
Taj Mahal Travellers | July 15, 1972 (1972)
Epifanie e trasmutazioni sonore di un collettivo sperimentale proveniente dall'Estremo Oriente
Celati da una foschia che scintilla un caleidoscopio di colori, i Taj Mahal Travellers sono una di quelle band consegnate all’epos del rock. Un’entità fatta di suono, la cui epifania si compie ogni qual volta la si invochi per mezzo di un supporto fonico. Un gruppo di polistrumentisti erranti in scena – tra sabbie, arbusti, brezza – e così anche in studio, dove trova nell’improvvisazione un veicolo per giungere all’esperienza psichedelica; in cui i suoni, o atti sonori, condotti univocamente profondono in sintonia e ghermiscono gli esecutori nella condizione di auto-ipnosi. La pratica del canto mantrico, le teorie del minimalismo di La Monte Young, la tradizione musicale dell’Asia Orientale, nonché un plausibile rimando al saggio “Paradiso e Inferno” di Huxley, esulano il collettivo nipponico dalle norme della musica intesa nella sua più ampia accezione. Per loro questa sorta di rituale ateo è funzionale alla liberazione d’un flusso di pensieri acustici che, snodatisi, conducono alla catarsi dell’Io senziente.

I Taj Mahal Travellers
Tre soli album all’attivo. Vinili adorati come feticci dai collezionisti più fervidi. July 15th 1972 è registrato in uno studio giapponese che accoglie il carico sensazionale del viaggio appena concluso (e in parte documentato nell’audio-visivo “On Tour”). Come il sole nella propria terra, i Nostri si levano alla volta dell’Europa nord-occidentale, contemplando il Taj Mahal di Agra quale meta finale. Costituito da tre brani, corrispondenti alle fasi dell’evoluzione esperienziale pseudo-mistica, l’album ha con Between 6:20 – 6:46 p.m. il suo abbrivo. La sua disorganica sinfonia si fa periodo preparatorio per accogliere la “crisi” ipnagogica. Brevi e ripetuti stimoli acustici con varietà tonale arpionano la mente e, ora strattonandola, ora lasciandogli corda, la attirano alla barca che posa sulle acque miti e profonde della concentrazione medidativa. Per struttura comparabile al “Poème électronique” di Varèse, riletto da interpreti dello shamisen votati al kami dell’elettricità.
Between 7:03 – 7:15 p.m. elegge in seguito il climax dell’intera composizione. La tecnica del canto mantrico perpetua l’emissione vocale vincolando l’attività cerebrale, fin tanto non vi sia un maggiore apporto d’ossigeno. E la tromba, avida di respiro, viene sostenuta da percussioni provenienti forse dal Gamelan, a provocare sottili vibrazioni ondose nello stagno dell’intelletto che, sovrapponendovi alla storica “Aumgn” dei Can, ritrova poi i lasciti del più recente “A Cherry On Top” dei Knife. In Between 7:50 – 8:05 p.m. la balugine diradatasi dall’azione di acuta intensità cede al bagliore che, ancor lungi dall’essere raggiunto, apre alla sovra-dimensione psichica, ad uno stato di forte permeabilità suggestiva. Lo stridore lieve delle corde preannuncia la vetta della montagna sacra, e in una progressione tensiva ne sostiene l’ascesa.
In sintesi: un disco fatto di rarefazione del pensiero, di forme dagli impalpabili contorni, che nella trasmutazione della materia sonora ci fa accedere a quella sacra Visione, che di foschìa multicolore scintilla.