
Ringo Starr | Postcards from Paradise (2015)
Il ritorno di Ringo Starr si distanzia dal puro citazionismo beatlesiano
Qualche mese fa Ringo Starr è entrato a far parte della Rock and Roll Hall of Fame, introdotto dal vecchio compagno Paul McCartney che, invece, al pari degli altri ex Beatles, ha fatto da tempo il suo ingresso in questa sorta di grande mausoleo del rock. Per Starr dunque si è trattato di un riconoscimento piuttosto tardivo, ennesima dimostrazione di un musicista che, universalmente ritenuto miracolato dalla sua militanza nel più noto gruppo di tutti i tempi, ha finito per essere spesso sottovalutato per i suoi effettivi meriti di batterista, interprete e compositore. Soprattutto oggi, in tempi in cui capita spesso di entusiasmarsi fin troppo per i ritorni discografici dei mostri sacri della musica pop-rock, un nuovo album del batterista di Liverpool finisce inevitabilmente per destare ben poca curiosità, anche tra gli addetti ai lavori, eppure spesso si tratta di album dalla ottima vena, godibili, ben eseguiti. Non fa eccezione il nuovo, recentissimo, Postcards From Paradise (Universal Music), diciottesimo tassello in studio di una carriera che ha avuto anche formidabili picchi (come “Ringo”, del 1973, album all’epoca più venduto dei contemporanei lavori degli altri ex compagni); ciò che infatti colpisce della musica proposta da Ringo è l’estrema sincerità, la voglia di divertire e divertirsi con la musica, al pari di un esordiente scalpitante… Quando si superano i settanta anni, come è accaduto al batterista, è inevitabile il rischio di cadere in un doppio cul de sac, quello di pubblicare album per garantirsi degli introiti economici in questi tempi di vacche magre o per adempiere stancamente a doveri contrattuali… Ebbene per Ringo, certamente libero da queste due forme di schiavitù, non sembra essere così e i suoi lavori, con la loro beata ingenuità, con il loro dichiarato nostalgismo, sembrano essere una celebrazione di vitalità, spirito e joie de vivre. Un album di Starr pare essere una festa anche per chi vi partecipa: l’ aurea regola fissata dal batterista è “se passi dagli studi di registrazione verrai coinvolto” e anche questo “Postcards From Paradise” ha finito per vedere coinvolti personaggi come Peter Frampton, Todd Rundgren, Joe Walsh, Van Dyke Parks e molti altri, consentendo alle canzoni proposte di vantare uno smalto esecutivo particolarmente luccicante.
Negli anni, paradossalmente, Starr ha sembrato distanziarsi dal puro citazionismo beatlesiano (qui riservato solo alla eccentrica title track), prediligendo adesso una forma di intrattenimento musicale che lo porta ad esplorare anche sentieri per lui desueti, come il reggae, oppure il glam, o l’adult rock di ballad come “Not Looking Back”. Il passato però è sempre presente e Starr fruga nei cassetti della memoria sino a rinverdire i fasti della prima band di cui fece parte, quei Rory Storm and the Hurricanes ai quali il brano di apertura dell’album è dedicato. Le parti di batteria sono, al solito, inconfondibili, con quell’incredibile sound che, nella sua estrema semplicità, pare dare forma alla canzone, senza bisogno di particolari orpelli di arrangiamento ed oramai il batterista non disdegna di aggiungere anche suoni elettronici alla sua palette percussiva, rivelando una curiosità inaspettata da parte di un artista oramai settantacinquenne. “Postcards From Paradise” non è certo un album capolavoro e non aggiunge o toglie niente alla lunga carriera di Starr, la maliziosa domanda che però vogliamo farci e farvi è questa: siamo davvero sicuri che altri, più celebrati, lavori di altre storiche rockstar siano davvero di qualità maggiore?