
Syd Barrett | Barrett (1970)
Il canto del cigno del Diamante Pazzo
Se The Madcap Laughs è stato il frutto di lunghe e difficili sessioni di registrazione, Barrett può invece considerarsi il risultato di improvvise fiammate di attività. Dal 6 ottobre 1969, Syd inizia infatti a riflettere sul suo secondo LP, dopo aver suonato con l’amico Kevin Ayers in “Religious Experience” (“Singing a Song in the Morning”). Le frammentarie registrazioni avvengono però soltanto dal 26 febbraio al 21 luglio del 1974, con l’aiuto di Richard Wright e David Gilmour, con solo quest’ultimo accreditato come produttore ufficiale; in particolare, una delle prime sedute risulta inaspettatamente proficua, producendo ben quattro brani, di cui due – “Living Alone” e “Bob Dylan Blues” – rimangono stranamente inediti. In Barrett, rilasciato nel mese di novembre 1970 dalla Harvest, ci sono forse i più grandi successi di Barrett solista, condensati in un suono più denso e corposo, ma comunque pervaso da incertezze e imperfezioni, ben rappresentati dagli insetti disomogenei di copertina, disegnati dallo stesso Syd quando era studente d’arte a Cambridge e rispolverata per l’occasione nella cantina della casa d’infanzia.

Syd Barrett
Accanto a Syd, nel disco troviamo vecchie conoscenze come Richard Wright (tastiere), David Gilmour (chitarra, basso, organo), Jerry Shirley e Willie Wilson (percussioni), John Wilson (batteria) e Vic Saywell (tuba). Roger Waters non partecipa stavolta in nessuna traccia, ma come al solito Gilmour è al fianco di Barrett sia nella cabina di produzione che nelle incisioni, facendo tutto il possibile per rendere l’album migliore. Per quanto concerne la musica, questa può dirsi ancora stravagante e psichedelica, come di consueto, ma con più momenti di luce che di buio rispetto a The Madcap Laughs, la cui atmosfera psicotica viene spesso mascherata.
Con la chitarra ha inizio la fresca Baby Lemonade, che sembra proprio essersi lasciata alle spalle la turbe emotiva del primo album, con una introduzione acustica (registrata a insaputa di Barrett da David Gilmour) che si trasforma poi in una solare cavalcata psych-folk della seconda parte. Love Song, scritta nel ricordo affettuoso di una ex ragazza, estende poi su tastiere l’atmosfera sognante della traccia d’apertura in maniera convincente.
In Dominoes Syd al torna tuttavia ad affrontare i suoi demoni, gemendo per la sua solitudine attraverso flebili accordi di chitarra che alla fine evolvono prepotentemente in calde e superficiali vampate di organo. La cantilena alienante di It Is Obvious vede invece uno stonato e angosciato Syd sepolto dietro alle tastiere, mentre la marcetta amelodica di Rats prosegue ancora con allegorici riferimenti animaleschi, un leitmotiv dell’intero album.
Il blues raccapricciante di Maisie (ispirato a “Spoonful” di Howlin’ Wolf) e quello brioso di Gigolo Aunt (basato su “Hi Ho Silver Lining” di Jeff Beck) sono probabilmente i tentativi più riusciti di “normalizzare” il suono di Syd Barrett che, nel ritorno al vecchio amore per il blues, sembra quasi prefigurare quasi il brit-pop nella seconda traccia, se non fosse ancora per le inutili divagazioni dell’organo, che pare totalmente incompatibile con le visioni infantili di Syd.
L’elogio della follia di Waving My Arms In The Air si trasforma direttamente in I Never Lied To You, seguendo la stessa linea, solo in maniera più grezza. Wined And Dined trova ancora l’ausilio di Wright, in una ballata conviviale che sarebbe stata forse un successo nelle mani di un artista meno instabile, con una melodia principale, semplice ma efficace, che non può fare a meno di restare nella testa per ore e ore dopo averla ascoltata.
D’altro canto, la caotica Wolfpack, dedicata ad una ex-ragazza di Syd dei tempi di Cambridge (la modella Gayla Pinion), sembra tornare prepotentemente al disco di esordio, e se non fosse per la chitarra elettrica – una delle migliori sezioni dell’intero disco – sarebbe abbastanza straziante. Chiudono i due minuti scarsi per tuba e chitarra di Effervescing Elephant che ci forniscono un breve e ultimo sguardo di addio al lato infantile di Syd, con una canzone scritta nell’adolescenza che si rifà alle “Cautionary Tales for Children” di Hilaire Belloc (già di ispirazione per The Piper at the Gates of Dawn), capace finalmente di far risplendere la vera personalità di Barrett, che da questo momento di dimette dalla musica e dalla propria esistenza.
Due sole furono le apparizioni pubbliche di Syd da qui in avanti: il 27 gennaio 1972 al “Corn Exchange” (con Twink e Jack Monck sotto la sigla “The Last Minute Put Together Boogie Band”) ed il 24 febbrario, sempre a Cambridge con la stessa formazione unita nel nome “Stars”. Poi il nulla. Comparirà negli studi di Abbey Road, visibilmente ingrassato e calvo durante le sessioni di Wish You Were Here, il 5 giugno 1975. Nel 1982 ci fu la sorpresa della brevissima – e invadente – intervista del magazine francese “Actuel”, con solo qualche breve battuta di Barett restio a rispondere alle poche domande del giornalista, che scrisse:
“È un uomo stanco, più vecchio. I suoi capelli sono molto corti, un po’ stempiati. Ha un aspetto smunto, il suo sguardo vitreo, e le sue braccia oscillano. È magro e la sua pelle è cadente. Sua madre non mi ha sentito arrivare ed è rimasta nel retro del giardino. Di tanto in tanto la guarda, di nascosto” … “[Syd] prova costantemente a mettere fine alla conversazione. Non smette di lanciare degli sguardi in direzione del giardino, dove si trova sua madre“.
Peter Jenner avrebbe voluto produrre nel 1974 un terzo album, ma l’esito fu così disastroso che nessuno osò più parlarne; quelle sessioni fruttarono 13 minuti scarsi di musica, di cui cinque senza capo nè coda, quattro minuti di blues strumentale “ispirato a John Lee Hooker” e altre due improvvisazioni non-sense alla chitarra elettrica. Nel 1992 la Atlantic propose 75.000 sterline di anticipo per fare suonare a Barrett qualsiasi cosa egli avesse voluto, ma la famiglia declinò l’offerta a suo nome.
Non si può negare che Barrett sia un buon album, contenente qualche canzone spettacolare, ma a emergere è la rassegnazione di Syd: piuttosto che guardarlo in lotta contro i suoi demoni, assistiamo inermi alla sua sconfitta, mentre i segni dell’inevitabile declino vengono mascherati dall’organo di Wright e dalla produzione di Gilmour, che levigarono ogni difetto. Quindi, la domanda finale potrebbe essere: è Barrett migliore di The Madcap Laughs? In qualche modo sì, ma in un certo senso anche no. Ci sono canzoni più note in questo album, nonostante non ne sia stato rilasciato un solo singolo e neanche entrò in classifica; sicuramente l’ascolto è più lineare, non presentando le forti stonature e le partenze a metà del disco di esordio. Tuttavia, esso sembra perdere qualcosa dal punto di vista dell’autenticitá e dei testi, a scapito della miglior produzione dei brani che suonano più completi e unitari: quello che è certo è che non vi troverete nessuna analogia con i primi due album dei Pink Floyd, perchè quel Syd Barrett era ormai morto dopo lo scherzo finale di Jugband Blues.