
King Crimson | In the Court of the Crimson King (1969)
Alla corte del Re Cremisi: il manifesto del Progressive e l’epitaffio della Psichedelia
“In the Court of the Crimson King” viene generalmente indicato come inizio formale e manifesto fondativo del progressive-rock. Registrato nell’estate del 1969, l’album d’esordio dei King Crimson esce il 10 ottobre dello stesso anno suscitando subito una grande impressione. I King Crimson erano nati ufficialmente nel gennaio del 1969 dai resti del trio che il geniale chitarrista Robert Fripp aveva formato coi fratelli Giles: Peter, bassista, e Mick, raffinato e potente batterista d’impronta jazz. A quest’ultimo e a Fripp, si aggiunsero man mano il polistrumentista Ian McDonald ai fiati, vibrafono, mellotron, tastiere e voce, quindi Peter Sinfield, paroliere (accreditato per “Lyrics and Illumination”) e Greg Lake al basso e voce.
Ciò che prima di tutto colpisce in questo rivoluzionario disco sono la maturità e la ricchezza del suo sound, che in una ideale scala evolutiva del progressive-rock rappresenta una svolta sorprendente rispetto a tutto il proto-progressive prodotto fino ad allora. Esaminando il background dei singoli componenti a partire da Fripp, emergono almeno 2 dati significativi: 1) si trattava di ottimi musicisti, la cui formazione e i cui gusti andavano oltre i confini del pop-rock spaziando dal blues, al jazz, alla musica classica, ma che il pop-rock aveva naturalmente influenzato attraverso le sue manifestazioni più avanzate, psichedeliche e/o pre-progressive; 2) il contributo di Fripp fu senza dubbio determinante, ma a meno di non “spiegarlo” in termini di puro e semplice genio, resta ineffabile per quanto coerente con i prodromi di un percorso musicale originalissimo.
Poco più di un anno prima di “In the Court” (settembre 1968), il trio Giles, Giles & Fripp aveva realizzato “The Cheerful Insanity of…”, suo primo e ultimo album, che è, infatti, un autentico unicum nel panorama post-psichedelico inglese. Fripp stesso racconta, tuttavia, di esperienze musicali apparentemente comuni un po’ a tutta la sua generazione, ossia di essere stato folgorato dall’ascolto di “A Day in the Life” dei Beatles, di ispirarsi al Clapton dei Bluesbreakers di John Mayall e a Hendrix, ciò che lo colloca su un terreno decisamente frequentato, al tempo, dove il rock&blues (se non proprio il blues revival inglese) si incontrava con la psichedelia ma soprattutto con le forme più ambiziose di pre-progressive. Più significativo è il progetto musicale descritto da Fripp, essenzialmente come superamento di tutti questi generi e stili e come realizzazione di una sintesi nuova, ispirata al jazz e ancor più alla musica sinfonica, specie tardo-romantica e moderna (parla di Stravinskij, Dvořák e Bartók). Anche il fatto che sotto il profilo discografico Giles, Giles & Fripp avessero la stessa collocazione (se non altro appartenevano alla stessa etichetta, la Deram) di band più popolari ancora oggi come i Moody Blues o i canterburiani Caravan non dice molto. Certo, non si può escludere che Fripp sia stato influenzato, oltre che dai Beatles post-1966, da altre band che avevano preso all’incirca lo stesso percorso e forse altrettanto influenti: i Moody Blues, i Mothers of Invention e addirittura gli Spirit o i Love di “Forever Changes”. D’altra parte, i Soft Machine, band di riferimento nell’Underground inglese e tra le più innovative che questo abbia espresso, sembrano avere in comune con i primi King Crimson più che altro una certa lettura della psichedelia, mediata dal jazz e dalle avanguardie colte, mentre restano lontani dalla dimensione “classica” di Fripp & Co.
Quello che già a prima vista differenzia “In the Court of the Crimson King” dalla variegata fenomenologia pop-rock classificabile come pre-/proto-progressive e come post-psichedelica sta proprio nel fatto di assimilare l’orchestrazione, che cessa di essere (soltanto) un elemento esteriore dialogante con la band per diventare concezione orchestrale, modellata su riferimenti classici e jazzistici. Un fatto di strumentazione? anche: l’impiego del mellotron su larga scala contribuì indubbiamente a dare profondità e ampiezza al nuovo sound. Eppure né la chitarra di Fripp, né il mellotron di McDonald sarebbero bastati, evidentemente, a fare di “In the Court” l’atto di nascita del progressive, se non in quanto parte di una sintesi ben più complessa. Ai King Crimson va il merito di aver riutilizzato in chiave nuova e già compiutamente “progressive” due dei generi che dominavano la scena musicale inglese dalla metà degli anni ’60, la psichedelia e fors’anche più il folk-revival, col suo corollario di ballate e rapsodie, di reminiscenze medievali e “Tudor”.
Un’autentica summa di tutte queste suggestioni si trova nel lungo brano di chiusura, che diede il titolo all’album e il nome alla band, ma anche nell’apice visionario di “Moonchild”. “I Talk to the Wind” aggiunge sonorità jazz a una trama raffinata ed aerea, mai melensa! “21st Century Schizoid Man” e “Epitaph” portano il neonato progressive già al culmine della potenza e della maestosità, ma introducono una nota di fondo inquietante e magica (come non dare ragione a Townshend quando parla di «an uncanny masterpiece »?). Questa nota vibra dalle profondità dell’Io individuale e collettivo e trasferisce definitivamente su un piano tutto intellettuale ed estetico la riflessione politica che ancora lacerava la psichedelia soprattutto al di là dell’Atlantico.
C’è una coincidenza che vale la pena sottolineare tra l’uscita di “In the Court”, nell’ottobre 1969, e Woodstock, nell’agosto dello stesso anno. Da una parte, cioè, il leggendario concerto che, a torto o a ragione, è considerato il canto del cigno della contro-cultura hippy e psichedelica; dall’altra un album che segna l’inizio di una fase nuova, nella quale il pop-rock sperimentale si ripiegherà su sé stesso, fino all’auto-celebrazione e al declino nella seconda metà degli anni ’70. Contemporaneamente, la nascita del progressive, fenomeno tutto inglese ed europeo, accrescerà il distacco dalla scena musicale americana, che già era chiaro nel confronto tra le “rispettive psichedelie” (in particolare tra la psichedelia californiana e quella inglese) sotto il profilo del coinvolgimento politico e “contro-culturale”. Soprattutto con “Epitaph”, “In the Court of the Crimson King” si configura come manifesto culturale oltre che musicale del progressive-rock, che icasticamente lega a un medioevo post-apocalittico, dove ogni profezia sembra essersi compiuta e l’orrore della morte, dell’innocenza «violentata dal napalm» è l’unica realtà, mentre alla corte del Re Cremisi tutto è finzione. L’uomo intravede la fine del millennio ed è solo, senza più ideali, davanti alle «porte velenose» della follia. Non c’è più promessa nell’infanzia, se non nel surreale incanto di un raggio di luna che spera solo di svanire alle prime luci dell’alba. Quanto suona distante, ormai, l’utopia psichedelica! Come dire: “e tutto iniziò con un sublime epitaffio…”
Per le notizie autobiografiche di Fripp e la storia dei KC, si veda: http://www.progressiveears.com/frippbook/contents.htm