
Tuxedomoon | Desire (1981)
Il secondo album dei Tuxedomoon, una distopica new-wave intrisa di ritmi tribali, teatro dell'assurdo, musica concreta e danze robotiche.
Dopo l’ottimo esordio di Half-Mute, i Tuxedomoon ci riprovano con Desire, portando a compimento quel percorso d’acculturazione della new-wave iniziato un anno prima. Ritenendo ormai sterile l’ambiente politico e sociale della California degli anni Ottanta, la band decide quindi di girovagare per l’Europa in cerca della scintilla d’ispirazione per registrare il secondo album in uno studio fuori Londra. Una scelta che appare quasi spontanea, dato che i californiani trovano da subito nel vecchio continente quei riconoscimenti che non otterranno mai nella loro patria. I Tuxedomoon finiscono così per ripiantare le loro radici in Belgio, un Paese dal clima più favorevole allo sviluppo delle loro idee, con una lunga tradizione musicale legata sì all’influenza americana grazie ai vari festival internazionali, ma scosso oltremodo dalle avanguardie più propriamente mitteleuropee (Karlheinz Stockhausen, Edgar Varèse), oltre che da una storia artistica secolare, ben incarnata, per esempio, da quell’Espressionismo facente capo al “pittore delle maschere” James Ensor, forse colui che meglio avrebbe messo su tavola i balletti decadenti e post-moderni di quest’originalissima band californiana.

Tuxedomoon
Tutto nel Belgio pare quindi contribuire a plasmare quell’ecosistema che la band sta ardentemente cercando, gli stimoli giusti per riuscire a trasportare in musica lo smarrimento dell’uomo moderno, l’ansiosa ricerca del vero e del diverso, l’alienazione dell’era post-fordista, partendo nel farlo da una glaciale dark-wave e passando poi nel tritacarne la patafisica dei Soft Machine, l’avanguardia di Edgar Varèse già filtrata da Frank Zappa, e perfino i deliri più attuali dei Pere Ubu e certi schematismi dei primi decadenti Roxy Music. Così, in questo secondo Desire i Tuxedomoon, formati da polistrumentisti di varia estrazione – Steve Brown, Winston Tong, Peter Principle e Blaine Reninger – raffinano la ricetta del disco d’esordio, consistente in una formula alchemica il cui risultato è un esplosivo cabaret post-punk decisamente all’avanguardia. Questo ampio arco di influenze rende il suono della band impossibile da catalogare: tutte le tracce sono infatti immerse in un fluido gotico e crepuscolare, riscaldato dall’austerità della vecchia musica da camera, dalle prioprietá catartiche dell’elettronica new-wave e da certi stratagemmi del Teatro dell’Assurdo. Si tratta, senza dubbio, di un nuovo linguaggio per la musica, tutt’altro che passatista, capace di travasare sagacemente le idee compositive dei Residents all’interno del vasto fermento post-punk degli anni Ottanta.
Le prime quattro tracce East / Jinx / … / Music #1 suonano come un lungo ed esoterico continuum, passando da tribalismi orientali, sinfonie da camera, valzer elettronici, fino alla musica concreta dell’ultima sezione. Sono soprattutto il violino lamentoso di Blaine Reininger ed il sax stralunato di Steve Brown i protagonisti indiscussi di questo appassionato psicodramma musicale, sempre bipolarmente in bilico tra estasi e terrore, incantesimi divini e maledizioni pagane, ritmi gitani e stridori urbani.
Alla sfortunata dea Cassandra è poi dedicata la malvagia litania di Victims of the Dance sotto l’evidente influsso sonoro dei Wall of Voodoo di Stan Ridgway, mentre il robotico synth-rock di Incubus (Blue Suit), nel mezzo di citazioni del compositore Jean Michel Jarre, sembra quasi la colonna sonora meta-musicale di un film noir, un incubo che suona esattamente come indicato dalle parole del testo: “l’odore di metallo fuso permea la scena, la musica suona in sale vuote“.
In un poliritmico delirio, Desire è poi fondamentalmente un esorcismo polifonico contro la società dei consumi, con un ipnotico coro che perfora la mente nell’allitterazione di un “Don’t think, go buy” (“non pensare, compra”) che pare lo slogan universale di qualsiasi lobotomizzante campagna pubblicitaria.
Again cambia poi ancora ricetta, in un collage di “jazz sintetizzato” dietro al cui tetro camouflage si nasconde la voce da crooner di Winston Tong, intento a dar luogo ad una grottesca pantomima ontologica.
In the Name of Talent (Italian Western Two) e Holiday for Plywood (Holiday for Strings) chiudono infine le danze, facendo collidere lo spirito apollineo con quello dionisiaco in due composizioni per certi versi molto simili e cinematografiche, ancora una volta dominate dal disturbo borderline del sax di Brown e da uno onirico sfondo di drum-machine che a tratti si fa perfino distopico.
Con Desire i Tuxedomoon hanno dimostrato di avere tutte le carte in regola, costruendo un album molto intelligente e teatrale, anche se difficile da descrivere e neanche così facile da ascoltare: certamente, si tratta di un buon secondo disco, che tuttavia non può non patire nel giudizio il paragone con il precedente capolavoro Half-Mute.