
Devil's Anvil, The | Hard Rock From The Middle East (1967)
La psichedelia americana e quell'Oriente mai più così vicino
Se vi siete chiesti quali cambiamenti culturali siano intervenuti tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 suscettibili di spiegare il declino della psichedelia, eccone uno di cui non mi pare si sia discusso abbastanza: l’esplosione del conflitto arabo-israeliano, ovvero la nuova idea del Vicino Oriente nell’immaginario americano che ne scaturì. Parleremo, per cominciare, di The Devil’s Anvil (L’Incudine del Diavolo) una band nata nel mitico Greenwich Village di New York attorno al 1966, in tempi di straordinaria vivacità e apertura culturale. I 3/5 della band erano arabi e forse turchi (non si sa se nati in America). Jerry Satpir, Kareem Issaq, Eliezer Adoram, erano di certo abili polistrumentisti presumibilmente conoscitori della musica tradizionale araba, ma anche turca e greca, già attivi nel Village quando vi si aggiunsero Felix Pappalardi e Steve Knight. Pappalardi è famoso per essere stato produttore e autore dei Cream nella loro fase più psichedelica oltre che fondatore e bassista dei Mountain (di cui Knight fu il tastierista) ma la sua impronta si avverte anche nel sorprendente unico album dei The Devil’s Anvil, “Hard Rock From The Middle East”, uscito nel 1967. Ciò che prima di tutto colpisce in questo disco è la varietà di lingue in cui è cantato: l’unico brano in inglese è in realtà la traduzione di una canzone popolare greca cantata da Pappalardi (“Misirlou”); il resto è cantato in arabo con l’eccezione di 2 (“Shisheller” in turco e “Kley” in greco). Tra i brani arabi, i tradizionali si alternano a quelli inediti (interessante la versione del tradizionale “Karkadon”). Il sound è compatto e stilisticamente ben definito, malgrado la diversità di influenze che vi hanno lasciato traccia, innestate su una base di beat maturo e già aperto alla psichedelia (quello dei Beatles post-1966 e dei Byrds), fondamentalmente la stessa di “Side Trips” dei Kaleidoscope (1967). Al di là della loro raffinata psichedelia e di una vena sperimentale mai troppo spiccata, in verità, il principale attestato di partecipazione del quintetto al periodo aureo della controcultura psichedelica, consiste nell’averne espresso a livelli musicalmente significativi la curiosità per il diverso, per un Oriente irriducibile al cliché sempre più scontato di sitar, santoni, oppio e patchouly, l’orizzonte sconfinato di una controcultura che intuiva la necessità della multicultura, le potenzialità rivoluzionarie della contaminazione musicale e linguistica. Ora, tra le poche cose che troverete scritte nel Web su questa bella pagina di psichedelia dimenticata, spicca quella che vorrebbe essere la spiegazione di tale oblio e cioè la sfortunata coincidenza tra l’uscita dell’album e la “Guerra dei sei giorni” (giugno 1967). Nell’immediato, si può facilmente intuire che il mutato clima politico internazionale abbia ostacolato la promozione commerciale di un album cantato prevalentemente in arabo da arabi. Le radio americane, di fatto, lo boicottarono e la stessa casa discografica Columbia non mosse un dito. “Hard Rock From The Middle East” passò praticamente sotto silenzio. Difficile dire come avrebbe potuto evolversi il progetto musicale dei Devil’s Anvil. Più importante, però, è che con le vicissitudini discografiche dei Devil’s Anvil la controcultura psichedelica all’apice abbia manifestato un limite fondamentale, che consisteva nella propria stessa matrice pop. Il rapporto col mercato discografico, che già tendeva a diventare dipendenza, la difficoltà a emanciparsi dai cliché che l’establishment imponeva proprio attraverso il sistema di promozione e l’industria discografica, sono solo gli aspetti più macroscopici del fenomeno. The Devil’s Anvil si ritrovarono inconsapevolmente al di là di un confine politico e culturale, che solo allora stava cominciando a chiudersi. Mentre, insomma, la sperimentazione musicale in quanto tale poteva teoricamente non avere limiti, la contaminazione culturale vide imporsi abbastanza presto dei seri limiti di opportunità politica e commerciale. La psichedelia stava, evidentemente, già procedendo verso un’autolimitazione allo sperimentalismo e all’intellettualismo fini a sé stessi, non di rado stereotipati (art pour l’art, come dire expérimentation pur l’expérimentation). Un processo, questo, la cui faccia politica fu rappresentata dalla degradazione retorica del linguaggio controculturale. Ben oltre i loro effettivi meriti artistici (che pure non sono trascurabili), The Devil’s Anvil pagarono il fatto di essere troppo più avanti di quanto l’establishment ma anche la parte più avanzata della società americana fossero disposti ad andare…