
Slint | Spinderland (1991)
La nascita del post-rock, la generazione hardcore diventa adulta e affronta i propri fantasmi
La nascita del Post Rock è stato uno degli eventi musicalmente più rilevanti degli anni novanta; se solo nel 1994 il critico Simon Reynolds ha coniato il termine ormai condiviso per descrivere i cambiamenti che stavano avvenendo, andando a ritroso si è trovato nel 1991 il germe di tutto il movimento, perlomeno il primo album che sembra contenere in sé tutti gli elementi che hanno permesso di identificarlo come Post Rock. Può sembrare strano, almeno a me lo è sempre sembrato, che il cambiamento più radicale degli anni novanta nasca da una generazione prima punk, poi hardcore; generi ritenuti da molti come involutivi rispetto quello che era stato il classico rock con le sue regole e tradizioni. E’ paradossale ma punk e hardcore sono riusciti a evolversi ben più oltre del progressive rock ad esempio, genere che aveva il termine progresso nel sangue oltre che nello stesso nome. Il Post Rock rappresenta la maturità di quella generazione cresciuta con l’Hardcore, il divenire adulti – grazie anche all’aiuto di Glenn Branca e dei Sonic Youth – che prevede l’abbattimento delle regole non scritte del rock classico dei tre decenni precedenti. Il cantato sparisce e diventa parlato, le melodie scompaiono quasi del tutto, i ritmi diventano cangianti, la rabbia diventa adulta riflessione glaciale.

Slint
“Spinderland” è l’album perfetto che sembra nascere dal nulla, progenitore di sonorità che verranno saccheggiate in lungo e largo per decenni. Basta sentire i primi secondi dell’iniziale “Breadcrumb Trail“per capire quanto tutta la scena Post Rock debba ai giovanissimi e rivoluzionari inconsapevoli Brian McMahon, Britt Walford, Ethan Buckler e David Pajo.
Troviamo rumorismo e rabbia hardcore nei duri riff di “Nosferatu Man“, il momento meno post del sestetto ma geniale nell’improvvisa ripetizione ipnotica di un semplice accordo.
“Don, Aman” è un capolavoro assoluto che riecheggia i fantastici accordi dell’immensa “Chinese Radiation” dei Pere Ubu, cantati da sospiri di fantasmi in stile Labradford.
Gli otto minuti del lento incedere quasi psichedelico di “Washer” sono una sorta di manifesto Post Rock più pacato e riflessivo, melodramma strumentale dove le parole sono appena comprensibili. Praticamente del rock c’è solo la strumentazione, non rimane nient’altro.
“For Dinner” e “Good Morning, Captain” chiudono questa pietra miliare del (post)rock con toni ancor più dimessi; la prima avanza silenziosamente e abulica verso l’ultimo brano, ennesimo manifesto fondativo, capolavoro nel capolavoro, capace di erigere una nuova sintassi musicale fino ad allora sconosciuta.