
Silver Apples | Silver Apples (1968)
Musica psichedelica ed elettronica d'avanguardia nell'enigmatico capolavoro del duo statunitense
La misteriosa storia dei Silver Apples comincia a New York alla metà degli anni Sessanta; all’inizio sono un quintetto (Overland Stage Electric Band), ma il crescente interesse del leader Simeon Coxe per i suoni elettronici spaventa tutti gli altri membri, tranne il batterista Dan Taylor. E’ così che nel 1967 i due superstiti decidono di proseguire autonomamente e cambiano la loro sigla in Silver Apples (da una poesia di William Butler Yeats), con l’intento di creare un “meccanismo organico” capace di dare vita a una musica composta di sole percussioni ed elettronica, suonate con ogni mezzo disponibile. Ridotta a soli tamburi e oscillatori, il rock psichedelico delle origini evolve in qualcosa di completamente diverso, un qualcosa di ronzante, minimalista ed estremamente paranoico. Lo stesso Simeon assembla uno strano marchingegno che porta il suo nome, composto da nove oscillatori audio e ottantaquattro manopole di controllo, che vengono suonati con ogni parte del suo corpo (proprio secondo le note di copertina, “gli oscillatori ritmici e quelli principali si suonano con le mani, i gomiti e le ginocchia, mentre gli oscillatori basso vengono suonati con i piedi”). Un’idea indubbiamente molto stravagante, tanto che il duo riceve molta attenzione in un concerto a Central Park, dove sono presenti anche i Fugs e Frank Zappa; esibizione che gli vale un contratto discografico per la Kapp Records, con cui possono finalmente registrare il primo album omonimo.

Silver Apples
L’elettronica all’avanguardia dei Silver Apples non trova nessun confronto nel continente americano; per avere alcune analogie, bisogna attraversare l’Oceano e recarsi in Germania, nei lavori che Tangerine Dream, Cluster, Neu! e Kraftwerk svilupperanno però soltanto qualche anno più tardi. La musica del duo è figlia anch’essa, senza dubbio, degli insegnamenti di Stockhausen, di ripetizioni ipnotiche e pulsanti, ma viene controbilanciata dal tocco primitivo delle voci e delle percussioni. Anche i testi del poeta Stanley Warren contribuiscono all’aurea misteriosa e artigianale del disco, plasmando un lavoro inimmaginabile nel 1968, per il suo essere in grado di portare all’estremo i concetti del rock psichedelico ed anticipare gli schemi della new-wave e non solo.
Se non fosse per la rudimentale registrazione, Oscillations, passerebbe benissimo per una canzone di fine anni Settanta. Senza esitazione, Simeon decanta quello che può essere considerato il suo mantra personale: “Oscillazioni, oscillazioni, evocazioni elettroniche“. Nulla di più avanguardistico: nei primi due minuti del disco, si sa esattamente dove i Silver Apples vogliono andare a parare. Con la loro chiara dichiarazione d’intenti, il duo procede poi a definire la beatitudine paranoica di Seagreen Serenades e i battiti da lounge elettronica di Lovefingers, e avanza in seguito riesumando effetti nastro da ogni sorta di fonte, comprese musica classica e spot pubblicitari, come nel caso della psichedelia sincopata di Program.
Più schierate sul fronte elettronico Velvet Cave e Whirly-Bird, anche se le percussioni e le voci forniscono ancora alle due canzoni una marcata sensazione tribale. Dust è poi un altro esperimento ingombrante, quasi progressivo a tratti, fino al finale energico e terrificante. C’è infine spazio per la rielaborazione di un cerimoniale indiano Navajo tramandato attraverso le generazioni (Dancing Gods) e per la conclusiva Misty Mountain, bizzarro esempio di klingklangmusik in grande anticipo sui tempi.
Silver Apples è un album talmente pionieristico che il duo ci riproverà soltanto con Kontact (1969), prima di scomparire letteralmente dalle scene. Il 1996 vede il ritorno discografico di Simeon, che si ricongiunge definitivamente due anni più tardi con Taylor, fino alla prematura morte di quest’ultimo nel 2005.