlist, anche mainstream, che si corre il rischio di sembrare “banali”. Ma non me ne potrebbe importare di meno. Ho comprato quest’album sei mesi fa, e non ho ancora smesso di ascoltarlo. E’ sicuramente stato il disco che ho ascoltato più volte durante l’anno.
Non escludo che nel mio giudizio possa esserci anche una componente personale di particolare sintonia emotiva. Sufjan ha scritto quest’album in memoria della madre, scomparsa recentemente; ed io, nel 2015, ho perso la mia.
Però, anche a prescindere da questo mio “link” personale, credo che sia oggettivamente un album bellissimo. Era dai tempi di “Illinoise” che Sufjan non azzeccava più un disco di questo livello.
Ovviamente, qua non si parla di ricerca né di sperimentazione, ambiti nei quali Sufjan aveva fatto dei tentativi negli scorsi anni (dalla soundtrack orchestrale con allegato view master di “The BQE” al trio con un musicista elettronico e un rapper dei Sisyphus), con esiti gradevoli ma non memorabili.
“Carrie and Lowell” rientra nell’ambito più classico e tradizionale che possa esserci, quello del cantautorato.
Ambito dove le cose che contano sono le melodie e i testi (in questo caso, entrambi di una purezza cristallina); gli arrangiamenti (qua perfetti, pur nel loro apparente understatement); e il livello dell’ispirazione – qua davvero alto e commovente.
Allego il link al brano di apertura, “Death and dignity”. Trovo difficile non commuoversi quando Sufjan – rivolgendosi alla madre, che lo aveva abbandonato quando aveva 1 anno (salvo poi, quattro anni dopo, cercare di recuperare il rapporto col figlio, invitandolo a trascorrere le vacanze estive con lei) – le dice: “Mother, I forgive you”.
Valerio D’Onofrio: Anche l’esordio degli ALGIERS ha ricevuto tantissimi apprezzamenti, ma qui siamo davvero in un terreno totalmente diverso anche dalla musica che tu solitamente ascolti.
Vittorio Nistri: Vero…. di solito, non sono un grande frequentatore dell’ambito cosidetto “indie-rock”. Ma a guidare i miei ascolti spesso è la curiosità, e di questo album mi avevano incuriosito alcune recensioni che ne lodavano l’originalità.
L’ho ascoltato, e ho trovato che davvero ha personalità e carattere. Il che mi sembra già un buon motivo per includerlo nella playlist, in un anno prodigo di buoni dischi ma avaro di originalità.
Le basi strumentali, minimali ed elettroniche, e tendenti al dark, hanno qualcosa degli anni ’80. Ma, a differenza di tante altre proposte musicali di derivazione ‘80s (….che di solito mi danno l’impressione di un patetico amarcord, o di “roba di seconda mano” trovata dal rigattiere), negli Algiers ho avuto subito l’impressione di qualcosa di palpitante, vivo, attuale.
La differenza la fa una vocalità autenticamente e trascinantemente ALL-BLACK (gospel, soul, blues), il cui calore si sposa inspiegabilmente bene con l’apparente “neutralità” delle basi.
Il mio apprezzamento per questo disco è ulteriormente aumentato quando ne ho letto i testi, scoprendo che la forza d’impatto della voce di Franklin James Fisher è al servizio di liriche altrettanto sanguigne e, vivaddio, MILITANTI (pur senza mai ricorrere a facili slogan). In un momento in cui tanti album “rock” sembrano focalizzati solo sul vissuto personale e/o sull’interiorità degli autori, a me fa proprio piacere che ci siano ancora dischi che provano a veicolare un senso di “opposizione”. Che credano che il rock possa avere ancora la valenza di uno sguardo etico sul contesto politico/sociale.
Allego il link su “Remains”, il brano di apertura del disco, che trovo potente fin dalle prime frasi (…And the chained man sang in a sigh: “I feel like going home”…).
Valerio D’Onofrio: Andiamo alla tua unica scelta italiana, MAURO OTTOLINI SOUSAPHONIX – “Musica per una società senza pensieri”, che racconta la vita di una compagine itinerante di musicisti girovaghi. Come mai questa scelta in un anno in cui tanti altri LP italiani sono stati osannati da vari siti e riviste?
Vittorio Nistri: Tra i dischi che ho apprezzato nel 2015 ce ne sono parecchi italiani. Per esempio:
l’omonimo debutto degli OOPOPOIOO, duo quasi dadaista composto da una coppia di eccellenti thereministi e polistrumentisti: Vincenzo Vasi (musicista fantastico, col quale collaborai per l’album “C’è ancora vita su Marte”, e col quale spero di collaborare ancora in futuro) e Valeria Sturba;
FRANCESCO BEARZATTI & MARTU_X – “My love supreme” (jazz coltraniano ed elettronica);
“Rumours” di PAOLO SPACCAMONTI, piacevole e cinematico;
ALBERTO TURRA “Azimuth” (duetti chitarra e batteria, attenti alle sfumature delle composizioni e non solo al virtuosismo degli strumentisti);
l’album di PAOLO SAPORITI con Xabier Iriondo, con gli stessi brani riproposti in duplice versione cantautorale e “avant”; e, appunto, il disco dei Sousaphonix, progetto del trombonista MAURO OTTOLINI.
Alla fine, ho scelto di mettere nella playlist il lavoro di OTTOLINI, che consta di due album usciti separatamente, “Vol. 1” e “Vol. 2”. (Personalmente, preferisco il Vol 1).
Ventiquattro brani complessivi, ognuno dei quali abbraccia un mondo musicale e geografico diverso. Alcuni di essi mi piacciono molto, mentre altri non sono nelle mie corde, proprio come coordinate musicali (le esecuzioni sono sempre di alto livello). Ma qua, a prescindere da ogni distinguo tra brani più e meno vicini ai miei gusti, la mia ammirazione va alla fantasia poetica e immaginifica del concept.
Per chi fosse interessato, ecco un link dove lo stesso Mauro Ottolini descrive mirabilmente questo concept.
Sintetizzando al massimo, il tutto è partito da una foto del 1921, scovata per caso da Ottolini in una vecchia fabbrica di strumenti di Borgo Valsugana (in Trentino), raffigurante una banda di paese denominata “Orchestra della società senza pensieri”.
Incuriosito, Ottolini ha fatto delle ricerche, scoprendo che si trattava di una compagine itinerante di musicisti. Nei difficili anni subito dopo la Prima Guerra Mondiale (…anni in cui di pensieri ce n’erano, eccome!), giravano per le campagne, reclutando strumentisti locali, lavorando nei campi in cambio di cibo e alloggio; e, la sera, suonando per le comunità che li avevano ospitati.
Di tutto questo sono restate poche tracce, e nessuno sa che fine abbia poi fatto quest’orchestra girovaga.
Ottolini ha immaginato che abbia girato il mondo in lungo e in largo, suonando nei paesi più disparati, e ogni volta confrontandosi con le musiche del luogo dove si trovavano. E dunque: musica cinese in Cina, maghrebina nel deserto, sudamericana in Argentina, fado in Portogallo, ecc.
Trovo molto bella l’idea di questa banda di Saturnino Farandola (anche a livello simbolico: l’arte come lenitivo per l’anima in tempi difficili; la musica come esperanto tra popoli e razze). Mi sembra una versione nostrana dell’Arkestra di Sun Ra, partorita dalla più profonda provincia italiana (come in un film di Pupi Avati). Capace di fare propri, con la sola forza di un’immaginazione degna di Fellini, mondi diversi e sconosciuti di ogni sorta. Fino a suonare, in una qualche exotica giungla salgariana, questo “Chubanga”, a metà tra Sun Ra e Les Baxter, di cui allego il clip a cartoni animati:
Valerio D’Onofrio: Con la tua quarta scelta ci spostiamo nel campo dell’elettronica contaminata però dalla presenza di voci liriche. SECOND MOON OF WINTER – One For Sorrow, Two For Joy è stato anche consigliato da Matteo Meda e Claudio Milano. Cosa ti ha colpito maggiormente?
Vittorio Nistri: Devo dire che non conoscevo questo album fino a una settimana fa. Ad indurmi ad ascoltarlo è stato proprio il consiglio di Claudio Milano (che stimo, oltre che come artista, come grande conoscitore di musiche “altre”).
Fin dal primo ascolto, l’album è stato per me una rivelazione – e, oltre a tutto, mi ha consentito di superare una impasse che avevo nello stilare la mia playlist.
Per me è impossibile ipotizzare una playlist che non includa almeno un titolo nell’ambito delle cosidette musiche “di ricerca” o “sperimentali”, che, come sa bene chi mi conosce, è l’ambito che mi intriga di più. Ma questa volta non riuscivo a trovare un titolo che mi convincesse al 100%.
Non che nel 2015 non avessi trovato dischi validi; anzi, ne avevo sentiti parecchi di buoni, soprattutto in ambito elettronico (Deradoorian, Jamie XX, Tyondai Braxton, Cummi Flu, Ghostpoet, Soley, Manyfingers) e ambient (“Starless Starlight”, di Robert Fripp e David Cross)… ma nessuno di questi mi era sembrato tanto “straordinario” da metterlo nella playlist. I Second Moon Of Winter hanno colmato quest’assenza.
Il loro disco si basa sull’accoppiata tra voce usata in chiave apertamente melodica e basi strumentali “astratte”, assimilabili alla drone-music (anche se non di rado rinunciano ai classici drones).
Non mi sembra una idea inedita; è la stessa che, l’anno scorso, aveva tentato Scott Walker con i Sunn O))). Ma non ho ricordo di altri dischi dove questa idea sia stata sviluppata così bene.
La voce ha un’estrazione da cantante lirica molto caratterizzante. Le basi hanno una dinamica e una policromia molto superiori a quelle approntate dai Sunn O))) per Walker. Il risultato è un disco di rara forza evocativa, il cui ascolto è avvincente dall’inizio alla fine, come raramente mi capita di trovare in ambito drones e dintorni.
Ho trovato molto interessante il frequente utilizzo, con funzione di drones, di strutture e sonorità (spesso derivate dalla classica contemporanea, con ampio uso di strumenti a fiato, come nel brano “Two magpies” di cui accludo il link) che non hanno niente a che vedere con quelle tipiche della drone music.
Valerio D’Onofrio: Chiudiamo con “To Those Of Earth And Other Worlds”, doppio antologico di Sun Ra pubblicato quest’anno ma che contiene materiale precedente. Sun Ra non ha bisogno di presentazioni….
Vittorio Nistri: Ci tenevo ad inserire nella mia playlist un disco di new jazz. L’anno scorso, il mio album preferito in assoluto (“Enter” della Fire Orchestra) era stato attinto proprio da quel bacino; e, se non ci fossero stata la Fire Orchestra, almeno altri due ottimi album della scena jazzistica svedese (Angles 9, Wildbirds & Peacedrums) avrebbero potuto ben figurare nella playlist.
Quest’anno non ho trovato vette del genere, anche se ovviamente non sono mancati buoni dischi (come Dave Liebman – “Ceremony”, o The Thing – “Shake”). E il disco “new jazz” più celebrato dell’anno – il triplo mammuth “The Epic” di Kamasi Washington – a me è sembrato per niente “new”, nonché non esente da scivoloni retorici (…..certi abusi di archi e cori).
Mi è venuto allora in mente di mettere nella mia lista di suggerimenti 2015 “To Those Of Earth And Other Worlds”, doppio antologico di Sun Ra (uno dei musicisti che amo di più in assoluto) pubblicato nel 2015 dalla Strut Records.
Ovviamente, essendosi Sun Ra trasferito definitivamente nello Spazio Esterno nel 1993, l’album non può contenere materiale del 2015…. però è comunque un qualcosa dell’anno 2015.
Non si tratta infatti della solita compilation, ma di un brillante lavoro di cut-up ad opera di Gilles Peterson (DJ e produttore inglese che ha legato il suo nome ad artisti come Roni Size, o, in tempi recenti, Ghostpoet e Four Tet). Peterson ha assemblato oltre 30 frammenti, estrapolati da altrettanti album della sterminata discografia di Sun Ra (con l’aggiunta di qualche inedito pescato da rare registrazioni live), e li ha assemblati in un flusso continuo, dove ogni brano sfocia in un altro. In pratica, ha realizzato un patchwork alla “Faust Tapes”. Un puzzle che non tradisce lo spirito di Sun Ra, bensì ne esalta la creatività debordante e la contemporaneità. Questa è “musica nuova” oggi come trent’anni fa o tra trent’anni.
Qua non allego link. Avrebbe poco senso estrapolare un singolo brano. Come per “Faust Tapes”, è il puzzle nel suo complesso che definisce il senso dell’opera, e non i singoli tasselli presi individualmente.