
Syd Barrett | The Madcap Laughs (1970)
Lo stravagante esordio solista dell'angelo caduto dei Pink Floyd.
“Roger (nda, vero nome di Syd) poteva apparire un po’ egoista – o piuttosto assorto in sè – ma quando la gente lo definiva “un recluso” stava solo esternando il proprio disappunto. Lui sapeva che cosa volevano da lui ma non voleva certo darglielo. Roger era unico, loro non avevano il vocabolo giusto per descriverlo, così lo hanno etichettato. Se solo lo avessero visto con i bambini: i suoi nipoti e le sue nipotine, i bambini in strada – li poteva far ridere a crepapelle. Poteva parlarci a lungo e giocare con le parole in un modo che i bambini istintivamente apprezzavano, anche se a volte sconcertava gli adulti” (la sorella Rosemary Breen, The Times, 16 luglio 2006)
Se c’è un personaggio che meglio di tutti ha saputo rappresentare l’evoluzione tra i lisergici anni Sessanta e il drammatico risveglio degli anni Settanta, costui è senza dubbio Syd Barrett. La sua fulminea carriera solista inizia all’alba del nuovo decennio dopo l’estromissione dai Pink Floyd che, durante le registrazioni di A Saucerful of Secrets, decidono semplicemente di non passare più a prenderlo. I problemi del “diamante pazzo”, tuttavia, sono soltanto all’inizio; Syd è infatti diventato un musicista paranoico, intrattabile e sconclusionato: basti pensare ai tempi infiniti che ci vogliono per completare il suo primo album, che di fatto sarà frutto di una interminabile serie di sessioni di registrazione, effettuate tra il maggio del 1968 e il giugno del 1969. Ben quattro sono, inoltre, i produttori coinvolti: Peter Jenner, Malcolm Jones e la coppia David Gilmour/Roger Waters. Questo lavorare a più riprese è indubbiamente uno dei motivi per cui The Madcap Laughs possiede quella singolare aurea precaria, segnato da false partenze, forti stonature e accordi improponibili. La leggenda parla perfino di un Barrett “vegetable man”, sempre spaesato e tenuto in piedi solo dai musicisti in accompagnamento, con il risultato di un disco dominato da un fragile e intenzionale motivo di “non-finito” che quasi ricorda le statue volutamente incomplete del geniale Michelangelo.

Syd Barrett
La carriera solista di Syd inizia con la pubblicazione del primo rarissimo 45 giri di Octopus/Golden Hair (1969), con cui l’ex Pink Floyd si spoglia ufficialmente dei suoi attributi da space-rocker, rivelandosi un cantautore folk imprevedibile e inaffidabile, a tratti perfino impacciato. Solo la testardaggine di Malcom Jones, allora responsabile della Harvest, convince Barrett e la EMI a portare a termine The Madcap Laughs che di fatto sarà completato solo grazie all’ausilio di Gilmour e Waters. A supporto del cantante collaborano inoltre, in tempi diversi, alcuni dei suoi amici e musicisti, tra cui i tre Soft Machine (Robert Wyatt, Mike Ratledge e Hugh Hopper), il batterista Jerry Shirley dagli Humble Pie, il bassista Willie Wilson e i due ex compagni Roger Waters e Richard Wright. L’idea di copertina è invece ancora dello studio Hipgnosis, mentre le fotografie vengono scattate dall’amico Mick Rock all’interno dell’appartamento che Syd condivideva allora con il pittore Duggie Fields. Per questa istantanea, Barrett dipinge appositamente il pavimento della sua camera da letto a strisce, mentre sul retro copertina compare anche la figura nuda della ragazza di Syd dell’epoca, conosciuta col nome di “Iggy the Eskimo” per via dei suoi lineamenti. Così confezionato, The Madcap Laughs viene infine distribuito nei negozi nel gennaio del 1970, piazzandosi a malapena al quarantesimo posto delle classifiche inglesi ma raccogliendo critiche incoraggianti, compresa quella di David Bowie.
L’aria di sortita è la brontolante Terrapin, paradossalmente uno dei pezzi più scorrevoli del conio, stretto in un ronzante country-folk che o ti spinge a fermare la musica o ti dà il benvenuto all’album. Se la scelta è la seconda, in seguito troviamo l’altalenante No Good Trying, che risente del contributo jazz-rock dei Soft Machine. Il “vero” Syd Barrett si manifesta però nella cabarettistica dichiarazione d’amore di Love You, che quasi si rifà a Bike di The Piper at the Gates of Dawn, in una giullaresca filastrocca in cui Syd cambia schizofrenicamente ritmo e metro all’interno di ogni strofa.
Nell’acida No Man’s Land lo stato d’animo generale assume un tono più sinistro, con lo sporco basso di Jerry Shirley che domina questa “terra di nessuno”. Circa a metà strada, le cose sembrano però avere una battuta d’arresto, con un alienato Syd che bofonchia frasi incomprensibili, preparandoci così alla psicotica Dark Globe, che si chiude con due versi davvero agghiaccianti: “Non vi mancherò? Non vi mancherò per niente?“.
Here I Go finisce invece per sprigionare un barlume di speranza, portando in sè la vena dell’amico Kevin Ayers ma in cui ad emergere, sfigurata nella britannicitá, è la vecchia passione di Syd per l’American Blues degli anni Cinquanta. Un altro brano ben riuscito è la tentacolare Octopus, rivisitazione di “Clowns and Juggler” (inserita nella raccolta postuma Opel). La canzone è fondamentalmente il prototipo perfetto del folk barrettiano, costruita su un ritmo zoppicante, uno sviluppo incerto e testi folli cantati con zelo disumano nel mezzo di varie citazioni, tra cui una sezione del poema “Rilloby-Rill” di Sir Henry Newbolt.
Troviamo in seguito uno scarto da The Piper at the Gates of Dawn, il folk spettrale di Golden Hair, che trae invece la sua linfa dalla poesia omonima di James Joyce, con un supporto musicale abbastanza minimale: solo una chitarra acustica e alcuni effetti dei piatti aiutano, infatti, Barrett a evocare il suo allucinato madrigale. L’umore minaccioso prosegue poi con Long Gone, dove un urlante Syd fa presumibilmente rizzare i capelli a Richard Wright all’organo, sullo sfondo.
Croce e delizia anche nell’attonito folk di She Took A Long Cold Look, mentre la voce di un ingegnere del suono presenta poi l’inconcludente Feel. Tuttavia, il momento più bizzarro e inquietante dell’intero disco è la falsa partenza che conduce a If It’s In You, con l’errore vocale di Syd nell’avvio del brano e le sue scuse; in seguito, Barrett riesce a tirare fuori le note alte almeno fino a metà canzone, quando questa inizia ad abbandonare le sue rime curiose a favore di uno stonato volo pindarico.
Chiude Late Night, estatica ballata con il morbido supporto della chitarra slide; si tratta del brano più vecchio di questo LP, con la sua base musicale originariamente registrata da Peter Jenner ad Abbey Road poco dopo la rottura ufficiale dai Pink Floyd. Il testo offre, peraltro, un devastante scorcio nella fragile psiche di Syd: “Dentro di me mi sento solo e irreale“. Ai posteri, una devastante premonizione che fa sembrare ancora più plumbee le parole che riserverà Gilmour al suo vecchio amico: “Eravamo così impegnati in quella fase della nostra carriera che, sì è vero, lo abbiamo abbandonato“.
Tanti, sono stati negli anni i personaggi accostati al “cappellaio matto” Syd Barrett. Personalità unica, forse più vicina al poeta e musicista Ivor Cutler che a Kevin Ayers, dato che entrambi hanno cercato di riprendere quei momenti dell’infanzia in cui il filtro della razionalità adulta non ha ancora preso il controllo, per godere appieno di idee disinibite e spesso perfino spaventose, recuperabili soltanto nelle proprie manifestazioni inconsce. Una visione completamente trasognata che manca, invece, al menestrello canterburiano, la cui malinconia esistenziale è più lucida e reale, ma è soprattutto controbilanciata da una gioiosa ed elegante messa a terra sonora. A luci spente, i paragoni più inutili rimangono però quelli coi Pink Floyd, poiché il Syd di The Piper at The Gates of Dawn non sarebbe mai più esistito. Dopo il secondo disco omonimo, Barrett soccombe infatti ai suoi demoni e inizia a ritirarsi dal mondo musicale e, per tanti versi, anche dalla vita stessa. Per tutti questi motivi, The Madcap Laughs è un disco visionario, ma non esente da difetti: alcune delle canzoni sono infatti veramente dolorose da sentire, per quanto rappresentino chiaramente la battaglia che Syd avrebbe perso contro la realtà.