
Pink Floyd | Wish You Were Here (1975)
Il nono disco dei Pink Floyd, tra omaggi al "diamante pazzo" e feroci accuse al business discografico.
In seguito al concerto a sostegno di Robert Wyatt del 4 novembre 1973, i Pink Floyd si prendono un anno sabbatico e iniziano a pensare al nuovo album. Il punto di partenza è un semplice spunto chitarristico di David Gilmour (“Shine On”), provato live come di consueto: quando il quartetto entra negli studi di Abbey Road il 13 gennaio del 1975, sono già state abbozzate alcune canzoni, ma c’è ancora poca chiarezza riguardo al risultato finale e, soprattutto, è davvero poca la voglia di lavorare assieme. Dopo un nuovo tour americano, il nono album dei Pink Floyd, che si chiamerà Wish You Were Here, viene comunque rilasciato a settembre con qualche significativa modifica rispetto ai piani iniziali.
“Dopo il successo di Dark Side è stato abbastanza difficile sapere cosa fare dopo. […] Il tema di fondo deriva da “Shine On You Crazy Diamond”, soprattutto dagli ossessionanti accordi di chitarra di Dave, e dai testi di Roger. Questo tema è il senso di assenza, di non essere presente in una relazione o in una conversazione. […] Tutte le immagini si riferiscono ad un’assenza, in una forma o nell’altra. L’uomo che brucia è assente metaforicamente – troppo spaventato per essere presente, per non essere bruciato […]. La “stretta di mano” è tanto un gesto vuoto quanto un vero e proprio saluto” (Powell e Thorgerson, studio Hipgnosis)
Il successo di The Dark Side of the Moon dà inizio alla crisi dei Pink Floyd. Per Waters, quell’album rappresenta, non a caso, la fine dell’energia creativa del gruppo, che si trova così a brancolare nel buio, sempre più preda della crescente idiosincrasia per il business discografico di Roger, che per reazione, prenderà dispoticamente il comando. In tutti questi cambiamenti, una cosa rimane sicura: la copertina viene ancora affidata allo studio Hipgnosis. L’idea è quella di scattare una foto agli stuntman Danny Rodgers e Ronnie Rondell davanti agli studi Warner di Hollywood. Vestiti come due uomini d’affari intenti a stringersi la mano, per lo scatto Rondell prende letteralmente fuoco, mentre un team di 34 soccorritori è pronto a intervenire. E’ un’allegorica auto-combustione, che simboleggia la paura di aprirsi all’altro e di rimanere scottati, ma soprattutto la difficoltà dei rapporti interpersonali, che in quegli anni cominciano a gravare pesantemente anche all’interno della stessa band. Il disco intero diventa, quindi, quasi un concept-album sull’assenza, ma descrive anche il disagio del gruppo nel trovare il giusto equilibrio tra l’arte musicale e l’industria discografica. “Dovevamo capire se eravamo degli uomini d’affari o degli artisti“, dirà a proposito David Gilmour. Molte saranno infatti le litigate per la svolta sociologica di Roger Waters, che decide peraltro di lasciar fuori ben due tracce, “Raving and Drooling” e “You Gotta Be Crazy”, destinate a cambiar nome e a trovare poi spazio all’interno di Animals.

Pink Floyd

Syd Barrett, 1975
Wish You Were Here è un disco altamente autobiografico: molti sono infatti i nostalgici riferimenti a episodi o canzoni del passato. C’è dunque una certa malinconia di fondo, fomentata anche alla nota dedica a Syd Barrett, fondatore e primo leader della band divenuto ormai “vegetable man”. Dopo essere sparito dai radar per tre anni, la mattina del 5 giugno 1975 Syd compare negli studi di Abbey Road spaventosamente cambiato: sovrappeso, avvolto in un impermeabile da cui spunta uno spazzolino, ha la testa e le sopracciglia rasate. Dopo esser stato riconosciuto a stento dai suoi ex compagni, chiede di poter registrare la sua parte di chitarra, ma la sua richiesta si scontra con il rifiuto di Roger Waters che gli comunica che quelle sezioni sono già state tutte completate. Syd rimane comunque a mangiare con la band per celebrare il matrimonio di Gilmour, ma i suoi comportamenti sono quantomeno allarmanti. Più volte, viene trovato a pulirsi i denti con lo spazzolino: a chi gli chiede la ragione, risponde semplicemente che a casa ha un frigo enorme pieno di carne di maiale. Concluso il pranzo, Barrett sparirà senza neanche salutare, lasciando i suoi vecchi compagni con le lacrime agli occhi. Nessuno dei Pink Floyd lo avrebbe più rivisto: solo Roger Waters lo incontrerà per l’ultima volta alcuni anni dopo ai magazzini Harrods a Londra, ma non appena Syd lo riconosce, scapperà via correndo, lasciando cadere a terra due buste piene di dolciumi.
Il disco inizia esorcizzando subito il fantasma del passato di Syd nella maestosa Shine On You Crazy Diamond che viene divisa in due parti, poste da introduzione e da coda. In tutto il percorso, spicca il magistrale connubio tra Gilmour e Wright, entrambi all’apice della propria espressività, accompagnati dagli assoli del sassofonista Dick Parry. Si tratta di quasi mezz’ora di musica avvolgente, seppur meno avventurosa rispetto al passato, tanto che Barrett riferirà a Waters dopo averla ascoltata che la suite “suona un po’ vecchia“.
Le canzoni nel mezzo sono indispensabili per godere appieno di quest’esperienza: si comincia con il rock “sintetizzato” di Welcome to the Machine, una canzone imbevuta di quell’essenza psichedelica e acustica tipica dei primi album di stampo barrettiano, mentre Have a Cigar è il pezzo più ambiguo del novero, con una cinica atmosfera che sembra presagire le disamine sociali di Animals. Gilmour non si trova però a suo agio col testo, così a dargli voce sarà Roy Harper, che nello stesso studio sta registrando HQ. La canzone è inoltre rappresentata sul retro della copertina dall’immagine “senz’anima” del venditore nel deserto che offre un album dei Pink Floyd, metafora visiva dell’industria discografica senza scrupoli. A ribadire il concetto, ad un certo punto si possono sentire le parole “A proposito, chi di voi è Pink?“, sarcastica ripresa di una domanda posta alla band in più occasioni agli inizi della carriera.
C’è chi vuole vedere in alcune tracce un’aspra requisitoria verso l’industria musicale, denunciata di inumanità: nonostante ciò, ineccepibile è l’influenza del fattore-Barrett all’interno di questo disco, soprattutto nell’intramontabile title-track Wish You Were Here. L’introduzione viene registrata puntando un microfono nello stereo della macchina di Gilmour, così che nel cambio di frequenze è possibile riconoscere un frammento dalla Quarta Sinfonia di Tchaikovsky. Waters a proposito del senso della canzone dirà che “è quello di non accettare mai un ruolo di protagonista all’interno di una gabbia”, anche se il significato è ovviamente più intricato, soprattutto a causa delle tante domande poste nei versi, che trovano risposta soltanto sul finale. L’immagine delle due anime che si aggirano in uno spazio ristretto, come i pesci nella loro vasca, è la perfetta descrizione di due persone che, pur amandosi e sentendosi vicine, si ritrovano comunque lontane nella realtà. L’unica cosa che resta è la volontà di far emergere quella dolorosa mancanza, l’inettitudine di quel “vorrei che tu fossi qui”: tuttavia, anche ammettendo il sentimento, ci si ritrova solo a scontrarsi, appunto, con le “stesse vecchie paure”.
“Eravamo in un momento cruciale e arrivammo persino a pensare di doverci scioglierci” riferirà anni dopo Roger Waters. Nonostante la sua nascita travagliata, l’immortalità di Wish You Were Here è cosa nota, tanto che il disco sarà destinato a rimanere uno dei più grandi successi della storia dei Pink Floyd.