
Pink Floyd | Ummagumma (1969)
Uno dei dischi più controversi dei Pink Floyd, progressivo nelle intenzioni ma pretenzioso nel risultato
Nel 1969 la EMI aveva appena inaugurato la sua succursale underground, la giallissima Harvest Records, con lo scopo di competere con la Deram e la Vertigo, sussidiarie rispettivamente della Decca e della Philips: questa nuova etichetta sarà poi concessa ai Pink Floyd “ad aeternum” e, all’atto della sua nascita, spinse parecchio affinchè il gruppo potesse partorire un degno erede di A Saucerful of Secrets. Vista l’elevata mole di show nel 1969, il tempo in studio era però davvero molto esiguo – proprio per questo motivo si scelse di pubblicare un disco interamente dal vivo, diviso in tre concerti: il 26 aprile a Bromley, il 27 a Birmingham ed, infine, il 2 maggio a Manchester. Alla fine, la prima data non venne utilizzata, nella seconda ci furono problemi tecnici con le apparecchiature, mentre la terza esibizione risultò la meno ispirata della serie, nonostante le macchine funzionassero a dovere. Così, gran parte del materiale provenne proprio da quella “pallida” serata e non, come riportano le note di copertine, dalle due date di giugno, con alcune parti vocali che vennero infine sovra-incise negli studi di Abbey Road.
Il titolo designato per l’album è un’espressione gergale che indica l’atto sessuale (scelto perché “suonava bene e aveva un’aria interessante“), mentre la surrealistica copertina fu ancora opera dello studio Hipgnosis e, nel suo effetto Droste, si presta a svariate interpretazioni, anche se secondo Aubrey Powell è semplicemente un “incontro intenzionale di mondi diversi“. Nell’edizione originale, appoggiato per terra, compariva il disco del musical “Gigi” di Vincente Minnelli, poi rimosso per le proteste del regista. La finestra in primo piano apparteneva invece alla casa del padre della fidanzata di Storm Thorgerson, con Gilmour in evidenza soltanto per motivi estetici, mentre l’ultima delle immagini riflesse è la cover di A Saucerful of Secrets. Sul retro della copertina compaiono invece i due roadies Pete Watts e Alan Stiles (quello della famigerata “colazione psichedelica” di Atom Heart Mother!), con tutto il materiale usato nelle rappresentazioni dal vivo al Biggin Hill Airport: fu un’idea di Nick Mason quella di mettere tutta la strumentazione del gruppo secondo una particolare disposizione, dopo aver visto una rivista militare che immortalava un aereo da combattimento con tutto il suo armamento distribuito in modo analogo.

Il retro-copertina di Ummagumma
Il primo disco (auto-prodotto) recuperò, quindi, quattro dei cavalli di battaglia live dei Pink Floyd: l’improvvisazione cosmica di Astronomy Domine, la minaccia tagliente di Careful With That Axe, Eugene, la siderale litania di Set The Controls for The Heart of The Sun e la sinfonia collettiva di Saucerful of Secrets (l’unica messa insieme con le parti dei primi due concerti). Nei piani erano previste anche Interstellar Overdrive (lasciata fuori per questioni di spazio, il nastro poi regalato a John Peel e rubato) ed Embryo (provata in un concerto alla BBC e poi accantonata fino al 1983, riesumata per la compilation Works). Per Richard Wright questi brani mostrarono soltanto il 50% del potenziale della band, ma di fatto sarà l’unica testimonianza ufficiale su disco del valore concertistico dei primi Pink Floyd.

i Pink Floyd live nel 1969
Il secondo disco, prodotto da Norman Smith (alla sua ultima produzione per i Pink Floyd), rovesciò le carte in tavola: Wright e Gilmour si contendono la paternità dell’idea, più per esimersi dalla responsabilità del progetto che per reale entusiasmo. Il risultato finì infatti per essere troppo pretenzioso, mettendo a nudo i limiti dei quattro componenti: ogni musicista poté beneficiare della sua mezza facciata per comporre ciò che più gli piaceva, tuttavia questo espediente dimostrò soltanto quanto la fama dei Pink Floyd fosse inestricabilmente legata a quella dell’alchimia del gruppo e non all’estro dei singoli talenti.
Richard Wright superó discretamente la prova firmando l’atonale Sysyphus, una suite tascabile in quattro parti di ispirazione mitologica (il mito di Sisifo), che trae la sua linfa vitale dal prog sinfonico, infiammato da caldi aneliti di esibizionismo pianistico e dissonanze psichedeliche. Si deve proprio al tastierista, affascinato dalle soluzioni elettroniche di Karlheinz Stockhausen, l’idea della realizzazione della parte in studio di Ummagumma, preoccupato che la band si stesse troppo fossilizzando su un certo tipo di composizione.
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Roger Waters siglò il pezzo più originale del repertorio, il sogno pastorale di Grantchester Meadows (dal nome di un parco di Cambridge), una ballata acustica cullata dai suoni primaverili e dal cinguettare degli uccelli. Il ronzio stereofonico di una mosca conduce poi alla sperimentale Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving With a Pict, un curioso collage sonoro saturo di accenti scozzesi ed inquietanti onomatopee, ricavate facendo girare alcuni nastri di voci umane a diverse velocità, fino a simulare versi animaleschi. Da qualche parte, a circa 4:30, si può udire infine Waters sentenziare: “un discreto pezzo d’avanguardia, vero?“.
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David Gilmour rovistò invece nella sua faretra e scagliò il suo dardo con A Narrow Way, una minisuite chitarristica in tre movimenti, fomentata da tonanti riff che, in un nevrotico crescendo, incorporano anche uno scarto giovanile (Baby Blue Shuffle in D Major). Da ricordare il singolare episodio in cui Gilmour chiese a Waters di scriverne le parole, ma il bassista rifiutò sostenendo che avrebbe dovuto comporre il testo da solo: nel farlo, David confesserà di aver semplicemente “messo insieme una serie di cazzate“.
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Il contributo di Mason è, infine, il più superfluo di tutti: la nerboruta The Grand Vizier’s Garden Party, anch’essa frazionata in tre parti, è solo un tentativo (poco convincente) di pura sperimentazione percussiva, battezzato e poi sepolto dal flauto della prima moglie Lindy Rutter.
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Negli anni Roger Waters liquiderà – esagerando – Ummagumma come un totale disastro, nonostante le buone recensioni che seguirono la sua pubblicazione. Con una certa distanza storica (e anche stoica, oserei dire!), a quasi cinquant’anni dalla sua prima edizione si possono però intravedere i germogli dei Pink Floyd progressivi di Atom Heart Mother e Meddle e, sotto questa luce, anche quello che pareva un enorme disastro risuona come un’ enigmatica opera d’arte sperimentale.
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