
Tame Impala | Innerspeaker (2010)
La devozione verso il sound che ha caratterizzato un’epoca
Che nell’immaginario collettivo il rock psichedelico sia inevitabilmente correlato a un ben preciso periodo storico, la seconda metà anni ’60, è un dato di fatto inconfutabile non solo perché a quegli anni appartengono i grandi capolavori di questa corrente musicale ma anche perché la psichedelia scatenò una rivoluzione tale da invadere quasi tutti gli altri generi musicali presenti all’epoca, divenendo in pratica “il sound” per antonomasia di quel periodo. D’altro canto, che questa esperienza musicale non si sia conclusa con la fine degli anni ’60, per quanto abbia notevolmente perso visibilità nei decenni successivi, è un dato di fatto altrettanto consolidato; basterebbe sentire l’influenza che ebbe su generi quali il krautrock, sul noise o su certa musica elettronica, per non parlare di esempi espliciti come Bevis Frond, Flaming Lips, Ozric Tentacles o i primi Porcupine Tree, giusto per citarne qualcuno.
In tempi recenti, in particolare, stiamo assistendo a un vero e proprio “revival” psichedelico che, pur distaccandosi dagli anni ’60 per quanto riguarda gli ideali utopistici del “flower power” e della cultura dell’LSD, ne ha ripreso tuttavia le sonorità lisergiche e soprattutto la tendenza alla ricerca della “trance”. In questo contesto si collocano gli australiani Tame Impala, capitanati dal chitarrista-cantante Kevin Parker.
I Tame Impala nascono intorno al 2007 come evoluzione di un precedente progetto di Parker e nel 2008 ottengono la pubblicazione del primo EP, l’omonimo Tame Impala, di buona fattura; sarà però con questo primo album intitolato “Innerspeaker” che balzeranno all’attenzione internazionale anche grazie all’ottimo lavoro di mixaggio finale eseguito da Dave Fridmann, già produttore dei Flaming Lips.
Già la copertina, con quel suo procedere allucinato verso l’infinito, e il titolo del disco che richiama la creatività interiore, cara alla civiltà dei figli dei fiori, la dicono lunga sulle intenzioni della band, che definirà la propria musica come “psychedelic hypno-groove melodic rock music”.
Le influenze e i richiami all’epoca d’oro della psichedelia, soprattutto inglese, sono evidenti: l’impianto ritmico derivato dall’hard blues acido dei Cream, le melodie vocali vaudeville del pop-rock britannico di matrice psichedelica (Kaleidoscope, Tomorrow, Apple, Open Mind), gli arrangiamenti surreali dei Beatles o dei primi Pink Floyd aggiornati agli anni 2000 con l’elettronica di Caribou.
Il phaser della chitarra di Parker introduce al primo brano, “It’s Not Meant to Be”, che sembra tratto da sessioni inedite del Magical Mistery Tour di beatlesiana memoria ma che passa quasi inosservato. Anche “Solitude is bliss”, emblematico di una certa poetica di Parker e soci che esalta la solitudine come “beatitudine” se contrapposta alla massa indistinta dell’era della comunicazione globale, non spicca per originalità nonostante sia stato rilasciato come singolo. Stessa sorte tocca a “Expectation”, più incentrata sugli echi e le atmosfere rarefatte che sui contenuti, finendo col sembrare così un mero esercizio formale di stile.
A risollevare le sorti dell’album sono soprattutto i brani dalle sonorità più dure, a partire da “Desire Be Desire Go” che con il suo groove trascinante volutamente lo-fi crea nell’ascoltatore delle buone aspettative che purtroppo non sempre verranno soddisfatte nel resto dell’album.
I riff di “Lucidity” e soprattutto “The Bold Arrow of Time” sono persino più duri, dominati dai suoni saturi al sapore di fuzz e da un drumming potente che strizza l’occhio ai migliori Cream o ad altri gruppi della scena heavy-psych inglese come i Pretty Things o i Pink Fairies.
Non mancano nell’album i momenti più strettamente lisergici, a partire dalla cantilena quasi mistica di “Alter Ego” sostenuta da tappeti di suoni sintetizzati, voci filtrate e ritmi ipnotici che devono molto al kraut rock, per proseguire con “Why Wont’ You Make Up You Mind” divenuta un classico del loro repertorio dal vivo pur essendo meno strutturata di “Runway, House, City, Clouds” che con la sua coda strumentale dai toni onirici si configurava come la conclusione ideale di questo album risparmiandoci invece l’anonima “I Don’t Really Mind”.
E’ proprio in un brano interamente strumentale, “Jeremy’s Storm”, che i Tame Impala sembrano rivelare le proprie vere potenzialità, purtroppo solo accennate negli altri brani, con sonorità che si inoltrano in viaggi spaziali che ricordano quelli dei Byrds di “Eight Miles High” o dei Pink Floyd di “Interstellar Overdrive”.
L’album in definitiva tenta di ricreare virtualmente un ponte di collegamento con i sixties della swinging London aggiornandolo, ma piuttosto che continuare la strada della sperimentazione tracciata in quell’epoca si ritrova il più delle volte intrappolato nel non superamento di determinati cliché finendo per risultare più un tributo di stampo nostalgico a un’epoca d’oro senza nulla aggiungere a quanto già detto in quegli anni. Il disco inoltre presenta diversi brani riempitivi, privi di vera forza, a discapito del buon potenziale espressivo della band.
D’altro canto va riconosciuto ai Tame Impala una dovizia meticolosa e puntigliosa nella ricerca dei suoni e una freschezza e vivacità, tipica appunto di certa psichedelica britannica degli anni 60, che mancava da tempo nel panorama musicale mondiale, ormai sempre più dominato da atmosfere cupe, fredde, disilluse se non addirittura violente. Innerspeaker presenta inoltre brani di buona fattura e idee che se fossero state meglio sviluppate avrebbero sicuramente contribuito a creare un lavoro più corposo e artisticamente superiore; a tal proposito si consiglia l’ascolto della versione “Collectors Edition” distribuita nel 2011 come doppio album e che contiene, oltre a B-sides, singoli e remix, anche alcuni brani contenuti nel primissimo EP come la pulsante “Half Full Glass of Wine”, omnipresente durante i loro live in versione dilatata, che avrebbe potuto figurare come uno dei brani di punta dell’album.