
Pink Floyd | The Endless River (2014)
La conclusione di una leggendaria carriera musicale
Ed eccolo finalmente; l’ultimo lavoro, conclusivo e atteso, di una carriera che porta il nome di una leggenda della musica mondiale: Pink Floyd. Con “The Endless River” si pone fine – secondo quanto annunciato – alla discografia della storica band inglese. Tuttavia chi scrive, pinkfloydiano fino all’osso, non può che rimanere basito – seppur non del tutto deluso – di fronte a un lavoro di non facile definizione, per molti versi più interessante dell’ultimo album solista di Gilmour ma allo stesso tempo sostanzialmente privo di una vera anima creativa degna di nota. L’ascolto completo riporta dunque una sensazione di nostalgica e generale ‘inconcludenza’, piacevole e suadente da un punto di vista musicale, più inefficace da quello concettuale e strutturale; non colpisce insomma quanto dovrebbe (a partire da una copertina paradisiaca fin troppo priva di chiaroscuri) e si limita a coinvolgere solo quel minimo sufficiente utile a confermare soprattutto l’indiscussa bravura esecutiva di Gilmour & co.
I brani migliori sono senz’altro i primi due (“Things Left Unsaid” e “It’s What We Do”), perfettamente delineati musicalmente, così come pure la wrightiana “Sum” e la gilmouriana “Allons y (1)” – che sembrano ricordare i fasti sonori di “The Wall” – nonché l’accattivante “Louder than words” (brano conclusivo dell’album ‘standard’) e la schulziana “TBS9”, bonus track assieme all’ultimo frizzante pezzo “Nervana”, rock song che strizza l’occhio al rock classico. Al contrario, “Anisina” è un brano quasi imbarazzante e poco convincente e “On Noodle Street” sfoggia un sound ‘eighty’ fuori tempo massimo. Tutti gli altri, eseguiti con perizia ineccepibile, fanno più da contorno e richiamo connettivo con l’intento di voler realizzare una sorta di ‘concept album’ vecchia maniera; in realtà attingono molto da soluzioni sonore già utilizzate in “On a island” e “The Division Bell”, non senza un vago riferimento a “Wet Dream” di Wright. Proprio quest’ultimo, sebbene sia innegabilmente più presente, continua comunque a rimanere sullo sfondo, solleticando tutt’al più nell’ascoltatore malinconici ricordi ed evocativi passaggi musicali legati al suo personale e apprezzato tocco. Ma nel complesso, pur raggiungendo una dignitosa sufficienza, l’album non sembra spiccare per originalità e compiutezza. Gilmour si conferma oramai dedito alla pedal steel guitar, dimenticando volutamente di prendere in mano anche altre chitarre (dalla Tele alla Stratocaster) con cui avrebbe di sicuro dato più varietà timbrica agli arrangiamenti. Non delude del tutto ma non sorprende per nulla. Non è mai troppo uguale a sé stesso ma non ha nulla di memorabile. Offre un ascolto di qualità ma non lascia il segno.
Tracklist:
- Side 1
- Things Left Unsaid – 4:24 (David Gilmour, Richard Wright)
- It’s What We Do – 6:21 (David Gilmour, Richard Wright)
- Ebb and Flow – 1:50 (David Gilmour, Richard Wright)
- Side 2
- Sum – 4:49 (David Gilmour, Nick Mason, Richard Wright)
- Skins – 2:37 (David Gilmour, Nick Mason, Richard Wright)
- Unsung – 1:06 (Richard Wright)
- Anisina – 3:15 (David Gilmour)
- Side 3
- The Lost Art of Conversation – 1:43 (Richard Wright)
- On Noodle Street – 1:42 (David Gilmour, Richard Wright)
- Night Light – 1:42 (David Gilmour, Richard Wright)
- Allons-Y (1) – 1:56 (David Gilmour)
- Autumn ’68 – 1:35 (Richard Wright)
- Allons-Y (2) – 1:35 (David Gilmour)
- Talkin’ Hawkin’ – 3:25 (David Gilmour, Richard Wright)
- Side 4
- Calling – 3:38 (David Gilmour, Anthony Moore)
- Eyes to Pearls – 1:51 (David Gilmour)
- Surfacing – 2:46 (David Gilmour)
- Louder Than Words – 6:32 (Polly Samson – David Gilmour)
- Bonus nella versione Deluxe:
- TBS9 – 2:27 (David Gilmour, Richard Wright)
- TBS14 – 4:11 (David Gilmour, Richard Wright)
- Nervana – 5:30 (David Gilmour)
“The Endless River”, in definitiva, si staglia su un piano a sé stante; il classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda dei punti di vista. Forse migliore di tanti altri album conclusivi decisamente più fiacchi (come, ad esempio, il deludente “On every street” dei mitici Dire Straits), ma – nel contempo – insoddisfacente da un punto di vista compositivo, almeno per chi si aspettava molto di più da una band di diritto entrata nella Storia. Questo album, ahinoi, segue una tradizione ben nota puramente figlia di quel marketing che ha lasciato spesso con l’amaro in bocca: l’apposizione del marchio ‘Pink Floyd’ (divenuto gallina dalle uova d’oro) dopo “The Wall”. In realtà già “Animals” marcava la vera ultima fatica discografica in cui la preziosa matrice sonora pinkfloydiana era ancora presente (specie nell’eccellente “Dogs”). “The Final Cut”, un album interessante e tormentato, non aveva ormai più nulla di pinkfloydiano, dovendo piuttosto uscire a nome di Roger Waters, così come i successivi “A momentary lapse of reason” e “The Division Bell”, sostanzialmente gilmouriani in tutto e per tutto. “The Endless River”, pertanto, vorrebbe chiudere un cerchio ma non ci riesce completamente perché della varie fasi dei Pink Floyd (da quella psichedelica e spaziale degli esordi a quella più accessibile e strutturata degli album successivi) questo album non rispecchia granché, se non visto come appendice a “The Division Bell”. Nonostante ciò, non si può non essere grati a Gilmour e Mason i quali, dedicando l’album al compianto Rick Wright, hanno nuovamente regalato al mondo l’ennesima e ultimissima testimonianza di una band che, nel bene e nel male, è stata capace di imprimersi indelebilmente nell’immaginario musicale di noi tutti. Lunga vita ai Pink Floyd!
Fabio Truppi