
Traffic | John Barleycorn Must Die (1970)
Una gran bella band i Traffic, nata nel 1967 in Inghilterra intorno allo straordinario polistrumentista Steve Winwood, che aveva già scritto pagine musicali fondamentali insieme con lo Spencer Davis Group.
Una gran bella band i Traffic, nata nel 1967 in Inghilterra intorno allo straordinario polistrumentista Steve Winwood, che aveva già scritto pagine musicali fondamentali insieme con lo Spencer Davis Group. In America si andava sempre più affermando il rock (Velvet Underground, Jefferson Airplane etc.) ed anche oltremanica si abbandonava sempre di più il blues per fare spazio ai nuovi stilemi che venivano dal nuovo mondo. Steve Winwood insieme con i Traffic creò tuttavia uno stile unico capace di mescolare quelle novità in una miscela forte di soul, progressive e jazz, una sorta di progressive multistrumentale e polifonico.
L’atmosfera dei loro album varia di volta in volta ma i contenuti etici sono quelli comuni di quel periodo storico post-hippie: l’amore resta al centro della nuova utopia ma è più intimista e sofferto, vissuto in un individualismo lucido e consapevole. Steve Winwood venne affiancato nella line up storica della band da Chris Wood, flauto e sassofono e da Jim Capaldi, batteria e voce ma molti altri musicisti di grande talento si aggiunsero in altre occasioni tra cui Dave Mason, alla chitarra, Ric Grech al basso e Jim Gordon come secondo batterista. La storia dei Traffic è comunque una storia costellata di separazioni e riunioni ad indicare il carattere volubile del loro leader: a cavallo tra gli anni sessanta e i settanta in un momento di debacle del gruppo Winwood metterà insieme un prestigiosissimo supergruppo, i Blind Faith, con Eric Clapton e Ginger Baker (ex-Cream) e Ric Grech (ex-Family) che inciderà un unico, storico disco intitolato con il loro nome.
I Traffic si scioglieranno nel 1975 e l’anno successivo Winwood parteciperà ad un altro supergruppo questa volta “assemblato” dal gigantesco ed incredibile Stomu Yamashta, i Go, insieme a Klaus Schulze, sintetizzatore, Al Di Meola, chitarra e Michael Shrieve, batteria. Nel 2004, i Traffic saranno inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame ma la morte di Jim Capaldi, nel gennaio 2005, renderà impossibili tutti i progetti di una reunion con il marchio Traffic. Nel novembre dello stesso anno verrà pubblicato il doppio live Last Great Traffic Jam con brani dal tour del 1994. Winwood è ancora in attività come solista, anzi alcuni concerti lo vedranno impegnato nel 2013 tra Londra, Cambridge e Manchester in cui, riproporrà come sempre i brani più noti del suo repertorio dei suoi anni d’oro.
John Barleycorn Must Die: quarto album del gruppo è datato 1970 e deve il suo nome al protagonista di un’antica tradizione popolare inglese e americana secondo cui è colui che incarna lo spirito del grano, che ha il potere di trasformarsi in alcool. Un ometto dappoco, ma capace di diventare il più forte degli uomini e, fuori di metafora, il mito ci vuole mettere in guardia dalle tentazioni dell’alcool (John Barleycorn è per antonomasia il nomignolo dato al whisky). La sua morte, descritta nel testo della titletrack, è necessaria (“Must Die”) ad ogni fine raccolto di grano, come narra la tradizione contadina inglese, perchè così possa poi di nuovo germinare e permettere il raccolto dell’anno successivo. Questa storia antica deve aver suggestionato parecchio il gruppo che le dedica una delle più belle ballate acustiche di sempre, con un elegante intreccio di chitarre, con un flauto narrante intenso e favolistico e con un’atmosfera a tratti crepuscolare. Domina Steve Winwood con un canto sommesso ed ispirato.
La prima traccia del disco Glad è un brano strumentale eseguito tutto d’uno fiato senza cedimenti attorno ad una semplice melodia eseguita al piano su cui via via s’intrecciano gli altri strumenti che si fanno forza a vicenda fino ad un assolo di sax dal sapore psichedelico che riempie la scena. Poi si torna al tema con inserti jazz, funky, r&b insomma il famoso suono-Traffic caratterizzato anche dalla ritmica robusta e dagli intarsi pregiati di organo.
Freedom rider: l’aurea voce “black” di Winwood qui si raccoglie drammatica e sofferente dopo un’apertura di piano grave e malinconica che prepara un assolo di flauto ben sostenuto e accompagnato dalla ritmica, con quei vezzi barocchi che qualche volta tornano nelle composizioni dei Traffic. Finale granitico con gli strumenti in perfetta armonia.
Empty pages: inizio ricco d’enfasi, speziato con aromi soul così adatti alla voce di Winwood; stacchi ritmici ora duri e determinati ora fluidi; grande show delle tastiere con un ghiotto assolo jazz-blues del piano elettrico ed un organo, per nulla invadente, ma assolutamente essenziale alla compattezza del sound complessivo. Winwood ci accompagna entusiasta ad un finale vitale e gioioso.
Stranger to himself: apertura con un arpeggio acre e spigoloso di chitarra e atmosfere jazz americane, il brano si trasforma in qualcosa di molto più inglese, un certo blues elettrico asciutto e senza enfasi.
Every mother’s son: finale di gran classe con un blues sofferto e crepuscolare in cui Winwood si addentra sensibile; la chitarra si contrappone, a tratti, alla voce, prolungandone in alcuni momenti l’appoggio per enfatizzarne l’emozione, mentre l’organo fornisce a queste alternanze un ricco tessuto sonoro. La ritmica segue attentissima modulando le fasi che fluiscono via via nel racconto emotivo. La band conclude senza esitazioni questo percorso sofferto e ne esce in uno stato di grazia.
I Traffic hanno lasciato una traccia importante nella musica di oggi, con quel sapere essere leggeri sempre e comunque, con quella serenità “forte” o forza “tranquilla”, se si preferisce, che li ha distinti in tutti i loro lavori e che ancora oggi Steve Winwood riesce a comunicare.