
Jan Dukes De Grey | Mice and Rats in the Loft (1971)
Il progressive mefistofelico del trio di Leeds
I Jan Dukes De Grey nascono come un irriverente duo folk a metà degli anni Sessanta, nella città di Leeds. Dopo un breve passaggio nei Buster Summers Express, il polistrumentista e cantante Derek Noy incontra in quegli anni il flautista Michael Bairstow, dando vita ad una formazione dal nome esotico e intrigante, pensato da Noy senza ulteriori significati nascosti. Il primo album, Sorceres (Decca, 1970) viene rilasciato con una copertina rossa deliziosamente psichedelica ma le sue vendite sono tutt’altro che impressionanti, tanto che la Decca si trova costretta a sbarazzarsi del gruppo, che approda pochi mesi più tardi alla Transatlantic. Giunti a questo punto, il duo ha accolto nella formazione l’amico e batterista Denis Conlan e ha, inoltre, ampliato i suoi orizzonti musicalali; se il primo album era un esperimento disinvolto e spontaneo in diciotto brevi canzoni, Mice and Rats in the Loft (1971) viene invece confezionato in tre sole lunghe composizioni, nessuna delle quali viene rilasciata come singolo. Anche se tutti i brani eseguiti sono ancora stati scritti da Noy, il sound della band cambia notevolmente nel periodo intercorso tra il primo e il secondo disco. Questa nuova veste sonora trova peraltro il consenso dei circuiti universitari e un modesto successo, che porta i Jan Dukes de Grey ad aprire ai concerti di grandi nomi del rock come i Pink Floyd nel novembre del 1969 e gli Who nel maggio del 1970. Nettamente diverso dal loro album di debutto, il secondo lavoro in studio dei Jan Dukes de Grey è sicuramente meno frammentario e più estremo di Sorceres, con i temi progressivi espressi in modo selvaggio e maniacale: un espediente che li ha portati a essere spesso paragonati dalla stampa ai Comus di First Utterance.
L’opener “Sun Symphonica” incarna tutto lo spirito della band; dopo un avvio piuttosto leggero, si rinforza per un assalto sonoro con un esercito strumentale piuttosto variegato, che comprende sassofoni, flauti, trombe, clarinetti, tromboni e chitarre, il tutto realizzato con l’ausilio di un’orchestra di supporto, che conferisce alla musica un tocco sinfonico ed epico. Un’atmosfera più sinistra si rivela invece verso la metà del brano, descrivendo la decapitazione di una giovane ragazza, resa ancora più inquietante dalla voce minacciosa di Derek: se i primi sei minuti sviluppano un buon mix di folk-rock in bilico tra Comus e Jethro Tull, in seguito la musica si immerge in una profonda follia con il melange tra le pennate della chitarra a 12 corde e un superbo drumming fomentato dal turbine degli strumenti a fiato, che riportano poi l’ascoltatore nel tema iniziale ripreso sul finale, questa volta in una luce assolutamente negativa.
Il lato B inizia con Call of the Wild, che utilizza armonie multi-vocali per creare un suono davvero peculiare, con le chitarre acustiche distorte che conferiscono un mood molto scuro e originale. La struttura della canzone si dissolve in seguito, con Derek che ci trascina in un viaggio acido che, come per la prima traccia, culmina negli ultimi minuti in una melopea cupamente psichedelica.
La più bizzarra Mice and Rats in the Loft conclude l’album, a partire dal rumore acuto di una sirena che rapidamente scava in una delle più mortali sezioni ritmiche di sempre, portando alla mente le improvvisazioni lisergiche degli Amon Düül II. Anche in questo caso, il testo avanza in visioni arcane e raccapriccianti, utilizzate con grande efficacia (“The screams of the victims still echo though it’s centuries since they died“) e modulate in un capolavoro di acid-rock traboccante di morbosi sacrifici religiosi, chitarre hendrixiane, spettrali comparsate del flauto, recitativi intensi, percussioni esotiche e una sezione ritmica mefistofelica.
Mice and Rats in the Loft, a discapito dei numerosi paragoni con First Utterance, offre un’esperienza di ascolto sostanzialmente più sfumata e varia. Un progressive-folk infestato dai fantasmi, quindi, che sicuramente può rendere felice gli ascoltatori più lontani dal lato sinfonico e pomposo del genere.