
King Crimson | Islands (1971)
Islands è opera minimalista e umana, elegante fino alla fine e, nonostante il compositore sia Fripp, la chitarra non gioca mai un ruolo predominante, adatta semmai a rifinire ed esaltare con la sua presenza gli altri strumenti.
Era l’anno del Festival di Woodstock, il 1969, del tramonto definitivo e doloroso della hippie generation, quando sulla scena musicale londinese si affacciano per la prima volta i King Crimson, e da allora si è scritto molto di loro e del loro chitarrista Robert Fripp, rimasto componente cardine di una formazione che ha visto avvicendarsi ben diciotto componenti, ha avuto due parolieri e un esercito di tecnici e collaboratori a vario titolo.
“La deliberata dichiarazione da parte mia, nel 1969, che era possibile al rock di richiamarsi alla testa oltre che ai piedi causò una sorta d’esplosione passionale e fu considerata eretica“. Robert Fripp cerca la rivoluzione nel linguaggio del rock, ma vuole anche affermare che quella musica è arte e deve poter parlare a tutti in tutti i tempi e dunque ha bisogno di una disciplina, di processi intellettuali certi e orientati. Nell’ottobre di quello stesso anno i King Crimson debutteranno con il loro primo album In The Court Of Crimson King, per la Islands Record, un lavoro che segnerà l’inizio della nuova era del rock progressive, disco indimenticabile che riscuoterà un enorme successo, dove la band detterà gli stilemi compositivi di questo nuovo genere dietro la spinta di una potente necessità creativa.
In quel successo, tuttavia, la band troverà anche la sua disgregazione: i due album successivi saranno registrati, infatti, insieme con musicisti scovati tra le conoscenze più o meno dirette di Robert Fripp e con lunghe e snervanti sessioni di provini: egli è, infatti, prima di tutto un grande compositore e musicista, un guitar hero, che cerca testadarmente la perfezione, ma in cui non si avverte mai il minimo accenno di protagonismo, anzi, sembra piuttosto che voglia starsene in disparte, lontano dalle luci lasciando tutto il proscenio alla sua musica… Si arriva al 1971, e i King Crimson entrano in sala di registrazione per il loro quarto album, con una line up completamente rinnovata e stabile che potesse suonare anche dal vivo: sta per nascere Islands e insieme a Robert Fripp, chitarra, mellotron, armonium, abbiamo Boz Burrell, basso, voce; Mel Collins, flauto, sassofono, voce; Ian Wallace, batteria, voce e devono essere anche menzionati altri musicisti che hanno avuto un ruolo importante ma estemporaneo nell’esecuzione dei brani: Paulina Lucas, soprano; Keith Tippett, pianoforte; Robin Miller, oboe; Mark Charig, cornetta; Harry Miller, contrabbasso e altri orchestrali di cui non sono noti i nomi.
I King Crimson riusciranno a portare in tournée il loro spettacolo negli States, ma anche questa volta il gruppo si scioglierà logorato da forti tensioni interne e finirà anche la collaborazione tra Robert Fripp e Pete Sinfield, primo paroliere nonché geniale ingegnere del suono e delle luci, cui spetta una buona parte del successo fin lì conquistato dalla band. La copertina di Islands riporta la foto della nebulosa Trifida nella costellazione del Sagittario.
Da queste brevi note introduttive si capisce già che i King Crimson crearono, in quegli anni in cui sembrava che la musica dovesse compiere il miracolo di una rivoluzione nella morale e nel costume, una vera scuola della musica e della creatività, che avrebbe influenzato tutte le generazioni successive di musicisti, fondata su un approccio meticoloso alla musica, con un grande rigore intellettuale nella ricerca di nuove geometrie formali, di nuovi suoni che impreziosissero il processo creativo, senza appesantirne i contenuti, anzi ricercando semplicità, purezza e sincretismo. In Islands questi meccanismi sono già sviluppati insieme ad un grande e raffinato lirismo che i King Crimson non riusciranno a raggiungere più nelle loro opere successive. Si respira una magia intensa e aromatica, un velo esoterico a volte nasconde nelle liriche sensi reconditi, come se dita di neuromante si muovessero tra le corde, i tasti e i tamburi dei musicisti. Lo struggente lirismo di Islands è esperienza totalizzante, ancora oggi racchiude un fascino segreto e una segreta suggestione di cui non riusciamo a ricordare eguali per ricchezza di sfumature coloristiche e varietà espressiva. Islands è opera minimalista e umana, elegante fino alla fine: una costruzione dei brani senza difetti, una ricerca del suono perfetto e una ciclopica eccellenza degli interpreti, e tuttavia il risultato è tale da togliere ogni forza al gruppo che si scioglierà, come detto, alla fine del tour negli States.
Formentera Lady: brano acustico eppure ricco di sfumature spaziali, dal soffio intenso e mistico, inizia con una viola elettrica molto “archeggiata” che lascia il posto ben presto ad una ballata assorta e riflessiva con Keith Tippet al piano e Mel Collins al flauto; un giro di basso aprirà, poi, sotto di noi una galassia lontana e sospesa, popolata di voci spettrali e punteggiata dal sax, ora su una deriva sperimentale, ora su un riff corposo e tonante. La voce di Boz Burrell (che si occupa anche del basso, imparato in fretta proprio per la registrazione dell’album), dalla dizione molto anglosassone, ci regala forti suggestioni con vocalizzi asciutti e stimolanti.
Sailor’s tale: distogliamo gli occhi dai gorghi spaziali di Formentera Lady per tornare nelle regioni conosciute di una musica orientaleggiante e suggestiva, con scampanellii argentini e vocalizzi notturni e psichedelici che cresce via via sempre più forsennata, tenuta insieme dal ride di Wallace che dona al brano la giusta enfasi metallica. Si scende per brevi intensissimi momenti in un caos di fiati, di voluminosi inserti di orchestra e di tagli veloci di mellotron per approdare all’assolo di Fripp che si sviluppa sul lato destro dello spazio immaginato dai musicisti cui si affianca dalla parte opposta il flauto di Collins, ciascuno a sostegno dell’altro.
With quill and silver knife
She carved a poison pen
Wrote to her lover’s wife:
“Your husband’s seed has fed my flesh.”
As if a leper’s face
That tainted letter graced
The wife with choke-stone throat
Ran to the day with tear blind eyes.
Impaled on nails of ice
And raked with emerald fire
The wife with soul of snow
With steady hands begins to write.
“I’m still, I need no life
To serve on boys and men
What’s mine was yours is dead
I take my leave of mortal flesh”
The Letters: delicata e romantica intro di voce e chitarra, con una lirica evocativa e favolistica che tuttavia racconta eventi dolorosamente drammatici; poi il sax di Collins ci porta ai margini di una spirale di suono dirompente che ci avvolge lungo sentieri free jazz fino all’invocazione: “Impaled on nails of ice” che impone il decrescere lento del brano fino al termine. Vuoti e pieni della ritmica di Wallace rendono particolarmente preziosi i passaggi salienti.
Ladies on the road: sembra un omaggio un po’ ironico ai Beatles, ma la cura maniacale con cui è costruito il brano, la puntigliosità nell’irrobustire il canto solista con armonie vocali sincopate e cori, la grande precisione nel mixage delle varie parti vocali fa credere piuttosto ad una lezione di stile impreziosita dai lampi di sax, distorsioni e vari ritagli di crimson’s style. I Pink Floyd se ne serviranno per il celeberrimo Money e Boz Burrell, pur occhieggiando Come togheter saprà rimanere originale, sfuggendo l’asprezza lisergica della voce di Lennon.
Prelude: Song for the Gulls: brano per archi e oboe, tenue e intenso, che farebbe la sua figura anche tra i grandi capolavori del barocco musicale. Ci apre le porte alla titletrack di cui costituisce, di fatto, l’incipit.
Earth, stream and tree encircled by sea
Waves sweep the sand from my island.
My sunsets fade.
Field and glade wait only for rain
Grain after grain love erodes my
High weathered walls which fend off the tide
Cradle the wind
to my island.
Gaunt granite climbs where gulls wheel and glide
Mournfully glide o’er my island.
My dawn bride’s veil, damp and pale,
Dissolves in the sun.
Love’s web is spun – cats prowl, mice run
Wreathe snatch-hand briars where owls know my eyes
Violet skies
Touch my island,
Touch me.
Beneath the wind turned wave
Infinite peace
Islands join hands
‘Neath heaven’s sea.
Dark harbour quays like fingers of stone
Hungrily reach from my island.
Clutch sailor’s words – pearls and gourds
Are strewn on my shore.
Equal in love, bound in circles.
Earth, stream and tree return to the sea
Waves sweep sand from my island,
from me.
Islands: il bellissimo testo di Sinfields offre l’occasione per un capolavoro, il brano probabilmente più bello e sofferto dei King Crimson e comunque il momento più alto dell’album. Siamo ben oltre il rock, siamo in una dimensione artistica completa, libera e svincolata da qualunque canone, un gesto totale e simbolico, in cui la voce di Boz Burrell, dolcemente virile, si scioglie nel testo diventandone la dimensione sonora, riesce a scendere dentro sè stessa a trovare sonorità profonde e tranquille, esprimendo una narrazione chiara e priva di ogni difetto. Burrell sarà accompagnato dal piano di Keith Tippett e dal flauto di Mel Collins fino a tutta la terza strofa la più breve che terminerà con un breve assolo di piano e dall’ingresso della cornetta di Mark Charig, che inizia ripetendo accorata il tema in un soffio nostalgico bagnato di mare e di pianto, profumato di brughiere e di strida di uccelli… Torna di nuovo la voce per l’ultima strofa questa volta insieme con l’oboe di Robin Miller, e il brano inizia a sciogliersi in un finale romantico e drammatico, letteralmente infinito dove il mellotron accompagnerà il solo di cornetta fino a rimanere attore unico nel sustain finale…
L’album Islands è un formidabile dono dei King Crimson.
Islands ci aiuta a capire meglio tutti i cambiamenti e le evoluzioni che i King Crimson sperimenteranno da questo lavoro in poi e che porteranno la band verso i limiti estremi di una musica geometrica e fortemente intellettualizzata, complessa ed evocativa in cui incarneranno sempre di più il rock progressivo europeo.
Un’ultima curiosità: subito dopo il brano Islands, sulla incisione in vinile troviamo un breve e curioso frammento (come già in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, alla fine di A day in the life) tratto dalle sedute di registrazione del brano Prelude: Song Of The Gulls. Sulla raccolta The 21st Century Guide to King Crimson – Volume One, 1969-1974 pubblicata nel 2004, il frammento comparirà come una traccia a sé stante, dal titolo Tuning Up.