
Museo Rosenbach | Zarathustra (1973)
Una perla del progressive italiano vittima di ostracismo e pregiudizi
L’esistenza del Museo Rosenbach, band genovese inscindibilmente legata al loro primo LP, Zarathtustra (1973, Ricordi), è caratterizzata dagli eventi che hanno colpito tanti gruppi nostrani, come il Balletto di Bronzo o Il Biglietto per l’Inferno: in costante ascesa all’epoca, furono ignorati dal grande pubblico per scarsa pubblicità e promozione, predicando per breve tempo e concependo un capolavoro che sarebbe stato apprezzato dopo svariati anni di distanza.
Quel che però differenzia le vicende del quintetto di Bordighera dai gruppi sopracitati (anch’essi in nutrita compagnia) sono soprattutto gli equivoci: quelli che li hanno visti sperimentare, provocare e poi sparire per via di un segno, un’immagine che non gli apparteneva, ma che loro stessi hanno voluto proporre, per stupire, indignare, o forse accendere curiosità all’interno del movimento pop italiano.
Non bastassero i richiami a Nietzsche, allora filosofo dell’ultradestra ancora lungi dall’esser sdoganato e dipinto di rosso da Gianni Vattimo, nella copertina realizzata da Wanda Spinello, un collage composto sul viso di un umanoide, era infatti presente anche il volto di Benito Mussolini. Un suicidio assistito per i giovani genovesi, additati come fascisti senza coltivare passioni ultraviolente, bensì rapporti cordiali con la scena pop italiana, a cominciare da Renzo Arbore.
Ciò gli procurò non solo l’ostracismo di riviste, radio e organizzazioni della controcultura, ma anche il cortese rifiuto della Rai di proporli sugli unici canale nazionali esistenti, per non crearsi ulteriori problemi. Senza internet e i floridi magazine di oggi, in un clima di pesante contrapposizione politica, ciò valse la fine dell’avventura dei falsi neri, scioltisi nel 1973 ad appena due anni dalla loro formazione.
Un sound così però in Italia non si era quasi mai sentito. Ben prodotti ed arrangiati, guidati da un ispirato Alberto Moreno (bassista e compositore del gruppo) e scaldati dalla profonda voce di Stefano Galifi, i nostri partono forse in sordina, ma sugli echi dei King Crimson con L’Ultimo Uomo, dove le chitarre ed il Mellotron si spalleggiano, specialmente nel tema finale, sino a sfociare nel pathos de Il Re Di Ieri, dominata ancora dalle tastiere e dal piano di Pit Corradi.
Sintetizzatori sporchi e chitarre acide pervadono Al Di Là Del Bene e Del Male, vero anthem di questo disco, addolcito con brevi stacchi di archi e sottoposto al pressante martello del futuro Matia Bazar Giancarlo Golzi dietro le pelli.
L’inquietudine lirica e strumentale ci portano nel cuore morale del lato A, in quella Superuomo che narra l’errante viaggio dello Zarathustra nietzscheano, lontano da Dio e pronto a tornare fra gli uomini incensando nuove verità; il Mellotron che chiude la traccia è una gemma di venti secondi da riascoltare ad infinitum sino al logorio del vinile, preambolo delle fatiche de Il Tempio Delle Clessidre, introdotta a sua volta da una marcetta e permeata dalle pompose atmosfere tanto care a Moreno e soci. La chitarra di Enzo Merogno può invece sfogarsi, accompagnata dal solito Corradi, nel reprise finale de L’Ultimo Uomo.
Così si chiude Zarathustra ed i pezzi più complessi ed elaborati lasciano così spazio alla velocità ed ai manierismi sinfonici di Degli Uomini, opening del lato B, dove albergano massicce le influenze dei Crimson e del Progressive inglese.
Il capolavoro nel capolavoro è Della Natura, penultima fatica, terreno fertile per la struggente e calda voce di “Lupo” Galifi, accompagnata da Hammond e Mellotron ancora in grande evidenza; tra un affondo sinfonico e i proclami di Galifi c’è il martellante basso di Moreno, qui in grandissima forma ed in perfetta simbiosi con le tastiere.
Zarathustra è stanco e, dopo aver provato a spiegare al popolo i risultati delle sue decennali meditazioni, si avvia al crepuscolo. La voce di Galifi canta più nelle due tracce finali che nel resto del disco, urlando il suo nichilismo e la sua sfiducia per la propria specie ma senza pentirsene, conscio che avrebbe ripercorso ogni suo passo in qualsiasi mondo possibile, protetto da quell’Eterno Ritorno che lo assicura di tutto il suo cammino, nonostante “muoia senza sperare che qualcosa nasca, qualcosa cambi”.
Dell’Eterno Ritorno mostra l’artiglieria pesante alle tastiere, con Mellotron, Far Fisa ed Hammond ad emozionare ed inquietare allo stesso tempo nell’apodittico finale.
Qualcosa da questo capolavoro-fallimento però è nato. Il Museo Rosenbach ha pagato dazio e, a distanza di anni, Zarathustra è ormai riconosciuto come un caposaldo del Progressive italiano, costantemente citato da musicisti e critici in una tardiva, quanto dovuta, riabilitazione, favorita anche dal loro successo sul mercato estero, giapponese in primis.
Oggi il Museo Rosenbach è ancora attivo, dando seguito alla propria attività con altri (rari) dischi e diverse ristampe, esibendosi sovente live. D’altronde la volontà di potenza non può temere miseri ed umani pregiudizi.
Formazione:
Alberto Moreno: basso, pianoforte, testi.
Pierluigi “Pit” Corradi: tastiere, mellotron, far fisa, organo.
Enzo Merogno: chitarre.
Stefano “Lupo” Galifi: voce.
Giancarlo Golzi: batteria, percussioni.