
Van Der Graaf Generator | Pawn Hearts (1971)
Difficile da assimilare in un solo, unico ascolto, Pawn Hearts vuole il suo tempo per conquistare, bisogna ascoltarlo più e più volte, dedicargli passione amorevole, ascoltarne la lirica con la mente libera
I Van Der Graaf Generator registreranno il loro quarto album, Pawn Hearts, nell’estate del 1971 al Trident Studios di Londra per la Charisma Records. Nell’ottobre di quello stesso anno, con il vinile fresco in mano, ci si rese subito conto di avere a che fare con un capolavoro, crepuscolare ed intenso, con liriche di grande suggestione e atmosfere notturne e oleose. La line up è quella classica con Peter Hammill, voce, chitarra acustica e slide, pianoforte elettrico, pianoforte; Hugh Banton, organo Hammond e Farfisa, pianoforte, Mellotron, sintetizzatore ARP, basso, voce; Guy Evans, batteria, timpani, percussioni, pianoforte; David Jackson, sassofono tenore, contralto e soprano, flauto, voce di supporto. Progetto ambizioso, al principio fu concepito come un album doppio ma dovette subire un drastico ridimensionamento, forse a causa degli alti costi di produzione di quell’epoca e dei due dischi ne verrà pubblicato uno solo, il primo; per fortuna, di quel lavoro originale rimane una testimonianza nella ristampa rimasterizzata nel 2005 che contiene cinque bonus tracks variamente attribuibili a quel periodo, insieme con Theme One di George Martin, presente sul vinile per l’edizione canadese e americana.
Che ci fosse in ballo un capolavoro dovette accorgersene anche Robert Fripp che decise di partecipare come ospite in due dei brani del disco: in Man-Erg (5:55-7:10) e in A Plague of Lighthouse Keepers (8:10-10:20 e verso la fine della canzone), ed infatti Pawn Hearts è senza dubbio da considerare uno dei vertici del progressive inglese, ne costituisce, se vogliamo, la parte dark con quel pessimismo cosmico espresso nei testi di Hammill, con lo scavare profondamente nell’intimo dell’animo umano a trovarne le oscure radici ancestrali ed esistenziali e con la complessa architettura dei tre lunghi brani che li abbraccia trasversalmente con un rimando di echi e riverberi che scuotono l’ascoltatore, lo inducono a lunghe riflessioni interiori, talvolta su ritmi dolcissimi, psichedelici e profondamente malinconici, o altrimenti sui fulmini emotivi di una musica arcigna, aspra, in cui il poeta Hammill racconta la sua dolorosa disillusione cantandola egli stesso con la voce di un angelo caduto.
Difficile da assimilare in un solo, unico ascolto, Pawn Hearts vuole il suo tempo per conquistare, bisogna ascoltarlo più e più volte, dedicargli passione amorevole, ascoltarne la lirica con la mente libera, insomma credere a quei musicisti come loro hanno creduto, in quel momento, alla loro forza creativa, alla bellezza delle loro armonie, alla forza delle loro voci: “Sto ancora aspettando il mio salvatore, le tempeste fanno a pezzi i miei arti… Sono un uomo solitario, la mia solitudine è reale, i miei occhi hanno prodotto una nuda testimonianza e ora le mie notti sono contate…” come si fa a rimanere indifferenti di fronte a questa invocazione, dove trovarne una più asciutta e virile..!! Da queste prime riflessioni, s’intuisce che questo lavoro dei Van Der Graaf Generator, ma in generale anche il loro stile per intero, si discosta notevolmente da quanto veniva espresso proprio in quel periodo da altri gruppi progressive, a volte più attenti al virtuosismo formale che ai contenuti; troveremo, invece, molto spesso, nelle liriche e nella musica dei Van Der Graaf Generator, l’esteriorizzazione e la simbolizzazione di conflitti interiori nonchè le tracce di una profonda ricerca filosofica.
Pawn Hearts riscuoterà un grande successo nel nostro Paese e rimase per 3 mesi nelle top ten; lo presenteranno a Milano al teatro Massimo con grande gioia dei numerosissimi fans italiani e dopo la conclusione del tour, Hammill lascerà il gruppo per cominciare una carriera solista. La copertina surrealista dell’album è del designer Paul Whitehead che ritrae i componenti della band in quella che sembra essere una scacchiera psichedelica; non mancò di sollevare polemiche l’immagine interna dove Hammill e compagni si scambiano il saluto romano, sebbene il leader abbia sempre affermato che fosse la citazione di una statua che gli aveva fatto venire i brividi. La storia dei Van Der Graaf Generator continuerà in altre occasioni in cui si riuniranno e comporranno altri ottimi lavori, ma non riusciranno più a raggiungere la vetta creativa costituita da Pawn Hearts.
Ascoltando l’album per la prima volta, sorprende la voce di Hammill, espressiva ed insieme evocativa, che bene si adatta al crescendo emotivo che si sviluppa nelle tre suite che compongono il disco; ci cattura il grande virtuosismo che esprime Dave Jackson con i suoi sassofoni, le tastiere dark di Hugh Banton (c’è anche un pezzo d’Italia con la Farfisa) che ci portano spesso in cripte remote; e naturalmente la ritmica travolgente di Guy Evans e non possiamo dimenticare l’”ospite” Robert Fripp e la sua chitarra elettrica..!!
Lemmings (including Cog): sono piccoli roditori che secondo le leggende nordiche si suicidano in massa gettandosi in mare, e qui s’intende come metafora del genere umano votato all’autodistruzione e nelle mani di Hammill la tragedia si sviluppa con toni tetri e autodistruttivi con un intreccio perfetto tra l’organo cinereo di Hugh Banton, i virtuosismi funambolici dei sax di David Jackson, e la ritmica solforosa di Guy Evans. Interessanti le sequenze di Mellotron e sintetizzatore ARP. Un cupo soffio di vento elettronico introduce il brano che dopo un breve arpeggio di chitarra prende quota in un cantato delicato ed espressivo; si prosegue con un “riff” magistrale ordito da sax e organo sostenuto da un basso rombante su cui Hammill offre una magnifica interpretazione vocale. Parti improvvisate si alternano a riff veloci, silenzi trascorrono in schegge psichedeliche rupestri, ricchi virtuosismi si trasformano in asciutte certezze dove la voce si esibisce accorata… nel finale il ride di Evans si aggira tra le alghe di un mondo improvvisamente marino.
And I too, live inside me and very often
don’t know who I am:
I know I’m not a hero, well,
I hope that I’m not damned.
I’m just a man, and killers, angels,
all are these:
Dictators, saviours, refugees in war and peace
as long as Man lives…
I’m just a man, and killers, angels,
all are these:
Dictators, saviours, refugees…
Man-ERG: spettri marciano nell’animo umano e Hammill cerca di separare fin dove è possibile ciò che è bene dal suo opposto, creando lo spazio scenico di uno scontro lirico di vasta portata fino all’epilogo, alla conquista di una faticosa convivenza tra gli estremi entro la quale dipanare la vita. La poesia scava l’inconscio e l’artista trova la forza per una splendida voce ora tristemente dolce e accorata ora aspra e stridente; intro di pianoforte intensa e romantica, una delle migliori di sempre, si scioglie dopo un breve intermezzo violento e lacerante in una nuova melodia che ci riporterà, secondo uno schema ad anello, al tema principale, arricchito di nuova enfasi e rimodulato da una voce, ormai disincarnata, accompagnata da un coro algido e soffuso. Il sassofono si occuperà della conclusione, lacerando l’ultimo velo. Interpretazione magistrale dei musicisti per quello che diventerà uno dei cavalli di battaglia per le loro esibizioni dal vivo; di grandissima levatura la chitarra di Robert Fripp, ospite senz’altro gradito.
Still waiting for my saviour,
storms tear me limb from limb;
my fingers feel like seaweed…
I’m so far out I’m too far in.
I am a lonely man
my solitude is true
my eyes have borne stark witness
and now my nights are numbered, too.
I’ve seen the smiles on dead hands
the stars shine, but they’re not for me.
A Plague of Lighthouse Keepers: una suite di ventitre minuti suddivisa in dieci parti, in essa trovano posto molti degli stilemi del progressive rock, da lunghe sezioni sperimentali, ad importanti momenti psichedelici, influenze classiche e improvvisazioni e sopra di tutto svetta il pathos della voce di Hammill, in alcuni casi reincisa su sè stessa per accentuare la valenza emotiva dei testi che affrontano i temi secolari dell’umanità, dell’esistenza, della solitudine e della disperazione, della divinità. Il poeta-musicista sa come tenere a freno gli eccessi e rimane del tutto consapevole anche quando si avvicina pericolosamente al ringhio o alla bestemmia; l’ottima dizione riesce a rendere la narrazione nitida ed il fraseggio segue con facilità il significato segreto della frase poetica. Robert Fripp, anche in questa circostanza, contribuisce in maniera importante allo sviluppo di alcune parti della suite con il fraseggio inconfondibile della sua chitarra elettrica, e la percezione della profonda comunione che lega tutti i musicisti, ciascuno nella propria parte al meglio, rende ancora più grande il piacere dell’ascolto.
Nella versione americana e canadese di Pawn Hearts, come si è detto, esiste una traccia in più, Theme One, scritta originariamente da George Martin: un unico riff ruotato nello spazio acustico a mostrare i suoi lati differenti e per ogni passaggio uno strumento in più, con una ritmica dirompente; composizione armonicamente ricca è uno dei brani più conosciuti della band.