
Robert Wyatt | The End of an Ear (1970)
L'esordio solista di Wyatt, nè rock, nè jazz, improvvisazioni totali alla ricerca della libertà.
L’esordio solista di Robert Wyatt è quanto di più originale e particolare si possa immaginare, lo è tanto che cercare di etichettare The End of an Ear è impossibile, è proprio, come dice il titolo, la fine (o magari l’inizio) di un orecchio. Il nostro orecchio fa fatica a capire e riconoscere, l’unica cosa che resta da fare è abbandonarsi in questi suoni mai sentiti. Lo dice lo stesso Wyatt in un’intervista: “Ero molto contento del risultato di The End of an ear, avevo ottenuto qualcosa che era totalmente libero, non era nè jazz, nè rock, insomma era davvero unico”.
L’album nasce in un periodo di transizione nella vita di Wyatt. Ha già suonato in tre album dei Soft Machine ed ha scritto in Third uno dei suoi migliori brani, Moon in June. Nonostante ciò qualcosa non va con Hugh Hopper e Mike Ratledge, la scissione si avvicina, sia per motivi personali che musicali.
Hugh Hopper, anni dopo, motivò cosi la separazione da Wyatt: “In realtà la ragione per cui Wyatt lasciò i Soft Machine aveva più a che fare con reali differenze tra le nostre personalità piuttosto che con diverse visioni musicali. Semplicemente non eravamo più amici“.
In effetti non credo sia proprio cosi, se si ascolta The end of an Ear ed il successivo disco dei Soft Machine, si vede l’enorme differenza tra il disco estremamente innovativo di Wyatt e Fourth che ha abbandonato i fasti di Third per un jazz-rock molto, probabilmente troppo, convenzionale. In Fourth la partecipazione di Wyatt è solo esterna, anche nella copertina si vede un Ratledge in primo piano con in lontananza un Wyatt che è ormai messo alla porta.
Wyatt dirà in un’intervista: “La scelta tra essere un onesto e bravo batterista di jazz-rock o imboccare una strada più personale e meno inflazionata in realtà non avvenne; in quel periodo ero abbastanza intrattabile: bevevo molto e più bevevo più diventavo nevrotico. Alla fine fui invitato ad abbandonare il gruppo, anche se Fourth lo suonai, si può dire, con spirito da session-man”. Insomma, la separazione non fu una volontà di Wyatt, ma la scelta che aveva di fronte era di diventare un onesto batterista jazz-rock o di intraprendere strade nuove e personali.
Stranamente qualche anno dopo disse cose differenti:”A me fa molto piacere che le persone amino i dischi dei Soft Machine, è una cosa bellissima; mi fa capire che in fondo non è stata una perdita di tempo. Personalmente però, tutta quell’esperienza mi ha lasciato con poco rispetto per me stesso e senza un penny in tasca, senza niente davvero! È per questo che a un certo punto ho detto basta”.
Iniziamo a parlare dell’album. Ecco i ricordi di Wyatt del periodo in cui registrò The End of an Ear: “E ‘stato un momento molto importante per me. Avevo già suonato le tastiere in ‘Moon in June‘. In quei giorni ascoltavo molti musicisti jazz, mi concentravo sull’improvvisazione e pensai che avrei potuto farlo anch’io, dovevo liberare tutta la mia fantasia. Quindi decisi di fare qualcosa che fosse libero dalla normale struttura musicale. Nel periodo iniziale dei Soft Machine lo avevamo fatto, ma alla fine tutto divenne più strutturato in una sorta di jazz-fusion. Questo a me non andava, la mia idea era l’assoluta libertà di suonare. Volevo solo suonare la tastiera come un uomo libero e così successe che registrai da solo ore e ore di improvvisazione totale, sovraincidendo più voci e tastiere e invitando poi Elton Dean e gli altri a sovraincidere le loro improvvisazioni”.
In pratica l’album è registrato in studio da Wyatt e successivamente Neville Whitehead (Contrabbasso), Mark Charig (Cornetta), Elton Dean (Sassofono contralto), Mark Ellidge (Piano) e David Sinclair dei Caravan (Organo) eseguono le loro sovraincisioni.
The End of an Ear è un album molto difficile, la totale libertà di improvvisazione voluta da Wyatt lo rende molto simile ad un free jazz non semplice da ascoltare per chi si avvicina per la prima volta a questo genere di musica. Si passa dagli esperimenti vocali estremi di Las Vegas Tango ad una serie di brani dedicati ad amici, al fratello Mark, a David Allen, a Kevin Ayers (To The Old World), ai Caravan. Ascoltando questi brani si vede la distanza abissale che ormai separava Wyatt dai suoi ex compagni dei Soft Machine. I vocalizzi, il piano jazz, il continuo cantare senza proferire mai parola rendono Las Vegas Tango un brano unico, dove lo strumento principale è proprio la voce di Wyatt.
Dedicata al fratello è To Mark Everywhere, una marcia di fiati in stile jazz, all’amico/nemico David Allen è dedicata To Oz Alien Daevyd and Gilly, brano di totale improvvisazione.
Più semplice e abbordabile la lenta e sognante To Carla Marsha And Caroline.
Altra follia free form è la lunga To Nick Everyone, un susseguirsi di sax, tromba, basso e batteria.
Nel complesso direi che ci troviamo di fronte ad un ottimo album che dimostra come la separazione dai Soft Machine fu benefica per Wyatt che guadagnò enormemente in libertà artistica. Ma questo era ancora il Wyatt bipede batterista, il nuovo Wyatt doveva ancora nascere, il vero genio di Rock Bottom doveva ancora bere fino in fondo l’amaro calice della paraplegia che l’avrebbe trasformato in un altro uomo, a suo dire più libero e felice.