
The Beach Boys | Pet Sounds (1966)
Il genio e la follia di Brian Wilson nel capolavoro "caprino" dei suoi Beach Boys
Quando nel 1966 uscì Pet Sounds, i giovanissimi Beach Boys si trovavano nel mezzo di un clamoroso successo planetario e, proprio per questo, nessuno si sarebbe aspettato una variazione così radicale della formula vincente. La storia di questo capolavoro ebbe inizio nell’inverno del 1965 con l’attacco di panico in aereo di Brian Wilson che, stressato dai logoranti tour, decise di tornare in California, concentrando tutta la sua attenzione sulla scrittura e sulla registrazione di un nuovo disco: così, mentre i suoi compagni facevano la spola tra i palchi dell’Estremo Oriente, il piú vecchio dei tre fratelli Wilson aveva reclutato l’acclamato paroliere Tony Asher per aiutarlo a completare “il più grande album mai realizzato“. Questo inedito duo si rimboccó le maniche per alcuni mesi, scrivendo a quattro mani alcune delle più belle canzoni di tutto il catalogo dei Beach Boys, canzoni che però erano ben lungi dallo schema consolidato della surf-hit californiana, disegnato su un piano cartesiano di automobili lussuose, belle ragazze e spiagge assolate. Per avvalorare il loro ambizioso piano, Brian e Tony arruolarono, infine, oltre cinquanta musicisti nelle diverse sessioni di registrazione, includendo strumenti provenienti da tutto l’universo musicale: con questi ingredienti e nuovi sapori, al riparo dalle umide onde del surf-rock, anche se questo Pet Sounds sarebbe stato un fallimento commerciale rispetto al fenomenale successo degli anni precedenti, ci avrebbero poi pensato i posteri a consacrarlo come uno dei migliori dischi di tutta la storia.

The Beach Boys
Pet Sounds è l’undicesimo album dei Beach Boys, rilasciato nel 1966 dalla Capital, in mono e non in stereo perchè Brian Wilson, alla ricerca della perfezione sinfonica ma sordo dall’orecchio destro sin dall’infanzia, non poteva apprezzare la stereofonia. Fuori dall’humus del surf-rock, gran parte del disco è stato composto con la partecipazione dei The Wrecking Crew, i più grandi “session-men” del periodo, sotto l’assolutismo melodico di Brian Wilson, responsabile anche della produzione. Quando la band ritornò dal tour, trovò di fatto un album quasi completo, che richiedeva soltanto le loro voci per essere confezionato e distribuito nei negozi: proprio questo fatto causò una serie di attriti all’interno del gruppo, in particolare Mike Love – autore di molti testi della band nei loro primi anni – non era entusiasta della nuova proposta, arrivando a schernire il progetto come “la musica dell’ego di Brian“, mentre gli altri membri erano invece piú preoccupati di perdere il loro pubblico, abdicando ad una struttura ritmica rinsaldata con successo nel corso degli anni.
In questo animalesco Pet Sounds sono rinchiuse tredici “belanti” canzoni che parlano di amore, gioventú, solitudine e rimpianti: è tuttavia interessante notare come ciò che contraddistingue Pet Sounds da qualsiasi altro album che l’ha preceduto non sono i suoi testi quanto, piuttosto, la sua elaborata produzione. Dal punto di vista sonoro, per erigere il suo “Wall of Sound” Brian Wilson prese infatti ispirazione dal produttore Phil Spector, che gli aveva insegnato come “due strumenti combinati insieme danno un terzo suono nuovo“, ma il giovane Beach Boy non voleva semplicemente emulare il suo mentore, ma trovare una sua peculiare e distinta musicalità: gli strumenti del rock più tradizionali – come la chitarra ed il basso – vennero quindi raddoppiati e miscelati con effetti eco, mentre spicca l’uso del theremin per la prima volta nella storia del rock. Brian decise inoltre di utilizzare anche oggetti non convenzionali, come campanelli delle biciclette, lattine percosse, fischi di treni e cani che abbaiano, ibridandoli ai classici strumenti di accompagnamento: il risultato è stato un vero e proprio testamento musicale del genio di Brian Wilson come scrittore, compositore e produttore. Infine, bisogna sottolineare come il vero catalizzatore di Pet Sounds fu senza dubbio l’album dei Beatles Rubber Soul (dicembre 1965), un’opera scossa da una inconsueta unità stilistica e qualitativa che fece entusiasmare ed ossessionare lo stesso Brian, a differenza della prassi in voga all’epoca (e tutt’oggi) di rilasciare dischi con pochi successi commerciali e molti pezzi riempitivi.

Brian Wilson
Per quanto concerne il titolo, ci sono molte teorie che circolano circa la sua etimologia: nella sua autobiografia Brian Wilson asserisce che questi fu ispirato dai commenti negativi fatti da Mike Love al materiale dopo una seduta di registrazione particolarmente litigiosa; secondo Wilson, Love avrebbe affermato: “Who’s gonna hear this shit? The ears of a dog?” (“Chi ascolterà questa merda? Le orecchie di un cane?”). Un’altra posizione sostiene, invece, che il titolo sia una sorta di “omaggio” criptato al produttore Phil Spector, poiché le parole “Pet” e “Sounds” portano le sue medesime iniziali. Il mistero continuò poi ad infittirsi con l’aggiunta della versione di Mike Love circa la genesi della sigla: “Eravamo in piedi nel corridoio di uno degli studi di registrazione, il Western o il Columbia, e non avevamo ancora un titolo per l’album. Avevamo fatto delle foto allo zoo e c’erano dei versi di animali sul disco, e quindi pensammo, beh, è la nostra musica preferita del momento, così dissi: Perché non lo chiamiamo ‘Pet Sounds’?”. Al di lá dei dubbi, ciò che invece rimane certo è l’autore della celebre immagine di copertina, George Jerman, che fotografò i Beach Boys mentre erano intenti a sfamare un gruppo di caprette dello zoo di San Diego.
Anche la “sinfonia tascabile” di Good Vibrations era originariamente destinata ad essere inclusa nel disco ma, con sorpresa di tutti, fu tagliata fuori da Brian Wilson: rilasciata come singolo nell’ottobre del 1966, la canzone scalò individualmente le classifiche musicali di mezzo mondo, riverberando fino ai giorni nostri. L’aria di sortita è invece un altro pezzo dal successo sempiterno, l’immortale Wouldn’t It Be Nice, una sagra nostalgica condotta da un ritmo carnascialesco che viene rotto soltanto dalla voce di Brian Wilson, amareggiata e serafica nello stesso istante. I Beach Boys all’unisono forniscono poi le complesse armonie vocali, rendendo questa traccia una sorta di ponte tra i soleggiati tempi della surf-music e questa nuova frontiera di arte sinfonica e riflessiva: per creare il suo impetuoso “muro del suono”, Brian Wilson utilizzò un vero e proprio arsenale di strumenti raddoppiati, come percussioni, pianoforti, fisarmoniche, bassi, chitarre, batteria e corni.
Ripercorre ancora a ritroso la giovinezza, ma con tutt’altro spirito, la ballata rammaricata di You Still Believe in Me, la prima canzone che Asher stese per l’album su uno schizzo di un precedente lavoro di Wilson chiamato “In My Childhood”: proprio da questo progetto deriva la lamentosa cantilena di un amante adolescente, tra singhiozzi di Glockenspiel e campanelli di bicicletta che riportano alla mente i classici suoni dell’infanzia.
D’altrocanto, That’s Not Me è abbastanza minimalista rispetto alle altre tracce più sinfoniche, con le voci soliste di Mike Love e Brian Wilson che duellano sopra agli strumenti canonici della band, mentre Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder) assume poi un tono più gravoso ed affranto, un gemito in musica emesso solo da Brian Wilson e dai musicisti in sessione.
Tra i numerosi session-men, il bassista Carol Kaye ed il batterista Hal Blaine ebbero un forte impatto anche su I’m Waiting for the Day, che contiene al suo interno un ritmo costante posto in netto contrasto alle fluttuazioni ancora nostalgiche del testo.
Let’s Go Away for Awhile, originariamente intitolata da Brian Wilson “The Old Man and the Baby“, avrebbe dovuto fungere da base melodica ma alla fine venne pubblicata tale e quale, senza alcuna sezione vocale (la stessa sorte della title-track): si tratta di un pezzo di morbido jazz con marimba e chitarra acustica ad incollare i cocci strumentali e sinfonici dell’orchestra.
La catartica epopea di Sloop John B venne invece suggerita da Al Jardine ad un reticente Brian Wilson, ed era già stata registrata durante la precedente estate del 1965: si tratta di una canzone popolare caraibica, risalente agli inizi del XX secolo, incisa in origine col titolo “The John B. Sails” da Carl Sandburg nel 1927; a terminare la prima parte del disco è proprio questo brano elastico e leggero, con una disposizione costruita costantemente tra l’enfasi della strumentazione e la complessa stratificazione vocale. Brian Wilson, che non era un grande appassionato di musica tradizionale, cambiò alcune parole del testo, dandole un taglio più psichedelico e testando ogni membro del gruppo per le voci soliste, optando in ultima analisi per la sua ugola e quella di Mike Love.
La seconda metà inizia in pompamagna con due grandi capolavori: la superba God Only Knows viene incarnata dalla voce eterea del fratello più giovane Carl Wilson, che la battezza con un “I may not always love you“ che non è proprio un modo tradizionale per iniziare una canzone d’amore! Si tratta, inoltre, di uno dei primi brani commerciali ad utilizzare la parola “God” (Dio) nel titolo, una decisione amaramente ponderata da Wilson e Asher che ne temevano un boicottaggio radiofonico, ma il risultato fu un capolavoro astorico, omaggiato più volte anche da Paul McCartney che la citò come la canzone d’amore piú bella di tutti i tempi, ammettendo perfino che “Here, There And Everywhere” dei Beatles era stata ispirata proprio da questa traccia.
La title-track Pet Sounds è il secondo brano strumentale del disco, intitolata nella sua arché “Run James Run” poiché destinata in origine ad essere utilizzata come tema per un film di James Bond. Si tratta della colonna portante del disco, questa volta cementificata dalle singolari percussioni che Ritchie Frost produsse percuotendo due lattine vuote di Coca-Cola, dietro all’inusuale suggerimento di Brian Wilson.
La languida Caroline, No serra in ultima istanza Pet Sounds, estendendo la nostalgia per l’innocenza perduta. In principio intitolata “Carol, I Know”, la canzone venne poi rinominata quando fu lanciata come singolo nei primi mesi del 1966 per un malinteso tra il paroliere Asher ed il più vecchio dei fratelli Wilson: la traccia (ed il disco) termina con il suono di un treno e di due cani che abbaiano furiosamente, dopo aver utilizzato una serie di strumenti inusuali, tra cui il clavicembalo, l’ukulele, il theremin ed il vibrafono, dandole una striatura quasi jazz anche grazie alla collaborazione – che ricordiamo – con alcuni dei migliori turnisti di Los Angeles. Brian Wilson registrò infatti questo pezzo senza il resto del gruppo e, proprio per questo, il singolo fu accreditato come un’opera solista: i cani che si sentono in conclusione sono proprio quelli di Brian, portati in studio per l’occasione – d’altronde, un album che si intitola Pet Sounds, non poteva che concludersi così!