
Pink Floyd | The Dark Side of The Moon (1973)
L'opus magnum dei Pink Floyd dietro al prisma più famoso della storia.
Se Atom Heart Mother è il disco della discordia per i fans dei Pink Floyd, The Dark Side of the Moon è invece quello che mette tutti d’accordo, raggiungendo consensi quasi plebiscitari.
E pensare che questa grande pagina di storia nasce quasi per caso nella solita cucina “ispiratrice” di Nick Mason alla fine del 1971, quando Roger Waters propone di integrare il nuovo album come parte del tour di gennaio. All’inizio, il bassista si occupa quindi dei testi, lasciando le musiche a Gilmour e Wright: il tema di base è fondamentalmente quello di un concept-album sull’alienazione mentale e sui conflitti interiori, tutti incentrati sul “lato oscuro” dell’uomo, a cui il titolo fa metaforicamente riferimento. Al ritorno dagli USA, il nuovo album viene poi registrato tra il maggio del 1972 ed il gennaio del 1973 agli studi di Abbey Road con l’allora tecnico del suono Alan Parsons e la supervisione di Chris Thomas, con sessioni programmate in modo da non sovrapporsi alle partite dell’Arsenal, di cui Waters è un grande sostenitore, e dei programmi televisivi dei Monty Python, che il gruppo era solito guardare durante le giornate di riposo.
Alan Parsons e Roger Waters ci tengono particolarmente a questo nuovo disco, tanto da passare al setaccio molte voci della nastroteca di Abbey Road, oltre che intervistare a caso diverse persone sul senso della vita e della morte: così, tra le altre, finiscono su nastro le voci di Paul e Linda McCartney (poi non utilizzate) e quella di Henry McCullough (dei Wings), oltre che le affermazioni di vari personaggi – più o meno sconosciuti – che andranno a comparire a più riprese nel corso del disco. Viene perfino chiamato per l’occasione anche il sassofonista Dick Parry, amico di vecchia data di David Gilmour, che suonerà il sax in due brani – quello che manca all’appello è, infine, soltanto un titolo adeguato, un titolo che nei fatti sarà frutto di un riciclo: un anno prima infatti, i Medicine Head uscirono con un disco dal titolo “Dark Side of The Moon” ma, essendo stato un flop, i Pink Floyd possono usarlo nel loro nuovo album, che aveva la sua provvisoria denominazione di Eclipse – A Piece For Assorted Lunatics.
The Dark Side of The Moon vede così la luce il 24 marzo 1973, edito dalla Harvest con alcuni scarti dai precedenti album (“Us and them“ da Zabrieskie Point e “Brain Damage“ da Meddle) e con la garanzia della grafica di copertina ad opera dello studio Hipgnosis di Storm Thorgerson, che propone un’altra idea semplice ma estremamente efficace (come era stato per Atom Heart Mother): un prisma rifrangente su sfondo nero, il contrasto tra lo spettro luminoso e l’oscurità che lo circonda. Nessun titolo o nome appare in copertina: ci penserà la musica al suo interno a rendere quel prisma indelebile nella storia, facendolo divenire il simbolo per antonomasia dei Pink Floyd nell’immaginario collettivo.
Come rivelato da Waters alla rivista Sound poco prima della partenza per il tour: “l’idea di base era di fare qualcosa di meno astratto rispetto al passato“. Quest’affermazione pare particolarmente veritiera sul primo lato del disco, che sembra concentrarsi concretamente sul rapporto dell’uomo con il tempo e la sua alienazione nell’adempimento della felicità: l’album si apre quindi col battito cardiaco altamente simbolico di Speak to Me, una ouverture contrassegnata da un crescendo di rumori che udiremo in altri luoghi nel corso del disco e dalle risate maniacali del roadie Peter Watts (padre dell’attrice Naomi Watts), un collage di musica concreta che lentamente si esaurisce, sigillando un brano che diventerà l’apertura fissa di molti concerti.
La languida Breath, un miscuglio di pacata e amara consapevolezza, imposta poi efficacemente il tono dell’intero album ma vuole rappresentare testualmente anche l’essenza stessa dell’intera vita, con un accordo finale che riprende quello di Kind of Blue di Miles Davis.
La frenetica On The Run – opportunamente intitolata – era nella sua archè una improvvisazione per organo e chitarra, ma viene qui segnata da impetuose sonorità accelerate e dalle esplosioni ad alta velocità del sintetizzatore, tra effetti del nastro e residui del periodo psichedelico, che lanciano una corsa contro il tempo che porta proprio a Time, uno dei capolavori dell’album ed uno dei pochi brani ad essere stato scritto ad otto mani dalla band al completo. Si tratta un’epopea della vita scandita dal battito degli orologi (registrati da Parsons in un negozio di antiquariato) e da un Gilmour magistrale nelle vesti di Cronos, mentre il testo riprende la “calma disperazione” di un’esistenza che “tira avanti”, sopravvivendo alla società moderna nel rammarico soffocante del tempo perduto, che nonostante le “corse” è fatalmente irrecuperabile.
Breath (Reprise), durante le sessioni di registrazione era stata chiamata provvisoriamente “Home Again“ e riprende il motivo di Breath in maniera più luminosa, esorcizzando anche la nostalgia di casa che trapela in Time con una melodia calmante e lenitiva, ma un finale ancora allarmante (“il rintocco della campana di ferro invita i fedeli ad inginocchiarsi, a sentire incantesimi narrati sottovoce“).
Esorcizza invece la morte The Great Gig in the Sky, che nasce come un pezzo per pianoforte elettrico e testi biblici (battezzato “The Mortality Sequence”) per poi venire incisa come una sinfonia celestiale dominata da Richard Wright e dalla sconosciuta Clare Torry, i cui gemiti esprimono a piena voce l’estasi della libertà e l’agonia della morte: Parsons conobbe per caso questa cantante specializzata in cover di brani famosi e la fece venire in studio per alcune prove, pagandola solo 30$; trent’anni dopo, Clare avrebbe deciso di reclamare la sua quota, vincendo la causa nell’ottobre del 2005 con la clausola di non divulgare alcun dettaglio sulla vicenda.
Il secondo lato – in cui vengono “dantescamente” passati in rassegna i mali della società – inizia con il capolavoro del disco, la leggendaria Money, un furioso funky in 7/4 (con tanto di registratori di cassa) ispirato al libro di George Eliot, “Silas Marner“; si tratta di una delle canzoni più ciniche e nello stesso tempo più esplicite della band, che proprio qui musicalmente dà il meglio di sè con una strumentazione leggera, a discapito del testo veemente ed accusatorio verso il consumismo, che evidenzia con grandi dosi di sarcasmo come il denaro sia la radice di ogni male.
Dopo la tempesta, vi è la quieta con la ballata esistenziale di Us And Them, iniziato come un pezzo di pianoforte intitolato “The Violent Sequence” durante le sessioni di Zabriskie Point e qui osannato dal dolce sax di Dick Parry quasi in modalità da night-club, con un testo che si scaglia contro ogni forma di guerra a favore di un ritorno all’umanità (“us and them and after all we’re only ordinary men“), anticipando i temi bellici che Waters avrebbe meglio sviluppato in The Wall, in ricordo della morte del padre nello sbarco di Anzio durante la Seconda Guerra Mondiale.
La strumentale Any Colour You Like non è invece generalmente considerata uno dei punti culminanti dell’album, ma mi permetto di dissentire: il suo titolo riprende una nota battuta di Henry Ford – secondo il quale il modello T era disponibile in qualsiasi colore, purché fosse nero -, mentre sullo sfondo si può assistere ad una jam psichedelica condotta da un caleidoscopico Richard Wright all’organo Hammond e ai sintetizzatori. È interessante sottolineare che proprio dopo questo disco, il ruolo del tastierista all’interno dei Pink Floyd verrà notevolmente ridimensionato.
Successivamente, veniamo inglobati nella vorticosa insania mentale di Brain Damage, dove sembra che Waters stia parlando direttamente a Syd Barrett mentre canta: “Tu urli e nessuno pare sentirti e se il gruppo in cui sei inizia a suonare melodie differenti, io ti vedrò sul lato oscuro della luna“.
Nick Mason introduce coi suoi battiti la maestosa epica finale di Eclipse, sottolineando in ultima analisi come la chiave della felicità risieda nella nostra volontà di accettare tutto quel che ci capita (“all that you touch, all that you see, all that you taste, all you feel“) e ricordando, anche nella disperazione, come non esista in realtà un lato oscuro della luna. Ugualmente, dobbiamo imparare a convivere con la nostra congenita oscurità, con i nostri atavici tormenti esistenziali, con ciò che non potremo mai riparare perchè la vita è una sola ed il tempo perso non può essere recuperato. Verso la fine si possono sentire proprio le parole di Gerry O’Driscoll, il portiere dei leggendari studi di Abbey Road che, intervistato sul senso della vita da Roger Waters, rimarca il concetto: “Non c’è un lato oscuro della luna, tutto è oscuro. L’unica cosa che la fa sembrare luminosa è il sole“. La speranza? La religione? Chi lo sa… Ognuno ha il proprio sistema eliocentrico, quel qualcosa o quel qualcuno che poniamo al centro della nostra esistenza, la luce che rischiara le nostre tenebre. Trovo infine molto affascinante che, proprio mentre il portiere parla, si possa udire in sottofondo una sezione orchestrale da “Ticket to Ride” dei Beatles: una semplice e romantica casualità, un po’ come la nascita di questo The Dark Side of The Moon nella cucina di Nick Mason.
The Dark Side of The Moon nasce come un lungo continuum senza pause, trascendendo la somma delle sue parti: prese singolarmente le canzoni non suscitano quindi così tanti superlativi come lo scorrere dell’intera opera – proprio per questo, nel mercato britannico non venne pubblicato nessun 45 giri, una scelta che tuttavia non ha impedito a The Dark Side of The Moon di rimanere per ben 741 settimane consecutive nelle classifiche inglesi, fermandosi peró paradossalmente al secondo posto dopo Million Dollar Babies di Alice Cooper, un disco di cui oggi non tutti si ricordano (sicuramente non della sua copertina!). Dal quel 24 marzo 1973 i Pink Floyd hanno venduto 45 milioni di copie solo con questo album: ad un certo punto la EMI dovrà addirittura adibire un’intera stamperia tedesca esclusivamente alla produzione dell’edizione CD, non riuscendo a star dietro alla crescente domanda. Quell’anno Alan Parsons per il suo splendido lavoro venne pagato solo 35 sterline a settimana, ma si consolò vincendo il Grammy per il miglior lavoro in studio ed iniziando poi la sua nota carriera solista.
The Dark Side of the Moon è indubbiamente un’opera d’arte che ha saputo gettare le basi del rock per gli anni a venire. I suoni al suo interno sembrano fluire in modo naturale ed ordinato, eppure sono anche molto complessi e stratificati, ed è interessante notare come ad ogni nuovo ascolto si possa trovare un dettaglio fino a quel momento passato inosservato. La pace, lo stress, il tempo, la morte, il denaro, la guerra e la pazzia sono stati messi in musica e sublimati in maniera impeccabile, facendo trovare agli impulsi di Eros e Thanatos un equilibrio fin ad allora sconosciuto nella musica rock.
Tra le innumerevoli leggende metropolitane che circolano sui Pink Floyd, la più curiosa concerne proprio The Dark Side of the Moon: secondo alcune voci, il disco sarebbe stato realizzato per essere ascoltato in sincrono con le immagini del film “Il Mago di Oz“. Ovviamente, qui il proverbio “vox populi, vox dei” non sembra valere, ma pare si ottengano dei risultati curiosi facendo partire l’album dal terzo ruggito del leone che fa da sigla ai film della MGM, specialmente in “Time”, quando Dorothy comincerebbe a correre esattamente nel momento in cui la band canta “no one told you when to run” (“nessuno ti ha detto quando incominciare a correre”). Ciò che, al di là delle fantasie popolari, rimane invece certo è che dal successo di The Dark Side of The Moon e dalla crescente attenzione dei media, sarebbe iniziata la storica idiosincrasia di Waters verso il mondo del business musicale e, per usare proprio le sue parole, “The Dark Side of the Moon segnò la fine dell’energia creativa dei Pink Floyd“.