
Pavlov's Dog | Pampered Menial (1975)
Poco più di trenta minuti per la prova d’autore dei Pavlov’s Dog, dove, con arrangiamenti molto curati e una grande varietà di suoni, riescono a bilanciarsi tra loro con grande talento, intelligenza e raffinatezza creando un progressive garbato ed armonioso
Pampered Menial, del 1975, è il disco d’esordio dei Pavlov’s Dog, unico gruppo musicale americano che, per le proprie qualità, è riuscito a guadagnarsi un posto di rilievo nel panorama progressive degli anni Settanta. La band, nonostante nel nome richiamasse quello di uno scienziato russo, Ivan Pavlov, celebre per i suoi esperimenti sul riflesso condizionato che gli valsero il Premio Nobel, si formò nel 1972 a St. Louis, Missouri, attorno alla figura del batterista Mike Safron e della prima line-up faranno parte ben sette elementi: David Surkamp, voce, chitarra; Steve Scorfina, chitarra solista; Mike Safron, batteria; Rick Stockton, basso; David Hamilton, tastiere; Doug Rayburn, mellotron e flauto; Siegfried Carver, violino, vitar (una sorta di ibrido tra chitarra elettrica e violino), viola. La band si presenta con una strumentazione inedita con due tastiere, violino, viola e vitar e propone una bella miscela di progressive, hard rock e folk. L’elemento più noto del gruppo era il chitarrista Steve Scorfina che, sebbene non avesse ancora inciso nulla, poteva comunque vantare una collaborazione con i primissimi Reo Speedwagon.
La band si distinse, tuttavia, per il cantante e frontman David Surkamp, dalla voce talmente particolare da poter essere confusa con una voce femminile (e ci viene in mente Clare Torry di The Great Gig in the Sky per quel tanto di graffiato e stralunato che completano un’espressività peraltro unica), compositore anche dei testi e delle musiche. All’uscita di Pampered Menial, Surkamp dichiarò: «Registrammo in modo molto istintivo, come se suonassimo dal vivo ed in effetti la resa finale fu molto simile a come suonavamo in concerto. Nel gruppo c’erano molti musicisti e ognuno cercava di dare il massimo: eravamo una band molto rumorosa, così anch’io cantavo usando la voce come se fosse uno strumento musicale per emergere sugli altri».
Appena uscito il disco, per motivi ancora oggi non chiari del tutto, la band fu scaricata dalla casa discografica Dunhill Records, distribuita dalla ABC Records, che ne aveva curato la pubblicazione; riuscirono comunque a rimediare un nuovo contratto, questa volta con la CBS-Columbia, che ristampò subito, in quello stesso anno, l’album, cosicchè poche sono le differenze e solamente grafiche tra le due edizioni. La copertina è adornata da stampe di opere dell’artista londinese Sir Edwin Henry Landseer, vissuto nell’800 e che dovette la sua popolarità, in gran parte, al fatto che aveva disegnato le sculture dei quattro leoni in bronzo ai piedi della colonna dedicata all’ammiraglio Nelson in Trafalgar Square.
Poco più di trenta minuti per la prova d’autore dei Pavlov’s Dog, dove, con arrangiamenti molto curati e una grande varietà di suoni, riescono a bilanciarsi tra loro con grande talento, intelligenza e raffinatezza creando un progressive garbato ed armonioso, senza le ansie e i conflitti di quello sviluppatosi Oltremanica, dalla ritmica scorrevole, chiara e comprensibile: un momento di rara ispirazione, dunque, che durò troppo poco, tanto che nel loro lavoro successivo At The Sound Of The Bell, nonostante la presenza di ospiti d’eccezione come Michael Brecker e Andy MacKay ai sassofoni, ne troveremo solo alcune tracce di scarso interesse.
“And I can’t live without your love
And I can’t live without your love
Well I can’t live without you”
Julia: opener e brano migliore del disco, con una intro pianistica nostalgica e romantica; la voce di Surkamp s’innalza in un vibrato sensibile e doloroso ed il brano cresce in maestosità ed enfasi… Una dichiarazione d’amore forte e magniloquente arricchita dal piano di Hamilton e dal mellotron di Rayburn, mentre il delicato arpeggio di chitarra ed il flauto provano ad attenuare l’atmosfera di disperata sofferenza che cresce sino all’urlo commosso con cui il cantante grida il nome dell’amata. L’assolo di flauto a metà circa del pezzo è di Hubert Laws, strumentista dal ricco background jazz e classico e dalle molte collaborazioni prestigiose.
Maggiore risalto per le chitarre elettriche nel successivo Late November dove il dosaggio sapiente di eco/riverbero accresce la spazialità del piano musicale regalando una dimensione in più, sognante e futuristica, all’ascolto. Tastiere in grande evidenza e suoni più progressive a sostenere un canto ancora triste e introspettivo. Più marcata la ritmica di Safron e ottimo Scorfina alla chitarra.
Song Dance: una delle migliori intro di tutto il progressive; Scorfina si occupa della motrice con dei riff potentissimi, sostenuti dalla ritmica bellicosa di Sofron e Stockton e dal violino al vetriolo di Carver. Il mellotron crimsoniano di Rayburn avvolge la scena sonora ripetendo il riff in acute sovrapposizioni e Surkamp aggredisce questa volta il testo offrendo un’interpretazione semmai ancora più brillante e dirompente, una voce davvero irragiungibile paragonabile per certi versi a quelle di Geddy Lee e Bernardo Lanzetti.
Si tira il fiato dopo il potente hard rock di Song Dance per approdare al successivo Fast Gun in cui i toni si attenuano nelle suggestive emozioni trasmesse dal violino e dalle tastiere. Ottimo il drumming di Safron.
Natchez Trace: è il brano di Scorfina, tutto orientato al puro rock’n’roll e di Surkamp, nelle vesti di rocker forte ed aggressivo, tagliente e volitivo. Il piano di David Hamilton, diventa per lunghi momenti protagonista della scena ed insieme alla ritmica di Safron, più a suo agio nel calore del rock, fornisce il centro di gravità a tutto il pezzo.
Theme From Subway Sue: è il brano che rappresenta meglio i Pavlov’s Dog, senz’altro americano, senz’altro rock ma anche un po’ folk, senz’altro potente ed energico soprattutto nell’assolo di chitarra che prelude al finale di grande bellezza espressiva. Surkamp, qui meglio che altrove, manifesta appieno la sua vocalità ardente ed intensa creando un poderoso incantesimo che non smette dopo così tanti di sfolgorare ad ogni ascolto.
Seguono il malinconico e delicato Episode, affidato al violino di Carver e il brano strumentale Preludin, che apre la via al gran finale: Of Once And Future Kings, anche questo un brano prevalentemente rock, una mini-suite con molte variazioni nei temi e nei tempi. C’è molto progressive in questo bel finale, ma ciò che piace di più è l’originalità e la ricchezza delle idee un po’ rock, un po’ progressive e persino un po’ blues.
Questo disco, ormai oggi dimenticato, nonostante quasi quarant’anni di vita, resta intatto nel suo fascino crepuscolare e romantico e ha ancora qualcosa da regalare a chi l’ascolta oggi cercando proprio in quegli anni gli indizi del nostro presente.