
Iron Butterfly | Metamorphosis (1970)
L'inevitabile arrivo della metamorfosi finale
Dopo i fasti del periodo rock psichedelico simboleggiato soprattutto dal brano più famoso e fortunato, “In-A-Gadda-Da-Vida” (titolo omonimo del brillante secondo album), gli Iron Butterfly, guidati dal carisma e dal talento di Doug Ingle, diedero una piccola grande svolta al proprio sound realizzando nel 1970 il loro quarto album in studio. Con l’abbandono del chitarrista Erik Brann, la band statunitense pubblicò infatti un lavoro foriero di cambiamenti (da cui il significativo titolo) e arrangiamenti più curati e definiti. La tendenza parve quella di mitigare l’eterogeneo ‘imprinting’ improvvisativo – tra proto hard rock e psichedelia – che aveva contribuito a plasmare l’identità della band. Il sound sembrava ora ammiccare al primo eccellente album degli Allman Brothers Band, soprattutto negli interventi chitarristici, ma l’esperienza e la creatività di Ingle e compagni produssero risultati originali e lodevoli, nonostante l’iniziale scarso successo di vendite. “Metamorphosis“, pertanto, con l’ingresso di professionisti preparati come Larry “Rhino” Reinhardt e Mike Pinera (entrambi alle chitarre), nonché Lee Dorman al basso, Ron Bushy alla batteria e naturalmente Doug Igle alle tastiere e alla voce, più altri strumentisti occasionali, effettuò un sentito e deciso cambio di rotta, senza comunque perdere lo stile e lo spirito originari. Prodotto da Richard Podolor, l’album risultò da subito robusto nelle sonorità e ben congegnato nelle composizioni, con atmosfere vagamente a cavallo tra Doors e Wishbone Ash, propense a schemi più immediati ma non troppo prevedibili; e non senza squisite e lievi venature psichedeliche.
http://youtu.be/yvMCn8ntvC4
Già il brano d’apertura, “Free flight“, che verrà poi ripreso alla fine dell’album in un cerchio che va a chiudersi, segna una consapevolezza musicale che evidenzia un’oculata strutturazione dell’intero album. Ma è la seconda traccia, “A new day“, a mostrare chiaramente le carte in tavola, con un potente e irresistibile rockblues, ben articolato e perfettamente suonato, con la voce di Ingle sempre carica, profonda e ispirata. Come già detto, tutti i successivi brani seguono tale livello qualitativo, segno di una innegabile crescita ed esperienza musicale, seppur a scapito delle passate divagazioni psichedeliche, e ciò va a favore di una necessaria rivalutazione di quello che sarà, purtroppo, l’ultimo album della band nella loro formazione ‘classica’.
Le nove tracce dunque spiccano per impatto sonoro e coinvolgimento emotivo, risultando tutte varie e interessanti (ne sono esempi la malinconica “Slower than guns” o la formidabile “Stone believer“).
La ciliegina sulla torta è probabilmente il brano finale, “Butterfly bleu“, il cui compito è quello di rievocare più esplicitamente la psichedelia rock (marchio di fabbrica della band) concedendo finanche qualche bizzarra sperimentazione vocale dello stesso Ingle.
Ultima, ma non meno importante, la suggestiva immagine di copertina (che graficamente richiama quella di “Heavy“, l’esordio del 1968), probabilmente la più rimarchevole di tutta la loro discografia.