
Patrizio Marrone | Conversazioni con le cose senza nome (2016)
Otto tracce costituiscono l’offerta musicale del nuovo disco di Patrizio Marrone; tra queste, cinque prendono il titolo di “Conversazioni con le cose senza nome”, esplorando/mostrando una scrittura per strumenti solistici: pianoforte, violino, chitarra. Non potrò mai dimenticare il consiglio offertomi in dono dal compositore Franco Di Lorenzo (lavorò per la Rai, e fu ingegnoso Maestro di strumenti a fiato). In un lontano incontro mi confidò come il successo di un brano orchestrale potesse misurarsi dall’attenzione rivolto ai ‘solo’ presenti nel brano. Guardando al Novecento, Maurice Ravel procedeva autosfidandosi, con scommesse scritturali e immaginative, che puntualmente vinceva, nel modo oggi noto a tutti. Quella modalità, col tempo, degenerò con lo sperimentalismo deteriore in un’esplorazione sistematica, esposta a fin troppo facili critiche, dei limiti fisici e poetici di ciò che fosse possibile fare, e soprattutto fosse lecito proporre al pubblico, nella pretesa che fosse quest’ultimo a doversi ‘adeguare’, crescere, impegnarsi per comprendere. Tutto ciò, oggi, è finalmente storia, e risulta assimilato, grazie a nuove consapevolezze estetiche, e il disco di Patrizio Marrone fornisce un’occasione per interrogarsi una volta in più sui modi del comporre, anzi sui ‘modi’ che oggi un compositore realmente figlio del suo tempo ha a disposizione per vincere la sua personale scommessa di riconoscibilità, efficacia, esplorazione di nuove vette immaginative e di inedite possibilità di linguaggio. È un ragionamento che poniamo come assunto realmente contemporaneo (vivente), ma che studiando i trattati del passato risulta essere antichissimo, e che stabilisce anzi una soglia di impermanenza delle regole, così come allusivo, d’altra parte, alla costante tendenza al superamento.
Patrizio Marrone vince questa scommessa. I brani della suite (2004/2014) ci mostrano un panorama costruttivo potente, che riesce nell’intento del trasferimento di una poetica personale. I primi tre pezzi delle “Conversazioni” sono rivolti al pianoforte. Uno strumento, se si vuole, logorato per una storia troppo lunga, troppo importante, con brani di repertorio che pesano fortemente nella sua evoluzione storica. Eppure questa scrittura riesce e sorprende, e bisogna notare che Ciro Longobardi, che è davvero splendido protagonista del cd, padroneggia i tre numeri dedicati al pianoforte con una maestria davvero rara in altri interpreti “specializzati”. Longobardi riesce a essere sognante nei passaggi che richiedono dilatazione per valori lunghi o per citazioni di modalità quasi improvvisative, e parimenti a stringere le pulsazioni con vero virtuosismo, ad esempio nella terza delle “Conversazioni senza nome”, dove il ritmo e l’incedere mi fanno pensare a una Toccata contemporanea di inesorabile bellezza. Longobardi ha un suono controllato, funzionale allo scopo, alla matrice determinata da Marrone.
Dopo quella che ho definito (con licenza) una Toccata, segue una bella prova di Tommaso Rossi, che al flauto dolce interpreta “Non è una carezza”. Qui l’esplorazione e la sorpresa dell’ascoltatore si fanno ancora strada, sia nel costatare la padronanza di Rossi nei passaggi più impervi, sia nell’ampliamento della nozione comune di ciò che un flauto può produrre.
Il disco si conclude con un Adagio e un Rondò del 2005, entrambi per quartetto di sassofoni, che ci raccontano le radici autorali di Patrizio Marrone, compositore sul quale dovremo tornare (sto in questi giorni ascoltando un suo lavoro inedito su Le Troiane, che ci mostra una ‘seconda maniera’ altrettanto densa e interessante), e che vanta riferimenti al didatta Bruno Mazzotta, ma anche a Franco Donatoni, a Giacomo Manzoni, e ad altri numi tutelari della composizione italiana. La duttilità e la modalità di Marrone va a impreziosire e a rendere unica una produzione che, a parer di chi scrive, va al di là di quei riferimenti.
Gli altri interpreti vanno tutti menzionati, non potendo qui esaurire con una analisi dettagliata tutti i numeri dell’opera: dal quartetto Arkadia al violinista Daniele Colombo, e allo splendido chitarrista Antonio Grande. Merita citazione anche la ripresa del suono e l’editing di Paolo Rescigno, nonché la cover di Aladino Ansani.
Insomma, un disco che se dovessi usare due sole parole, definirei come autorevole e consapevole. O, se si preferisce, autorevolmente consapevole.