
Labradford | Labradford (1996)
L'album "perfetto" che riassume la nobile missione dei Labradford, austera colonna sonora di inumani paesaggi post-industriali abitati da spettri.
Il terzo album dei Labradford – dopo il monumento del post-rock più austero Prazision e l’intermedio A Stable Reference – è quello della perfetta fusione della musica Industrial dei Throbbing Gristle, dell’ambient di Brian Eno e delle atmosfere tipicamente psichedeliche dei Pink Floyd. Se già negli anni precedenti, in particolare con Prazision, i Labradford avevano raggiunto questo obiettivo, ora con l’omonimo Labradford giungono a quello che potremmo definire l’equilibrio perfetto, la perfetta sintesi delle tre influenze sopracitate.
Labradford e Prazision non sono semplici album; sono veri manifesti fondativi di una nuova musica che ha ormai abbandonato ogni legame col vecchio rock classico (la famosa triade blues-folk-country) e si muove libera per esplorare orizzonti totalmente nuovi. Labradford in particolare è l’album perfetto; sette brani che sono tutti altrettante perle di musica che ha ormai rinnegato le proprie origini; le rinnega non perché le contesta, ma perché è cosciente di essere già “altro”. La copertina dice tutto; uno scenario tipicamente industriale costruito in freddo metallo, paesaggio inumano abitato da uomini/fantasmi alienati, visto con gli occhi sfuocati di chi è in preda a un difficile trip lisergico.
L’oscurità degli album precedenti si fa più densa e strutturata; anche se l’elemento ritmo (tipico del rock classico) diventa più presente, questo non crea alcun legame col passato; si resta sempre in ambito rigorosamente post. Il mondo descritto è costantemente in bianco e nero, i colori sono ormai ricordi di epoche scomparse. L’uomo abitatore di questo mondo è solo un fantasma che di umano ha solo sparute sembianze. I Ladradford si pongono – in questo senso – come eredi sia delle apocalissi post-nucleari dei Faust, sia delle profezie devolutive dei Residents.

Labradford
Il primo brano – Phantom Channel Crossing – è una vera immersione nell’orrore dell’odierna società post-industriale. Un rumore di quelle che sembrano catene trascinate associate ad un drone cupo e oscuro e a sinistri stridori metallici, sono l’emblema stesso della disumanizzazione dell’odierno presente. Se i Residents hanno utilizzato il cabaret da “discarica” per descrivere la devoluzione umana imposta dalla società capitalistica, i Labradford utilizzano mezzi ben più truci e crudi e descrivono l’odierno come un vero horror senza speranza.
Il senso di oppressione si stempera all’improvviso con Midrange; è l’inizio di una serie di brani elettrici e acustici di grande semplicità e contemporaneamente di grande potenza, che non è possibile ascoltare senza sentirsi immersi in un altro mondo. La tastiera floydiana, i semplici arpeggi di chitarra , il ritmo della drum-machine e la voce appena sussurrata di Nelson trasformano l’orrore in malinconia. Infine irrompono i violini che ci ricollegano ai paesaggi post rock dei Godspeed You Black Emperor!
Pico è un dei brani più affascinanti e potenti dei Labradford. Basso, chitarra, tastiera e il canto che è poco più di un bisbiglio, creano una tensione esistenziale che assume la forza di un’austera preghiera laica. La potenza sopracitata non sta ovviamente nei watt, bensì nella sua straordinaria forza evocativa; poche note che semplicemente ci trasportano in altri luoghi che lo si voglia o meno.
The Cipher è il secondo incubo; vento elettronico senza ritmo nè armonia, assenza di luce, buio assoluto.
Secondo capolavoro è la colossale Lake Speed che riprende i brani elettroacustici; ancora rimandi ai Godspeed You Black Emperor!, ma neanche i canadesi possono ambire a tali livelli di desolazione. Siamo davvero alla colonna sonora del martirio e della macerazione; arpeggi di chitarra e dissonanze elettroniche descrivono un uomo ormai ridotto a fantasma senza volontà.
Nell’ipnosi di Scenic Recovery dominano i violini e le dissonanze mentre la spettrale Battered, ultimo capolavoro di Labradford, è forse il brano con più rimandi alle radici rock. La chitarra assume davvero il ruolo di protagonista, persino con accenni desert-rock, un ossessivo battere elettronico incede continuamente e termina in quella che è una vera melodia, trasformandosi quasi in una ballata per spettri.