
Luigi Porto | My My After World (2004)
L'album elettronico di Luigi Porto; inquietudini post-nucleari, incubi di moderni olocausti, fughe senza ritorno in cerca di una libertà irraggiungibile
“Credo che la musica debba essere, soprattutto, un’esperienza. Non mi interessa la musica narrativa che ti prende per mano e ti porta dove vuole lei, sono insofferente all’autorità di qualsiasi tipo, anche delle note. Non mi interessa neanche, per dirla come Byrne in un recente articolo sul New York Times, che la musica diventi una “spa” per anime in cerca di relax. Non mi interessa nessun elemento rassicurante, per me la musica è perturbante o non è. Deve essere un terremoto, deve scuoterti, come la musica tribale, come gli esorcismi di una funzione gospel ad Harlem (che sono veramente “psichedelia” nel vero senso della parola)”
Luigi Porto cosi ci descriveva, qualche mese fa, la sua visione della musica, la sua idea di una musica affatto rassicurante, che incuta timore e scuotimento, incertezze e inquietudini, non mero rilassamento per distratti ascoltatori da salotto. Andando a guardare indietro nella sua discografia si può essere certi che l’album che più degli altri ha mostrato questo aspetto sia certamente questo introvabile lavoro del 2004, pubblicato a nome Mond, che contiene in sè ognuno degli aspetti descritti precedentemente.
Come ho avuto modo di dire altre volte, credo che la musica elettronica sia la vera colonna sonora del nuovo millennio, la musica che meglio descrive i tempi che stiamo vivendo. Luigi Porto crea una piccola ma meritevole parte di questa sterminata discografia di opere che fanno parte di una ideale colonna sonora del ventunesimo secolo. Ad ogni modo My My After World è rimasto totalmente sconosciuto, se non agli amici intimi di Porto, relegato in un limbo dal quale meriterebbe di uscire il prima possibile.
L’album nasce da un sogno molto intenso. Il sogno (reale) di Luigi Porto è in effetti un incubo; una sorta di catastrofe nucleare annunciata che, anziché essere vissuta in modo isterico dai protagonisti, viene vissuta “intimamente” da ciascuno di loro. Il sogno culmina con la sensazione di un vento nucleare che entra nelle ossa, rubando lentamente forza e vita. L’immanente catastrofe è il pretesto per una riflessione su se stessi, una sorta di “rivissuto” dei luoghi familiari. Porto immagina quindi un paesino con un solo abitante che sopravvive in una sorta di stasi contemplativa dopo l’olocausto, che tramite l’assunzione di una sostanza radioattiva viva in preda a continue allucinazioni e immagini di parlare con un suo alter-ego del passato che gli descrive i luoghi della vecchia Terra ancora abitata. Il solitario protagonista deve scegliere se continuare a vivere nel suo mondo artificiale, fatto di allucinazioni, di false percezioni extrasensoriali o rientrare nella realtà, per quanto questa sia triste e deprimente. Per poter scegliere bisogna scomodare Van Gogh e la città di Auvers Sur-Oise, dove il pittore si trova sepolto. Van Gogh, maestro della scelta della visione interiore su quella oggettiva, non può che spingere verso la fuga totale, senza ritorno, l’abbandono della vita reale per una vita esclusivamente interiore. L’uomo, dopo aver visitato la tomba di Van Gogh, si disconnette completamente dalla realtà postnucleare per vivere (o morire) nella follia in cui riesce ancora a comunicare.
My My After World non è solo musica elettronica, dentro si sentono chiaramente tante altre influenze, dalla musica classica del novecento alla new wave più surreale, al krautrock faustiano, alla elettronica più claustrofobica. E’ un viaggio complesso e profondo dentro la musica e forse anche nella psicologia dell’autore che qui crea il suo miglior lavoro.
Il primo brano La Lunga Strada Verso Casa, inizia con le sensazioni dell’attesa dell’imminente e immanente olocausto e termina con uno splendido piano degno di una sonata classica; uno dei punti più alti di tutto l’album.
On Walden, il cui titolo è un riferimento sia al Walden di Thoreau (libro del 1854 che descrive l’esperienza dell’autore che per 2 anni e 2 mesi visse in totale nei boschi nei pressi del lago Walden) che al successivo Walden di Jonas Mekas (un film in cui l’autore lituano, dal suo esilio americano, cerca una natura primordiale e scampoli della sua terra), è diviso a metà tra la voglia di fuga (Thoreau) e la voglia di ritorno a casa (Mekas). La prima parte ricorda qualcosa dei primi Faust, la seconda contiene una chitarra registrata su un walkman e poi processata al pc. Un brano di grande complessità e maturità. Nel video sotto la musica accompagna le immagini del film di Mekas.
I 17 colpi, contiene sovrapposizioni di rumori, stridori, rintocchi funerei associati a corni che ricordano l’avanguardia di Edgar Varese, è il brano più “nero” dell’album, insieme al successivo Il Barbiere. Auvers-Sur-Oise è una composizione elettronica lunga e dilatata in cui il protagonista visita la tomba di Van Gogh che lo aiuterà nella scelta di fuga nella sua mente.
Con Intermezzo troviamo la seconda anima dell’album. Pur breve, contiene elementi che lo rendono molto accostabile ad uno dei primi brani dei Residents o magari al Cage pianista precursore del minimalismo. Lo stesso può dirsi per il brano conclusivo Il Terrazzo. Il piano surreale, la voce in lontananza, i fiati distanti e deprimenti non possono che ricordare alcuni brani di Meet The Residents, penso ad esempio a Rest Aria, o alle atmosfere decadenti dei Tuxedomoon. L’olocausto di Porto termina in un surreale e opprimente cabaret. Se l’obiettivo era quello di trasportarci in un viaggio perturbante, farci vivere un’ora “fuori”dalla nostra realtà quotidiana, questo è pienamente raggiunto.