
The Nice | Ars Longa Vita Brevis (1968)
La psichedelia rude del disco di esordio viene gradualmente mutata in un elegante rock sinfonico, sotto l'egida di uno dei migliori tastieristi della storia del rock.
Un anno dopo il loro esordio con The Thoughts of Emerlist Devjack, la partenza di David O’List durante le registrazioni di Ars Longa Vita Brevis cambiò drasticamente il suono dei Nice, lasciando Keith Emerson senza nessuno con cui dialogare in musica, fino ad egemonizzare molte delle tracce del secondo disco. Anche se la band inizialmente intendeva reclutare un chitarrista sostitutivo (chiamando a tal fine il futuro Yes Steve Howe), i Nice decisero in seguito di continuare la propria carriera come trio: una scelta che fomentò indubbiamente la leadership di Keith Emerson, la cui ambizione classica scardinò i già barcollanti equilibri psichedelici del gruppo.
Con una curiosa copertina ai raggi X ed un titolo che riprende l’aforisma di Ippocrate eletto a slogan nella scuola d’arte di Lee Jackson, Ars Longa Vita Brevis uscì nei negozi nel novembre del 1968, confezionando su supporto vinilico gli ingredienti più graditi dalla pleatea inglese: pop sinfonico, musica classica e aspra psichedelia.

The Nice
L’album si apre con una trilogia di canzoni psichedeliche quasi “usa e getta” che, pur moderatamente divertenti, non possono considerarsi sintomatiche della caratura dei Nice. Si comincia con la psichedelia pungente di Daddy Where Did I Come From?, con il lavoro delle tastiere che tiene a malapena insieme questo pezzo, disturbato anche dalla folle narrazione condivisa di Jackson e Emerson che danno una lezione, un po’ insolita, di educazione sessuale.
Diversa nel suo stato generale, l’ibrida malinconia di Little Arabella comprende alcune sfumature classiche nelle interazioni tra organo e pianoforte sotto il regime del boogie-jazz, corredato da una bizzarra fanfara nel mezzo, dalle insolite percussioni di Davison e dalla piacevole voce di Emerson.
L’acida Happy Freuds è poi un omaggio non troppo lusinghiero al padre della psichiatria, proprio in un periodo in cui l’ossessione per le sue teorie era in una fase dilagante. L’uso di vocalizzazioni divertenti e di orecchiabili ritmi R&B si adatta correttamente agli standard del rock psichedelico britannico, geneticamente modificato dalle tastiere onnipresenti di Emerson.
Tuttavia, è solo quando si arriva all’interpretazione di un componimento classico che ha modo di emergere il vero talento di Keith Emerson: Intermezzo from the Karelia Suite offre una resa ludica dell’originale di Sibelius, aggirandosi pericolosamente sul crinale tra un disordinato jazz ed il rock sinfonico, variando la sostanza dell’originale ma non la forma, anche grazie a Jackson che decide di suonare il suo basso con l’archetto, enfatizzando il sapore classico del brano. Una grande miscela di aggressività scenica, infezioni classiche e vibrazioni rock prefigura in molti modi la direzione che Emerson avrebbe seguito (con maggiore efficacia) con Greg Lake e Carl Palmer.
Dopo i pochi secondi di Don Edito El Gruva dedicati all’ingegnere del suono Don Brewer, arriva finalmente il momento dell’opus magnum Ars Vita Longa Brevis, una suite sinfonica in sei parti e quasi venti minuti piuttosto irregolari, che merita attenzione se non altro per l’ambizione palesata da Keith Emerson con l’aggiunta dell’orchestra.
Dopo il segmento eccentricamente classico di Prelude e gli assoli di batteria di Brian Davison in 1st Movement: Awakenings, nel movimento successivo 2nd Movement: Realisation spicca la jam psichedelico-progressiva che vede un ispirato Keith Emerson al pianoforte. E se nell’allegro orchestrale di 3rd Movement: Acceptance “Brandenburger” vengono scomodati perfino i Concerti Brandeburghesi di Johann Sebastian Bach, in 4th Movement: Denial a farla da padrone è un blues-rock camuffato dall’organo, con la voce di Lee Jackson che arriva solo verso la fine, riprendendo quell’entusiasmo iniziato (e poi abortito) nel secondo movimento, ma ricostruito in base alle direttive dell’organo, con molta più enfasi sugli elementi rock che sui fattori jazz. Infine, troviamo la conclusiva Coda-Extension To The Big Note che sigilla la suite e l’omonimo album con uno stato d’animo alquanto pletorico.
Ars Longa Vita Brevis non è il miglior disco dei Nice, ma è indubbiamente il più sintomatico del passaggio tra la stravagante psichedelia di The Thoughts of Emerlist Devjack ed il progressive ispirato di The Nice. Un grande miglioramento rispetto al disco di esordio concerne sicuramente la qualità della registrazione: senza il suono fangoso del debutto, ogni strumento viene qui chiaramente percepito. Tuttavia, Ars Longa Vita Brevis appare imperfetto per due motivi principali: in primis, il gotha delle tastiere Keith Emerson era troppo talentuoso ed ambizioso rispetto ai suoi compagni (soprattutto al cantante Lee Jackson), dando la sensazione che ci sia del potenziale irrealizzato nella musica dei Nice. In secondo luogo, la band inzuppó il loro suono in troppi generi diversi, non focalizzandosi mai su un unico stile all’interno di un disco: una diversa combinazione di melodie psichedeliche più brevi, lunghi brani rock-sinfonici e suite classiche-orchestrali, oltre che una mancanza di vera abilità compositiva collettiva, ha fatto sì che i Nice non emergessero mai rispetto ad altri giganti del progressive inglese. Emerson sapeva perfettamente che “la vita è breve e l’arte dura nel tempo” (come recita, parafrasato, il titolo di questo disco) ed infatti deciderá di conquistarsi da solo un posto d’onore nell’immortalità dell’arte con il super-trio formato con Lake e Palmer, ma questa è un’altra – splendida! – pagina della storia del progressive rock.