
Robert Wyatt | Shleep (1997)
In una società in cui la morte vale ormai più della vita, il redivivo Robert Wyatt sfornò un altro capolavoro dopo più di trent'anni di carriera
Se si dovesse sintetizzare Shleep in due parole si potrebbe ricapitolarlo come il lieto fine discografico ed umano di Robert Wyatt, anche se parlare di epiloghi non avrebbe senso, perchè il redivivo ex “bipede batterista” dei Soft Machine si è ritirato ufficialmente dalla musica soltanto un anno fa.
Nato e cresciuto vicino a Canterbury, Robert Wyatt è un uomo che ha sofferto e si è saputo rialzare (nonostante abbia passato più della metà della sua vita in carrozzina); un uomo a cui, per dirla come sua moglie – la velenosa quanto dolce Alfreda Benge – manca quella parte di epidermide che rende una persona impermeabile alle sofferenze altrui: e forse la sua Kunstlerschuld, ovvero i suoi perenni sensi di colpa e di responsabilità verso il mondo, dovrebbero proprio toccarci. Un uomo che ha saputo dire di no alle droghe, nonostante non disdegnasse di attaccarsi all’alcol ogni qualvolta si sentisse inadeguato; un uomo che non ha più voluto fare concerti soltanto per esimersi dalla responsabilità di poter deludere l’ascoltatore, dopo anni passati a piangere nel backstage perchè non si sentiva all’altezza del ruolo. Un uomo che ha vissuto con una umiltà che commuove e sbalordisce, che si arrabbiò furiosamente quando in ospedale vedeva i deboli maltrattati e che pianse copiosamente quando l’amico fraterno Mongezi Feza morì per mancanza di cure adeguate, solo perchè di colore. Un uomo che compose l’intera colonna sonora per il documentario The Animals Film per un centinaio di sterline, quanto i Talking Heads ne richiesero più di cinquecento per un’unica canzone. Un uomo che non si è mai lamentato della propria disabilità, ma che ha saputo ridere in pubblico e soffrire nel privato, sempre pronto a dispensare il suo umorismo a chiunque trovasse sulla sua strada. Un uomo con una voce talmente unica che Brian Eno la definì accuratamente come “il pianto di una creatura innocente abbandonata in un mondo complicato”. Insomma, potrei dilungarmi all’infinito soltanto per ribadire come siano i personaggi genuini come Wyatt a muovere silenziosamente il mondo e non le solite belle facce mute stampate sulle magliette: perchè sopravvivere, combattere e reinventarsi una vita come ha fatto Robert è molto più coraggioso che rifugiarsi in paradisi artificiali.

Alfreda Benge e Robert Wyatt
Fatto il mio commosso panegirico a Robert, cominciamo a trattare di questo bellissimo Shleep, uscito nel 1997 con un titolo che richiama simultaneamente l’insonnia e l’amico ebraico Ronnie Scott, morto nel dicembre del 1996. Per descrivere gli anni Novanta, con la solita ironia patafisica Wyatt sostiene che in quel periodo s’infilò in una buca e riemerse nello studio di Phil Manzanera: con l’ex Roxy Music aveva già collaborato in Diamond Head (1975) e quando questi apprese della situazione finanziaria di Robert, decise subito di contattarlo ed offrirgli i propri studi privati a condizioni estremamente generose (rivelò più tardi: “ho pensato fosse giunto il momento di ripagarlo per essere stata la scintilla della mia ispirazione“). Dopo Ruth is Stranger Than Richard (1975), un disco apprezzabile ma che non aveva soddisfatto Wyatt per il suo frettoloso mixaggio, Shleep fu il primo album inciso in gruppo dato che, per non trovarsi in situazioni di imbarazzo, Robert non aveva più chiamato nessuno a lavorare con lui, complice anche il suo essersi esiliato nella nuova casa nel Lincolnshire per combattere la depressione.

Brian Eno, Phil Manzanera, Robert Wyatt
Nel 1996, Wyatt si insediò quindi ai Gallery Studios di Chertsey, chiamando qualche ospite a seconda dell’evenienza, come aveva fatto con Rock Bottom: dopo due album (Old Rottenhat, 1985 e Dondestan, 1991) in cui Robert cantò e suonò da solo tutti gli strumenti, l’ex Soft Machine si fece coraggio, contattando una serie di musicisti che resero questo disco molto diverso dai suoi due predecessori, anche per i testi scritti a quattro mani con la moglie Alfie. Il personaggio più inatteso fu senza dubbio Paul Weller, coinvolto per una fortunata coincidenza: “Stavo registrando qualche provino nello studio di Phil, dove una settimana dopo sarebbe arrivato Robert, e tramite Phil e Jamie venni a sapere che avrebbe registrato la sua rivisitazione di una vecchia canzone degli Style Council, The Whole Point of No Return. Così, quando per scherzo dissi: ‘Beh, se vuole una parte di chitarra o qualsiasi altra cosa, datemi una voce’. E lui me la diede“. Furono presenti anche Brian Eno, con cui Wyatt aveva già collaborato in diverse occasioni, e Annie Whitehead, con la quale aveva invece condiviso alcuni progetti a scopo benefico: quando Wyatt timidamente la chiamò dicendole di non volerla importunare e di accettare soltanto se quell’impegno non l’avesse disturbava, la musicista accettò con entusiasmo e divenne negli anni il suo amuleto portafortuna; a questa schiera si unirono, infine, anche il chitarrista belga Philip Catherine, l’ex bassista dei Soft Machine Hugh Hopper, il polistrumentista Chucho Merchan ed il sassofonista Evan Parker.
La copertina, come di consueto, venne disegnata da Alfreda Benge, e ritrae il marito mentre spicca il volo dormendo su una colomba, esorcizzando un tormentato periodo di insonnia e depressione in cui Wyatt dovette curarsi col Prozac, dopo anni di riluttanza a qualsiasi terapia. Anche se non lo dava a vedere, Wyatt era fortemente depresso quando cominciò a registrare Shleep: le serene condizioni in cui lo mise Phil Manzanera, facendogli usare il suo studio senza fretta e senza la paura che mancassero i soldi, lo fecero rilassare e, grazie alle sbornie che usava prendersi con Paul Weller ed allo spirito della terapia che stava seguendo, dopo anni stava finalmente imparando a smetterla di auto-infliggersi (“mi misi al lavoro sapendo che gli errori sarebbero stati inevitabili e determinato a non rinchiudermi nel mio guscio ma a reagire solamente con un ‘toh, un errore. Ma guarda te. Peccato, e vabbè’“).
Conclusi i lavori di registrazione del disco, Robert e sua moglie Alfie dovettero tuttavia trovare i soldi per pagare Phil Manzanera e così si rivolsero all’amico Geoff Travis, la cui etichetta socialista Rough Trade era fallita ma che aveva ancora contatti all’interno del settore: questi li portò dritti da Andy Childs, direttore generale della Rykodisc, che si innamorò subito del progetto e decise di scritturare Wyatt. In quella occasione i due coniugi sottoposero però una serie di clausole da inserire nel contratto, memori delle funeste lotte intraprese con la Virgin di Richard Branson nel decennio precedente e, alla fine, anche se per un cavillo il disco uscì per la Hannibal di Joe Boyd (consorella dell’etichetta), finalmente Shleep vide la luce nel settembre del 1997, seguito dalle ottime recensioni della critica.
Nonostante alcuni brani emergano dagli abissi dalla disperazione, il disco si apre con la leggera Heaps of Sheeps in cui Brian Eno e Robert Wyatt cantano sopra alla chitarra del fonico Jamie Jonhnson, con quest’ultimo che fa la sua personale imitazione di Bo Diddley: Jamie fu un personaggio di enorme aiuto a Wyatt che era, secondo la moglie Alfie, “tecnologicamente alfabeta“, ed i loro messaggi criptici sono ancora tenuti come ricordo negli studi di Manzanera, scritti all’interno delle cartine di Toblerone e piegati come origami.
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La famelica The Duchess deve il suo titolo ad “Alice nel Paese delle Meraviglie” e ritrae Alfie con il solito paradosso patafisico di Wyatt, che la celebra in uno stile calembourista non lontano da “Sea Song“, descrivendola come “vecchia e giovane, così dolce con la sua lingua velenosa”, mentre ad un certo punto della composizione, basata sui tempi insoliti del pianoforte, si innesta il sintetizzatore di Eno e quello che Wyatt chiama un “violino polacco”.
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Nella stregata Maryan svetta invece il chitarrista belga Philip Catherine, che basa la composizione sulla sua “Nairam”, mentre in Was a Friend Wyatt si rivolge direttamente a Hugh Hopper, che ne aveva imbastito la musica: nel testo, la riconciliazione si rivela come un sogno, ma nella realtà la pace era già stata fatta ed infatti i due vecchi compagni dei Soft Machine collaboreranno insieme più volte fino alla morte del bassista per leucemia, avvenuta nel 2009.
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La stanca e celestiale Free Will and Testament è il momento culminante del disco, un brano che lasciò senza parole Weller e che fece piangere lo stesso Wyatt dopo averla incisa: nel mezzo della chitarra slide di Weller, la canzone esplora i limiti del libero arbitrio ma risente anche del timore di Robert di aver rovinato la vita di Alfie (“Mi ha accudito; mi ha portato qui. Ha fatto così tanto da quando sono disabile, e anche prima, per rimettermi in sesto“). Come sempre succube del suo inappagabile Super-Io, Wyatt sostiene che la canzone parla del suo essersi “sempre comportato da stronzo” e questi suoi sensi di colpa emergono come un testamento ideologico privo di certezze ma riempito da una sincera umiltà nell’affrontare a tentoni, uno ad uno, i misteri della vita, senza assiomi o giudizi universali.
Successivamente, in September the Ninth al trombone di Annie Whitehead si aggiunge anche il sax di Evan Parker, uno sfondo perfetto per il testo che Alfreda aveva scritto nella palude di Humberston Fitties, evocando un episodio in cui una mattina fu svegliata da Robert tutto estasiato dalla vista di centinaia di rondini che si erano radunate lì accanto, in procinto di partire.
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Altri aromi condiscono invece Alien, con Phil Manzanera che si innesta sulla linea di basso del colombiano Chucho Merchan e dei suoi ritmi latini, canalizzati poi nel flusso di coscienza dell’intensa Out of Season e della granulosa A Sunday in Madrid, in cui Wyatt ricorda alcune visioni dei suoi viaggi giovanili in Spagna, tra i fiumi di vino e la povertà dei minatori.
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C’è spazio infine per Blues in Bob Minor, un omaggio al Bob Dylan di “Subterranean Homesick Blues”, scritta da Wyatt quando si trovava ubriaco a prender sole nel cortile sul retro degli studi, mentre l’arcana The Whole Point of No Return porta a compimento il disco con la cover degli Style Council, in cui Paul Weller rivive la sua vecchia canzone in maniera strumentale spogliandola fino alle ossa, con il trombone di Annie Whitehead che sembra fare le bolle da qualche parte degli abissi dell’anima.
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In definitiva, Shleep forse non raggiunge le vette emozionali di Rock Bottom, ma di certo rappresenta finalmente il lieto fine discografico di Robert Wyatt, dopo anni di timide collaborazioni e sporadiche incisioni. Dopo questo album, Wyatt inciderà solo Cuckooland (2003) e Comicopera (2007), entrambi buoni dischi che risentono degli influssi positivi degli studi di Phil Manzanera. Nel 2014, infine, l’annuncio ufficiale del ritiro dalla scena:
“I conducenti di treni, ho pensato, vanno in pensione a 65 anni, e io ho deciso di fare altrettanto. Preferisco dire però che mi sono fermato: è un’espressione migliore di pensionato. Cinquant’anni in sella non è roba di poco conto. Non c’è mai stato niente di pianificato, nella mia vita, e sono semplicemente arrivato a questo punto. Sono successe altre cose, e al momento – a essere onesti – sono più preoccupato dalla politica che dalla musica. Quest’ultima viene in scia, ed è un motivo di orgoglio fermarsi prima del declino“
Con ogni probabilità (e spero che i posteri mi smentiranno), Robert Wyatt non sarà mai trasmesso per le radio o al telegiornale della sera, neanche quando (facendo le corna) lascerà questo triste mondo… Ma forse è meglio così perchè, per parafrasare Seneca, bisognerebbe imparare a disprezzare il piacere che deriva dal consenso delle masse: non dovrebbe quindi rallegrarci il fatto che siano in molti a capirci, perchè le nostre azioni dovrebbero ricercare soltanto l’approvazione della nostra coscienza – e, proprio con Shleep, Robert Wyatt riuscì in questo intento, facendo finalmente pace con se stesso.