
Popol Vuh | In Der Garten Pharaos (1971)
Musica tribale ed elettronica dedicate alla natura e all'antichità
In Den Garten Pharaos è un viaggio nel tempo, nella natura e nell’antichità. Fa parte del primo periodo dei Popol Vuh, quella fase elettronica che era iniziata col loro esordio, il precedente Affenstunde, in cui Florian Fricke studia e sperimenta il suono del sintetizzatore. L’elettronica dei Popol Vuh, pur rifacendosi alla musica cosmica tedesca se ne differenzia per vari motivi, innanzitutto per le aspirazioni di Florian Fricke che guarda all’oriente e al misticismo più che agli immensi vuoti dell’universo, per la presenza molto più massiccia di percussioni frenetiche che creano intense atmosfere tribali invocanti paesaggi antichi e, infine, per l’evoluzione e l’approfondimento della psichedelia britannica, in particolare dei primi album dei Pink Floyd senza Barrett. Non a caso Julian Cope descrive quest’album come un trip di Adamo ed Eva. Il rumore dell’acqua, la sensazione di trovarsi in uno dei magnifici giardini dei faraoni egizi, il canto funesto di ambigue sacerdotesse, il suono primitivo del tabla, sono tra gli elementi che rendono la fase elettronica dei Popol Vuh molto differente dai Tangerine Dream o da Klaus Schulze.
Sappiamo quanto Fricke fosse interessato alla religione, lui stesso definì la sua musica una messa per il cuore, ma la svolta mistica di Hosianna Mantra non era ancora arrivata. La religiosità c’è anche in In Den Garten Pharaos, ma è molto diversa da quella degli album successivi. Qui abbiamo sopratutto un inno alla natura e ad una spiritualità pagana, forse panteista, le religioni occidentali o orientali hanno poco a che a fare, se non nel suono dell’organo.
Il disco contiene due brani molto diversi tra loro, uno per ogni facciata. In Den Garten Pharaos segnata dal sintetizzatore e dalle percussioni, Vuh dall’organo suonato in una cattedrale. Il primo è uno dei brani migliori dei Popol Vuh, un vero viaggio nel tempo, in un mondo antico ormai scomparso. Ma i veri protagonisti sono la natura e gli uomini che ne fanno parte integrante. L’elettronica tribale, i canti artificiali delle sacerdotesse e i suoni primitivi lasciano spazio nella parte finale ad un magnifico piano che termina col rumore dell’acqua dove la lunga liturgia era iniziata.
Vuh, registrata nella cattedrale di Baumburg, ha una maggiore potenza data dal suono dell’organo e dei piatti. La sensazione è di trovarsi a metà strada tra cristianesimo e rituali magici pagani. Se In Den Garten Pharaos può essere definito di musica sacra lo è sopratutto per la seconda facciata. Musica sacra appunto, non religiosa come noi oggi intendiamo la religione. Le percussioni diventano furiose ma nonostante questa durezza il brano resta pur sempre meditativo. Se prima parlavamo di inni alla natura, qui invece l’enorme potenza ricorda canti e suoni che sembrerebbero invocare la benevolenza di potenti divinità sovrannaturali.
I Popol Vuh riescono a centrare il loro obiettivo. Fricke dimostra una grande capacità di sapere trasformare in musica ambienti e stati d’animo. La sua capacità di creare inni sacri che spaziano tra religioni occidentali, orientali fino addirittura all’antichità è totalmente fuori dal comune nella scenario della musica rock. Proprio per questo Fricke deve essere considerato un gigante. Lui lo aveva detto: “La musica imposta dalle etichette serve a coprire la ragione, a impedire di scegliere e decidere. Gran parte del pop americano e inglese si ritrova in quest’ambito deteriore, l’arte diviene corruzione”. L’arte di Fricke non copre la ragione ma la disvela, la rende visibile a chi ha occhi per guardare e udibile a chi ha orecchie per udire.