
Kevin Ayers | Bananamour (1973)
Kevin Ayers fu uno degli auto-goal più clamorosi della storia musicale, un genio il cui successo fu invalidato soltanto dalla sua congenita pigrizia
Anno 1973. Kevin Ayers decise di sciogliere definitivamente i superstiti Whole World in seguito alle fatiche promozionali di Whatevershebringswesing, ma dopo aver giocosamente bazzicato per un breve tour in compagnia dei Gong, capí che era arrivato il momento di rimboccarsi nuovamente le maniche. Così l’ex Soft Machine chiamò a sè un nuovo gruppo per registrare il quarto album, fondando dapprima gli Archibald con il bassista Archie Leggett (presentatogli da Daevid Allen), poi i Decadence, quando al duo si unirono il batterista Eddie Sparrow ed il chitarrista Steve Hillage.
Nel maggio del 1973 uscì nei negozi Bananamour (il cui titolo allude alla banana, simbolo della musica di Ayers che, secondo lui, perde “vigorosità” quando viene sbucciata), in cui oltre alla formazione sovra-elencata, ritroviamo anche i vecchi compagni dei Soft Machine Robert Wyatt e Mike Ratledge e l’immancabile arrangiatore David Bedford – assente giustificato fu invece il giovane Mike Oldfield, che in quel periodo stava forgiando le rumorose e dannate Tubular Bells.

Kevin Ayers
Arrivati a questo punto della sua carriera, Ayers stava muovendo i primi timidi passi verso uno stile più tradizionale, e nonostante la presenza di personaggi eclettici come Wyatt e Hillage in qualità di ospiti, la migrazione verso un clima sonoro più caldo e convenzionale continua ad essere palese: in questo disco, Kevin raggiunse l’apice delle sue possibilità commerciali, evitando a tal fine di immergersi in estrose pseudo-avanguardie, optando piuttosto per una musica pop comunque eccentrica, scandita da percussioni minimaliste, un sofisticato songwriting, un occasionale suono glam-rock e, soprattutto, un preminente R&B, che sostituì il country del precedente album come principale leitmotiv. Ma Bananamour è anche l’ultimo disco del primo periodo Harvest di Ayers e, come a voler chiudere un cerchio perfetto, vi ritroviamo quasi l’approccio istintivo che aveva caratterizzato l’esordio di Joy of a Toy, contraddistinto sostanzialmente da un pop psichedelico aromatizzato dalle stranezze autoctone di Canterbury.
La saggezza eufonica di Don’t Let It Get You Down dà il via all’album, con una grande sezione orchestrale ed i cori delle voci celestiali di Liza Strike, Doris Troy e Barry St. John (tre nomi che suoneranno familiari a chiunque abbia letto le note di copertina di The Dark Side of The Moon), unite a Kevin Ayers in un pop scanzonato e serafico, sospinto dai bellissimi consigli esistenziali contenuti nell’incoraggiante testo.
In seguito, l’eccentrica Shouting In A Bucket Blues si rivela come uno dei punti salienti dell’album, oltre ad avere uno dei titoli più originali di tutti i tempi: un impressionante Kevin Ayers declama il suo satirico “urlo nel secchio” come un Leonard Cohen sotto steroidi, tuttavia il profilo migliore della canzone rimane quello della chitarra aeronautica di Steve Hillage.
La stravaganza accarezza poi la tradizione in When Your Parents Go to Sleep, un brano che possiede al suo interno una conturbante sezione di fiati, mentre la voce principale è ricoperta dal bassista Archie Legget, dato che Kevin – con il suo focoso timbro baritonale – aveva bisogno di qualcuno che cantasse alla maniera di Ray Charles, in un numero di lento e gelido blues.
Il colorato funky di Interview suona poi come una prefigurazione dei momenti psichedelici di The Confessions of Dr. Dream and Other Stories: spicca su tutti l’acidulo organo Lowrey di Mike Ratledge (suonato con il fuzzbox, con tanto di eco) che riporta alla mente il primo album dei Soft Machine, in combinazione con una sezione ritmica che produce alcuni dei momenti più allucinanti di questa “banana sonora”, soprattutto grazie ai bonghi spettrali che riverberano nella corde vocali di Ayers.
Il fulmineo soul di Internotional Anthem può essere visto come un trampolino di lancio verso il capolavoro del disco, l‘alienante litania di Decadence: in cima ai suoi deliziosi arpeggi di chitarra, Kevin Ayers canta il suo cordiale inno alla maniera di Nico, chiudendo il tutto nel brindisi di un nostalgico “drink it to Marlene” che va ad omaggiare l’algida modella ed amica, con la quale, un anno più tardi, dividerà anche il palco assieme a Brian Eno e John Cale nello storico concerto messo su disco del 1 giugno 1974. Vi è un potente accumulo di pathos che ricorda, quasi, la struttura di “Heroin” dei Velvet Underground, un mantra crepuscolare alleggerito dalle smanie lisergiche di Lou Reed e qui recitato simultaneamente della chitarra “dronizzata” di Steve Hillage, dal nebuloso organo Hammond e da un ronzante synth analogico, tutti incatenati dopo la metà del pezzo dal rigido filo d’Arianna dei battiti metronomici di Eddie Sparrow.
Oh! Wot A Dream è la canzone che Kevin Ayers scrisse per il suo caro amico Syd Barrett, plasmando in maniera ludica ma efficace un educato bailamme di estrose percussioni, anatre starnazzanti ed il tintinnio di alcuni bicchieri, insieme in quello che pare un collage di disimpegnata “musica concreta”, con la chitarra slide che va a suggellare questa ingenua cavalcata country-pop. Nonostante la sopraffine bellezza di Wish You Were Here dei Pink Floyd, questa traccia rimane – a mio umile avviso – forse quella che più rende giustizia al compianto “diamante pazzo”, il cui spirito giocoso viene evocato nel banale ricordo di una camminata pomeridiana e nel suo semplice donare un panino ad un affamato Kevin Ayers, con un testo talmente spontaneo e diretto da risultare toccante proprio per questa sua spiazzante sincerità, priva di barocchismi e trucchi d’alcun genere.
In Hymn Kevin Ayers torna a duettare con il vecchio amico Robert Wyatt, in una ballata psichedelica cullata da una chitarra acustica passata sotto l’effetto Leslie, un brulla sezione ritmica ed un pianoforte tintinnante, una cornice perfetta per la cascata melismatica dei due complementari ex Soft Machine, con la voce flebile di Robert che viene riempita dal canto cavernoso di Kevin.
Infine, il veleno è nella coda (come ammonivano i latini): la breve quanto greve Beware Of The Dog è il finale drammatico e fatale che nessuno si aspetta, complice sicuramente l’arrangiamento orchestrale di David Bedford quasi da brass-band, con corni pastorali e tromboni apocalittici che danno vita ad un crescendo rossiniano culminante nel travolgente e secco epilogo.
Per concludere, da questo disco non ci si possono aspettare grossi momenti di jazz o altri sofismi sonori, piuttosto una visione variegata e perfettamente accessibile dei pensieri di un eccentrico artista. Proprio per questo, Bananamour è l’album della maturità di Ayers, le cui misere soddisfazioni commerciali lo portarono anzitempo alla rescissione del contratto con la Harvest e ad un graduale disinteresse verso la scena musicale, in favore (manco a dirlo) del sole delle Baleari, da sempre tana del suo esilio: anche se non è all’altezza del precedente Whatevershebringswesing nè del successivo The Confessions of Dr. Dream and Other Stories (con cui Ayers passò temporaneamente alla Island), Bananamour risulta comunque una gradita aggiunta ad ogni collezione di rock canterburiano che si rispetti, ma soprattutto la dimostrazione che la musica cosiddetta “pop” se intelligentemente composta può anche prendere le distanze dall’uniformità del suo genere e regalare alcune semplici ma potenti lezioni di vita.