
Khan | Space Shanty (1972)
Uno dei più sconosciuti quanto eccellenti album
Se qualcuno per assurdo dovesse avere l’arduo compito di reperire nell’immensa discografia internazionale un solo album che, musicalmente e concettualmente, possa contenere ed esprimere contemporaneamente progressive, psichedelia e rock canterburiano, nella loro più genuina natura, ci si troverebbe di fronte a un’impresa a dir poco complessa e impegnativa. Eppure un album c’è, stranamente sottovalutato dal grande pubblico ma alquanto interessante e rappresentativo; si tratta proprio di “Space Shanty”, unico e solo lavoro di una sorta di momentaneo supergruppo chiamato Khan, che nasce quasi per caso dalla decisa volontà di Steve Hillage, il celebre chitarrista dei futuri Gong. Nato a Londra nel 1951, Hillage ebbe la sua prima chitarra all’età di nove anni e successivamente iniziò ad essere profondamente influenzato dallo stile di John Coltrane e soprattutto di Jimi Hendrix, la leggenda di Seattle che Steve ebbe modo di ammirare dal vivo in uno dei suoi primissimi concerti londinesi.
Abbandonando gli studi universitari di storia e filosofia a Canterbury per dedicarsi totalmente alla musica, nonché dopo la psichedelica e proficua esperienza con gli Uriel e con gli Arzachel, Hillage nel 1971 tornò con convinzione a Londra per formare quello che sarà la prima incarnazione dei Khan con Nick Greenwood al basso, Dick Henningham alle tastiere e Pip Pyle alla batteria. L’esperienza di questi grandi musicisti nel panorama del rock canterburiano era innegabile e basta citare solo The Crazy World of Arthur Brown (Greenwood e Henningham), nonché Gong, Hatfield and the North e National Health (Pyle) per rendersene conto.
Con questa formazione Hillage firmò un contratto con il manager dei Caravan Terry King ma, poco prima dell’inizio delle sedute di registrazione, Pip Pyle anzitutto decise di abbandonare il progetto per venire sostituito da Eric Peachey, seguito immediatamente dopo da Dick Henningham. I Khan, intanto, si recarono nel dicembre del 1971 ai Command Studios per l’inizio delle session di registrazione, sebbene servisse un tastierista. La produzione fu affidata allo stesso che si era occupato dell’album “The Polite Force” degli Egg, Neil Slaven.
A Hillage venne allora in mente di contattare il suo ex tastierista negli Uriel, Dave Stewart, ancora impegnato proprio con gli Egg, il quale accettò entusiasticamente. Quelle registrazioni, che terminarono nel marzo successivo, diedero vita a un album interessante, corposo, elegante, accattivante e musicalmente strepitoso, con Hillage e Greenwood alla voce. Tutte le esperienze e i gusti di ciascun strumentista confluì perfettamente sotto la guida creativa dello stesso Hillage e l’intreccio tra elementi progressive, psichedelici e canterburiani fu efficace e sorprendente. Non poterono che seguire ottimi concerti fino a quando più di qualcuno, a partire dallo stesso Terry King, non si convinse del fatto che tale genere cominciava ad essere poco commerciale e sempre più vicino a quello dei Soft Machine. La delusione per queste esternazioni fu tanta e la band non riuscì a realizzare un eventuale secondo album, sciogliendosi prematuramente. Per questo motivo la straordinarietà di quell’unico album va resa ancora più evidente (a partire dalla “spaziale” illustrazione di copertina), nonostante per anni, con l’avvento del CD, “Space Shanty” non avrebbe visto minimamente la luce se non di recente e poi anche con l’aggiunta di due bonus track.
Si inizia con il brano che da’ il nome all’album, “Space Shanty”, accompagnato dal sottotitolo che include “The Cobalt Sequence and March of the Sine Squadrons”, con cui la band intesse un sound ben scandito dalle tastiere e dalla voce, offrendo subito la ricetta con ci si impegna in ogni esecuzione: strutture chiare e ben predisposte, tipiche del progressive, ma genialmente dotate di spazi in cui seguire la propria ispirazione e lasciarsi andare a occasionali quanto affascinanti improvvisazioni, senza mai eccedere o scadere nell’autocompiacimento tecnico.
Tale imprescindibile equilibrio tra le varie parti è presente nella successiva “Stranded”, malinconica ballata dal sapore psichedelico, in cui le parti sonore titpicamente ‘canterburiane’ di ciascun strumentista fanno da supporto alla voce di Hillage.
Tracce di space rock aprono uno dei brani migliori dell’album, “Mixed Up Man of the Mountains”, laddove l’unione tra la dinamicità stilistica della batteria e le incursioni progressive del tastierista si compenetrano perfettamente attraverso le parti vocali e la magistrale chitarra di Hillage.
Rock canterburiano allo stato puro, quello che ad esempio distinguerà i Camel per intenderci, scandisce il successivo ed interessante “Driving to Amsterdam”. Ancora una volta la dimostrazione di un talento innegabile da parte di una grande band che alterna in ciascun brano momenti musicali più coinvolgenti e andanti a dilatazioni più dolci ed evocative, per ritornare nuovamente a sviluppi più rockeggianti e complessi.
L’impianto più propriamente progressive fa da anima musicale a “Stargazers”, imperniato soprattutto sulle ritmiche e sulle lodevoli parti chitarristiche perfettamente fuse con quelle sempre pertinenti di Dave Stewart.
E infine ecco giungere il brano più eccelso dell’intero album, “Hollow Stone”, una incredibile fusione espressiva di sonorità a cavallo tra atmosfere vagamente psichedeliche e spaziali e arrangiamenti progressive, sottolineati dall’ispiratissima parte vocale di Hillage, nonché dalla magica chitarra e dalla solida esperienza di Stewart. Quest’ultimo contribuisce grandemente a ricreare, assieme a Peachey, un impareggiabile arazzo musicale che rende questo brano completo e affascinante da tutti i punti di vista, anche da quello dei testi, a tratti poetici ed estremamente evocativi. Chiudono il CD ripubblicato nel 2004 due “nuove” tracce ripescate dai master originali, “Break the chains”, ossia una piacevole composizione di Hillage tra freak e rock canterburiano, davvero accattivante e trainante, e la versione originaria di “Mixed Up Man of The Mountains” prima del suo definitivo riarrangiamento. Si chiude così un album strepitoso (di lì a poco Steve Hillage avrebbe esordito come solista nel suo “Fish Rising”, da molti considerato – assieme a “Green” – il suo capolavoro). “Space Shanty” si presenta pertanto come un album imperdibile, seppur nel suo ingiusto e relativo anonimato, decisamente brillante e di buon gusto, mai fine a se stesso o pretenzioso, che dimostra ancora una volta l’eccezionalità di quel fervido periodo tra Sixties e Seventies così ricco di spunti creativi ed espressivi.