
PORCUPINE TREE | IN ABSENTIA (2002)
Nonostante alcuni momenti non perfettamente gestiti, il disco ha i suoi brani memorabili e vive di preziosi arrangiamenti, di una semplicità che purtroppo manca spesso a svariati musicisti che dicono di fare “progressive”
Famoso per aver tentato di riportare in auge quel caro vecchio progressive rock che, tra la fine dei 70s e l’inizio degli 80s, veniva stroncato dalla nascita di nuovi fenomeni musicali come punk, post punk, new wave e metal, il complesso britannico capitanato dal polistrumentista Steven Wilson ha paradossalmente trovato il suo periodo di maggior successo negli anni 2000, dopo 21 tra album in studio, album dal vivo, EP e raccolte. Causa molto probabile di ciò è il fatto che ad inizio carriera i quattro musicisti erano ancora ancorati ad una certa idea di rock progressivo e psichedelico troppo relegata al passato, che rendeva la loro proposta musicale interessante e creativa, ma al contempo caratterizzata da una sperimentazione tale da rendere il loro sound apprezzabile solo agli avvezzi al genere e criptico ai più. Il meritato successo commerciale arriva infatti solo nel 2002. L’anno segna due eventi fondamentali per la carriera del gruppo: in primis, la sostituzione del batterista Chris Mailand con il ben più noto e talentuoso Gavin Harrison (che vantava, o avrebbe vantato, numerose collaborazioni tra cui King Crimson, Iggy Pop o i nostrani Battiato, Finardi e Mannoia), e in secondo luogo il passaggio dalla major Snapper a Lava Records, che già aveva prodotto artisti di grande successo commerciale come Simple Plan. Inoltre in quegli anni Steven Wilson stringe amicizia con il polistrumentista israeliano Aviv Geffen, col quale qualche anno più tardi fonderà il side-project Blackfield, e con Mikael Åkerfeldt, frontman degli svedesi Opeth, ai quali produce lo straordinario Blackwater Park nel 2001. Questi ultimi in particolare, uniti alle influenze di Gavin, introducono un’influenza metal non indifferente nel songwriting di Steven, genere al quale il frontman non si era mai dedicato più di tanto, preferendo sonorità più sperimentali. La formula infatti funziona: una nuova componente metal viene introdotta nel progressive rock di base, il quale viene ulteriormente modernizzato grazie a sfumature pop che rendono il sound più fresco e accessibile.In Absentia si apre con Blackest Eyes: la band si presenta subito come un’entità più commerciale, che abbraccia il riffing carico di groove di matrice tooliana (anche il capolavoro Lateralus dell’anno precedente deve aver giocato una certa importanza nelle influenze) alternandolo a ritornelli straordinariamente positivi che tuttavia riescono a non scadere nello stucchevole o nel banale.
Trains è ad oggi uno dei pezzi più conosciuti della band: il delicato cantato di Steven si erge su un tappeto acustico al quale si aggiungono poi tutti gli altri strumenti dimostrando una notevole capacità di “dosaggio” degli arrangiamenti, difatti il pezzo basa la sua musicalità proprio su arrangiamenti morbidi che fanno della semplicità il loro punto forte.
Il brano scorre che è una meraviglia e ci si ritrova subito a Lips of Ashes, forte di un “esotismo maliconico” dominato dalla voce di Steven, da un piacevole arpeggio di chitarra acustica e da un gustoso assolo che, ora così come nel resto del disco, si baserà sul fraseggio e sulla musicalità piuttosto che sulla tecnica. Impressionante è la scorrevolezza anche della straordinaria The Sound of Muzak: la strofa da finalmente modo di apprezzare la tecnica impeccabile del nuovo arrivato Gavin Harrison che si destreggia perfettamente nei tempi dispari, sfociando poi in un orecchiabile ritornello in 4/4 il quale si unisce poi a frizzanti arpeggi dove si staglia un divertente assolo sempre supportato dal groove cristallino di Harrison.
Gravity Eyelids si dimostra purtroppo l’episodio più debole del lotto, dove ritornano i riff metal e le sferragliate di synth, che tuttavia non colpiscono più di tanto. Dopo la strumentale Wedding Nails, in cui si percepiscono accenni di groove dreamtheateriani ma che risulta spenta quasi come la precedente, si giunge a Prodigal dove finalmente l’asticella viene risollevata. L’atmosfera viaggia da momenti chill a momenti più colorati mentre i ritornelli si mantengono sempre divertenti e asciutti. Un giro di basso introduce .3, che si muove tra splendidi echi psichedelici nei quali Steven si concede solo un breve intervento vocale, lasciando fluire gli avvolgenti synth di Richard Barbieri e un’interessante sezione ritmica dalle venature quasi trip-hop. The Creator Has A Mastertape accelera il ritmo, nel quale si staglia un’atmosfera tesa dominata da chitarre acide e un basso groovoso, che portano poi alla toccante Heartattack In A Laybay. Il pezzo è uno dei migliori del lotto: un alone di deliziosa malinconia si erge grazie a pochi semplici accordi e ad un crescendo che sulla fine raggiunge un pathos meraviglioso senza effettivamente “esplodere” mai, ma anzi, continuando ad inglobare splendidi arrangiamenti che mantengono una delicatezza assoluta.
Strip The Soul si presenta con quel sapore molto vicino al trip-hop che già era stato accennato in precedenza, sfociando subito in una serie di riff rocciosi mantenendo poi un’atmosfera cupa, che però questa volta sembra peccare di una sorta di incapacità a gestire sonorità più heavy, benché l’originalità delle progressioni di accordi sia indiscutibile.Fortunatamente la conclusiva Collapse The Light Into Earth
risolleva tutto: la lieve voce di Steven si muove su un’impalcatura sonora costituita inizialmente da un dolce giro di piano, il quale si ripete incessantemente, al quale si uniscono poi orchestrazioni armoniose e cori angelici in un morbido crescendo che conclude il disco in modo assolutamente pregevole. Con un sound più levigato e senza troppe pretese la band porta a casa oltre 100’000 copie, ridicola se comparata ad artisti mainstream ma impressionante se si considera la natura della band. Nonostante alcuni momenti non perfettamente gestiti, il disco ha i suoi brani memorabili e vive di preziosi arrangiamenti, di una semplicità che purtroppo manca spesso a svariati musicisti che dicono di fare “progressive” al giorno d’oggi, e di una freschezza che in buona parte si ritroverà nei dischi successivi e nell’interessante carriera solista di Steven Wilson.