
Max Fuschetto | Sun Na (2015)
Incessante cross-over linguistico: musica colta, etnica, popular, improvvisazione e molto altro
Il nuovo disco di Max Fuschetto, il cui titolo è Sùn Ná – che in lingua Yoruba significa “dormi ora” e, per una sorprendente assonanza le stesse parole, unite in una sola, nel dialetto campano dell’autore significano “sognare” – è un lavoro che attraversa la musica sperimentando nuovi equilibri a partire dalla ricca messe strumentale e vocale dove la ricerca di inedite combinazioni sonore rende sospeso e sfumato il confine tra gli strumenti tradizionali e il corpo elettronico. Questo lavoro si caratterizza per l’incessante cross-over linguistico: musica colta, etnica, popular, improvvisazione e molto altro. Un prisma che arricchisce la trama sonora di molteplici risonanze e per un nuovo e interessante rapporto tra gli elementi in primo piano, come i temi e i motivi, e lo sfondo accuratamente elaborato.

Max Fuschetto
Oniric States of Mind
Si viene immediatamente proiettati in un mondo poetico d’autonomia e bellezza.
è universo di presenza, denso, d’allerta. Sorge subito la percezione di un’essenzialità nel linguaggio, un incipit che promette. Attesa. Concisione…
Secret Shadows
Masse sonore interpuntano il dialogo di pianoforte e chitarra. Depistamenti nelle risoluzioni armoniche, che in Max Fuschetto sono sempre raffinate, talvolta inaspettate. Spingono all’attenzione, all’attesa della parola ulteriore. In “Secret Shadows” si arriva alla consapevolezza d’unitarietà discorsiva nella successione delle tracce.
Qem Ma Tija (Portami con te)
Si apre come se una variazione ritmica riprendesse quanto iniziato poco prima. è uno dei brani che sento più ‘performativi’: accattiva, cattura non solo con la ritmica, ma con soluzioni discorsive che vanno verso l’alto. La voce di Antonella Pelilli (le voci), conquista con decisione. è assertiva, ma non ridondante. Il brano suggerisce un senso di accaduta malinconia. E, tuttavia, la ritmica lo sorregge, come se profferisse energia oppositiva, una energia che la teoria dell’anima ha indicato come ‘istinto di vita’. Il testo recita, alternando difatti questi sentimenti (complementari?): “Portami con te” oltre la sofferenza, i corpi “gelidi”, portami verso carezze, mani che pregano “e si donano al servizio”. Il transito e il viaggio: una caratteristica che riprende, a mio avviso, quanto disegnato nel primo lavoro discografico (“Popular Games”) di Max Fuschetto.
“Mi sono ritrovato a camminare” (recita uno degli ‘appunti di viaggio’ disseminati nell’allusivo, concettuale, libretto d’accompagnamento…); a camminare, stupito nel silenzio, di notte, catturato dal giardino dai mille colori. I fiori di Goethe?
Si Trëndafile
Ho sempre pensato a questo brano come a una berceuse. Ma la forma trascende se medesima, con un effetto straniante del violoncello, che sorprendentemente entra, e rapisce, con soluzioni armoniche stupende. Non si può che segnalare la profonda coerenza tra musica e testo, caratteristica di tutto il progetto/mondo; ma sarebbe sbagliato immaginarla come banalmente ‘descrittiva’. Preferisco parlare di un’opzione di coerenza…
Vanno segnalate le ‘chiuse’ dei brani. Anche quando questi ultimi appaiono brevi, il pericolo aforistico non viene nemmeno sfiorato, a meno di pensare a quei detti lancinanti di Karl Kraus, dove universi di senso restano aperti all’immaginazione. Le chiuse, dunque, talvolta sono un suono solo, isolato. E ripenso al canto d’addio di Adrian/Faust in Thomas Mann, a quei suoni prolungati, che restano a raccontare qualcosa di un’avventura consapevole del suo essere postmoderna. O meglio, di un’accaduta postmodernità: “come un usignolo, voli verso il cielo”…
Return to A.
Anche qui, il punto cruciale mi pare essere il suono del violoncello, lasciato in una sezione della texture di maggiore evidenza, tra continuum delle percussioni leggere, e le voci. Una notazione particolare va al trattamento dei fiati, che anticipano, forse, gli intrecci armonicamente arditissimi che saranno a loro dedicati nella penultima traccia.
Paisagem do Rio
A mio avviso, questo brano mostra la coesione tra le provenienze ‘storiche’ di Max Fuschetto, ma con aperture sorprendenti, cittadine, metropolitane, quasi pitch, che sono caratteristiche anche del suo approccio strumentale in performance. Si tratta, dunque, di un percorso che per essere compreso appieno dovrebbe confrontarsi con gli interventi di Fuschetto lungo il cammino pop e attraverso quello concertistico. Ma, ripeto, subito l’incipit cede il posto ad entrate anche minimali. Una caratteristica profonda del linguaggio/modo di Fuschetto è certamente una temacità che appare coesa con il peculiare trattamento ritmico. Naturalmente, questa modularità è elastica, duttile, permutativa come può accadere in un’altra matrice culturale da lui amata e ammirata: quella della musica africana.
Segnalo la sottigliezza delle percussioni, alternata a delle profonde e incisive (nel senso di frammenti/inciso) entrate del pianoforte, dal bel suono denso e profondo.
Il brano mi dà l’occasione per segnalare anche un altro aspetto dell’intero cd: la straordinaria nitidezza di tutto ciò che accade, cosa molto rara quando si usano geometrie così complesse, tutte risolte con levità e realizzate con apporti strumentali acustici, ripresi anche singolarmente sul campo, con apporti di straordinari interpreti…
Tutto ci parla di una visione, intesa come capacità costruttiva, che si fa architettura, abilità di modellazione che asseconda la poetica immaginativo/compositiva.
Vibrazioni liquide
Nel brano compare, credo, ancora Africa; ma anche ritmica, masse compatte per agglomerati timbrici, sui quali ultimi svettano, come segnali (avamposti segnaletici, come direbbe T. W. Adorno) che creano reazioni/relazioni, forse aggiungendo una delle multiple linee interne al panorama (e il discorso è deleuziano). Anticipi di melisma preparano il successivo “In preghiera”, ove compare l’elemento dell’acqua e quello, forse evocativamente più forte secondo ciò che mi suggerisce il brano, della terra. E la ‘terra’, che passa per non “lasciarti più”, è forse l’Albania, o la terra dell’Albania d’Italia, visto che una delle lingue utilizzate nel disco è proprio l’arbëreshë.
In preghiera
…è un soffio, questa preghiera. Eppure, nella sua brevità, rappresenta un ponte di senso, che rilancia l’apice scritturale del cd, rappresentato, per me, da “Samaher”…
Samaher
In “Samaher” la scrittura si fa puntillistica; il trattamento delle voci è consapevole della tradizione colta del Novecento; ma gli archi richiamano l’Oriente; le percussioni trascendono l’Africa per approdare al trattamento ‘americano’ del free-jazz: un uso molto raffinato, che non è tuttavia derivazione dalle evoluzioni seriali, che non possono permutarsi per il divieto di reiterazione tipico del “Questo” donatoniano. I glissati del violoncello richiamano ancora quel pitch caratteristico di altri paesaggi/tracks del cd. Dei fiati s’è già detto: credo sia ancora una trama che dialoga con i compositori americani di seconda generazione.
Les Roses d’Arben
Senso di serenità, quella di un percorso che si riappacifica con quanto accaduto. Lo scambio sensitivo è tra la voce di Andrea Chimenti e quella di Antonella Pelilli. Gli anelli alle chitarre, realizzati da Pasquale Capobianco, lasciano talvolta che le voci vi si aggancino tessendo reciprocità. Il violoncello di Silvano Fusco è più disteso, e parlo anche della ripresa del suono, laddove-altrove era denso d’inquietudine, carico di promessa e domande. Un elemento che sutura.
Elementi extramusicali
Un cd non può essere solo virtuale. Un cd dedicato a mondi, un disco che disegna un panorama, come è questo lavoro, ha bisogno di uno studio sulla grafica (di Marianna Longo, su foto di Antonio Coppola e Cristina Zuppa), che appare consona al paesaggio. Un ombrellino capovolto; la globularità del colore ‘spruzzato’; una luna o sole appena offuscato; le tinte viola o blu; l’apparizione di una valigia, o di fiori, forse i magici ‘soffioni’ con i quali giocano i bimbi, ma violetti…
Il gioco del testo ideato da Max: “Luce solare su palpebre chiuse”… è proprio vero: il Respiro misura le cose, attraversa il tempo e, infine, si fa musica.